venerdì 28 settembre 2018

Recensione: Ogni stella lo stesso desiderio, di Laura Bonalumi

| Ogni stella lo stesso desiderio, di Laura Bonalumi. Piemme Vortici, € 13, pp. 208 |

Arriva a ottobre, a lezioni inoltrate, sovvertendo gli equilibri interni di un classe – una terza liceo, per la precisione – di diciotto studenti, colti alla sprovvista da quell'inatteso più uno. 
Si chiama Guido, è l'ultimo arrivato in città e, timidissimo, non vorrebbe fare troppo rumore. Lo denunciano presto, tuttavia, le assenze frequenti di cui si spettegola tra i banchi di scuola, quando il dramma del cambiamento dei posti a sedere è ormai acqua passata; una tosse aggressiva, soprattutto, che scuote il suo corpo magro e le convinzioni di una diciassettenne acqua e sapone subito incuriosita da un coetaneo che fra i sogni nel cassetto ha quello di pubblicare una raccolta di poesie e innamorarsi. Amelia non sa ancora che leggerà appassionatamente le prime e che, a cuore aperto, lo aiuterà a spuntare il secondo punto della sua bucket list: avere una ragazza accanto, nella buona e nella cattiva sorte.

Sottolineo a matita frasi che mi piacciono, cerchio interi paragrafi che mi emozionano, incollo post-it colorati su pagine che sembrano memorabili. Mi piace pensare che i miei libri vivano. E io con loro.

Scoperta lo scorso anno con Voce di lupo, prezioso romanzo di formazione sul crescere e sul perdonarsi consigliato non soltanto a un pubblico di giovanissimi, Laura Bonalumi è tornata in libreria con un altro titolo per ragazzi: un'altra storia di adolescenti costretti a fronteggiare presto un mondo che non fa sconti, un'altra faccia del dolore. Si parla, infatti, di amore e malattia: binomio amaro, ma che su carta è spesso vincente. 
Il misterioso Guido, infatti, è malato di fibrosi cistica, e a lungo, durante la lettura, sarà ricoverato in ospedale con una flebo nel braccio e una camera asettica tutt'intorno: troppo cagionevole per stare a contatto con gli altri, costantemente in apnea. Amelia, e con lei una Laura armata di speranza e discrezione, lo raggiungono lì. Si parlerà dunque dei dispiaceri dei giovani ai giovani, con la delicatezza di sempre a rispondere all'appello. Sono le modalità, questa volta, a essere purtroppo meno originali, con le relazioni a tempo determinato di John Green, Alessandro D'Avenia e Silvia Montemurro e gli scambi telematici di Le ho mai raccontato del vento del nord. Ci si parlerà, sì, ma per via epistolare, con le e-mail di Daniel Glattauer a rimpiazzare le lettere vecchio stile. Ne nasce una corrispondenza che li fa conoscere, svelare, scoprire indispensabili l'uno per l'altra: i genitori che si preoccupano per il troppo tempo speso in chat, le migliori amiche che non a torto sindacano che il male di Guido potrebbe rovinare la giovinezza di Amelia. Sanno tanto di loro per iscritto, ma non che forma abbia precisamente il naso di cui lei tanto si vergogna; non l'altezza esatta di lui, né la sfumatura nocciola dei suoi occhi belli. Si piacerebbero faccia a faccia, in un ambiente neutrale, dopo essersi confessati l'inconfessabile con l'ausilio di una scrittura che li ha resi affini? Cosa sarebbe della spensieratezza della protagonista, che assorbita dalle problematiche di Guido, dall'inseguimento di un tempo tiranno, rischia di crescere in fretta per sostenere un amico – e molto più – nei momenti difficili?

Se solo il vento potesse regalarmi un po' del suo respiro
Lo userei per raccontare la bellezza della vita
La gioia di svegliarmi ancora vivo
Il timore di dormire per sempre.

Lui ha bisogno all'inizio di un cellulare che prenda, di norme sanitarie rigorose, di mascherina e camice sterili. Lei, che travalica il ruolo di fidanzata rischiando di diventare per forza di cose una chioccia invadente e apprensiva, così facendo rischia di non godersi il poco tempo assieme. Loro, che parlano di sentimenti forse troppo presto citando ora Shakespeare e ora Colpa delle stelle, si scrivono tantissimo e mi si svelano tardi e poco: colpa del filtro delle chat, di frasi ragionate e battute sulla tastiera, che impediscono che a raccontaceli siano i gesti grandi e piccoli; tutta la goffa spontaneità dei diciassette anni. 
Ogni stella lo stesso desiderio, per il resto, non compie passi falsi, tocca la sensibilità dei lettori senza strappare lacrime scontate e mi ha illuminato sui drammi di un male affatto raro – la fibrosi –, che ho la fortuna di non conoscere nella mia vita, se non di nome. Il suo limite isolato: quello di non raccontare nulla che non sia stato già raccontato altrove, pur facendolo bene. L'ultima Bonalumi punta a superare la paura delle vertigini, l'ennesima scarpinata impervia. Mira al cielo aperto, ma portava più in alto grazie alle montagne di un romanzo fa. Quelle che, galeotto l'imprinting del fortunato Cognetti, brillavano ben più di queste stesse stelle avverse.
Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Ermal Meta feat. Elisa – Piccola Anima

mercoledì 26 settembre 2018

I ♥ Telefilm: Castle Rock | Atypical S02

Ci sono nati il cane Cujo, l'antiquario di Cose preziose, i bambini di Stand By Me, lo scrittore fuori di sé di La metà oscura. Castle Rock, Maine, è la città immaginaria che nutre i crimini di sangue e i best-seller di sicuro successo. L'isola che non c'è, potremmo dire, o meglio: l'inferno che voleva esserci; farsi anche TV, se l'orrore piace pure a puntate. Le produzioni ispirate ai successi di King, tuttavia, le si accoglie sempre con un altro tipo di paura: quella che accompagna gli adattamenti deludenti, i progetti morti sul nascere in quanto mediocri. Così è stato, almeno, prima per Under the Dome, poi per The Mist. Quale destino si doveva mettere in conto invece per la sperimentale Castle Rock, serie scritta dal nuovo che il Re non lo avrebbe adattato, bensì omaggiato? L'omaggio, chiariamolo, è molto alla lontana: soprattutto ai conoscitori superficiali, potrebbe apparire perfino pretestuoso; uno specchietto per le allodole. In dieci episodi, ambientazioni a parte, del mondo di King – auguri a lui, che lo scorso venerdì ha spento settantuno candeline – in realtà c'è poco: la prigione di Shashank sullo sfondo, l'invecchiato ma valente sceriffo Pangborn, una giovane che per fardello ha il cognome del famigerato Jack Torrence. Non si vuole battere il ferro finché è caldo, no, così come non ci appare un vezzo, l'ennesimo easter egg, un cast con una manciata di attori già familiari a questo universo – parlo di Carrie e It, una meravigliosa Sissy Spacek e lo spiritato Bill Skarsgard, qui in borghese e alle prese con ruoli tutti diversi. È di ritorni a casa, invece, che si parla, con l'avvocato André Holland chiamato a fare luce sui misteri della propria infanzia. Di un giovane senza nome né memoria, prigioniero in un'ala nascosta del carcere, che forse è una vittima, forse un pericolo imminente. Si viaggia tra presente e passato, a cavallo tra realtà, soprattutto se nelle ultime puntate – magistrali la settima e la nona, autentici e toccanti girotondi temporali – l'immancabile J.J. Abrams ci mette lo zampino. Qualcosa e qualcuno non funzionano: il taglio tanto classico da risultare un po' compassato, ad esempio, o i personaggi di Jane Levy e della eppur brava Melanie Lynskey. Ma, se non tutto fila a regola d'arte, comunque fa piacere scorgere tra le righe il King meno indagato: introspettivo, malinconico, esistenzialista. Quello per pochi eletti. Nella fascinosa ma irrisolta Castle Rock, infatti, non ci sono enigmi più grandi del fluire del tempo, della memoria che svanisce invecchiando, delle ormai proverbiali sliding doors. Ci si allontana coraggiosamente, anche a costo di risultare meno vendibili, dalle atmosfere del tormentone Stranger Things, dalle trasposizioni fedelissime che puntualmente fanno flop, dallo scrittore tutto spauracchi che solo un profano si aspetta su carta. Le vie e i sentieri che si diramano, gli incroci, sono potenzialmente inesauribili. La serie Hulu non imbocca sempre quelli giusti, ma neppure i più scontati. Se ne va spesso a tentoni, nel bosco, fra multiversi e maledizioni, e nel suo smarrirsi scopre luoghi bizzarri nonché svolte dall'impensata bellezza lirica. E insieme a quest'ibrido degno di interesse, così, realizziamo strada facendo, al buio, che tutte le strade portano a casa. In una Castle Rock insolita, ma che intanto ti fa primo cittadino e suo prigioniero. (7)

Gli acquazzoni, il tè delle cinque, i ritorni che in fondo aspettavi. L'arrivo dell'autunno porta a domicilio piccole gioie irrinunciabili e appuntamenti fissi. Quest'anno, in attesa che i palinsesti americani riprendano a pieno regime, si è ripartiti con dolcezza, dalla famiglia Gardner. Non una delle sorprese più clamorose dello scorso anno, non lo nego, eppure produzione così quotidiana, così spontanea, che era stato un piacere accettarne gli inviti a pranzo e cena per condividerne la leggerezza e i dispiaceri. Si parlava, da titolo, di Sam: l'annunciato atipico dei quattro. Diciassette anni, poche parole e tanti sbalzi d'umore, una forma d'autismo ad alto funzionamento che lo rendeva poco ferrato in materia di adolescenza e ragazze, moltissimo invece se di mezzo c'erano pinguini da adottare a distanza o ghiacciai a rischio di scioglimento. Ci si affezionava a lui – a sorpresa, non il più problematico del nucleo domestico, nonostante le bizzarrie a fantasia –, e soprattutto a chi gli stava accanto, con il difficile compito di essere assennato e paziente; di far bene. Cose impossibili, si sa: nelle famiglie di ogni dove non esiste né perfezione apparente né tregua. Dopo il rinnovo, eccoli lì, proprio dove li avevamo lasciati: mamma Jennifer Jason Leigh, reduce da una relazione fedifraga smascherata in fretta, è invitata di malo modo ad andare altrove ma intanto cerca il perdono di tutti; papà Michael Rapaport, con quel tradimento che ancora brucia nell'orgoglio, si distrae sposando pienamente la causa del figlio maggiore ma la fatica del multitasking pesa sia sul fisico che sui nervi; Brigitte Lundy-Paine, sorella brillante e ambiziosa, cambia scuola e forse gusti sessuali, se un'avvenente coetanea le dà da pensare. E poi c'è l'ottimo Keir Gilchrist: in una relazione da definire, quasi diplomato, innamorato non corrisposto di una terapeuta dagli occhi a mandorla in attesa di un neonato fuori programma. Meno egocentrico, più adulto, il protagonista conferma ancora una volta la propria magia: la capacità inconsapevole di rendere strane e importanti, intense, le esistenze che sfiora. Naturale proseguimento della prima stagione, senza grandi intoppi né forzature, Atypical ha dalla sua, questa volta, un'accentuata dimensione corale che funziona e diverte grazie a comprimari caratterizzati tutti con lo stesso piglio ironico, tutti con lo stesso cuore d'oro. In un prosieguo che non è il più atipico che avresti potuto immaginare, ma il più corretto. (7)

lunedì 24 settembre 2018

Recensione: Gli scellerati, di Frédéric Dard

| Gli scellerati, di Frédéric Dard. Rizzoli, € 17, pp. 204 |

Ci sono quei romanzi che hanno diritto a una seconda primavera. Quegli autori che rinascono come fossero fenici, dopo la morte, grazie ai miracoli che talora l'editoria riesce a compiere. I casi più clamorosi, negli scorsi anni, sono stati a memoria Stoner e la trilogia di Kent Haruf: il primo biografia fittizia di uno struggente uomo qualunque, l'altra raccolta composita di piccole e grandi storie di un Sud che vota Trump ma sa emozionare nel profondo. Avrebbe potuto essere così, ho immaginato a torto, anche per Gli scellerati: romanzo tradotto per la prima volta a sessant'anni di distanza dalla pubblicazione in patria, a opera di uno scrittore molto prolifico – in vita firmò oltre quattrocento testi, pensate –, noto in particolare per le indagini dell'ispettore San-Antonio e paragonato dai cultori ora a Simenon, ora a Céline. L'ultima occasione di Frédéric Dard era finalmente arrivata, e con un romanzo postumo da acclamare magari come nuovo classico del noir? La copertina sofisticata e gli alti paragoni lo facevano ben sperare. 
Per narratrice troviamo la sfrontata e ambiziosa Louise, diciassette anni e mezzo, un lavoro mal retribuito in una fabbrica di automobili e una casa in cui è difficile fare ogni sera ritorno, tra gli sguardi di un patrigno che alza il gomito troppo spesso e l'amara realtà di una provincia parigina senza redenzione. Dalla parte sbagliata della Senna si sente puzza di cavolo bollito e di smog, tutti conoscono tutti e ci si arrende presto a un destino in serie – lavori faticosi, esistenze modeste, matrimoni infelici. Se non fosse che lo stesso tragitto di sempre, un giorno, regala all'irrequieta ragazza una boccata d'ossigeno; la visione di una famiglia tanto perfetta da fare invidia, con il dondolo sotto il portico, le cene all'aperto e una macchina status symbol nel vialetto. Sono i Rooland, gli americani che non passano inosservati. Sono quello che la protagonista mira a essere. In segreto fantastica, infatti, immaginandone gli interni domestici, il passato glorioso e gli amplessi. Quella casa, quell'isola felice, è il posto perfetto per ricominciare, magari come semplice cameriera. Hanno nove stanze, molti ospiti fissi, tanto disordine a cui stare appresso. Louise fa faville ai fornelli, li prende letteralmente per la gola, e in cambio pretende vitto e alloggio, nonché di entrare a far parte di quel duo mondano. Prevedibilmente, però, non è tutto oro quel che luccica, e un'acerba arrivista finisce così nella tana degli scellerati.

Vero è che quando si lavora in casa d'altri non ci si deve stupire di niente. Bisogna convincersi che la ragione è dalla loro parte, o perlomeno fare finta che lo sia e passarci sopra. Manie e vizi sono rispettabili perché ci pagano per rispettarli.

Lui con le lentiggini sulle guance e una luce interiore abbastanza abbagliante da fare invaghire l'adolescente parvenue, lei pigra fumatrice con un thriller americano sotto il braccio e una relazione clandestina. Ci si può fidare di loro, e il lettore, soprattutto, può fidarsi della versione di Louise – ava di ogni narratrice inaffidabile e personaggio, purtroppo, di rara antipatia? Il suo apprendistato presso i Rooland è breve e all'insegna del già letto. Una morte non accidentale nella seconda metà, un'attrazione sconveniente, un colpo di scena per salutarci in grande stile.
Come se fossimo nella versione d'oltralpe di un intrigo di James M. Cain – e Il postino suona sempre due volte, ricorderà qualcuno, si era già dimostrato abbondantemente al di sotto delle mie aspettative.
Come se si trattasse di uno spiegazzato romanzo da bancarella che, senza grande inventiva, mescola mistero ed erotismo. Non gli giova nemmeno lo stile: infarcito di esclamazioni e attempati puntini di sospensione, contribuisce a rendere la voce di Louise troppo stucchevole e infantile per spacciarla per una seconda Lolita.

Speravo nella notte. Quando il mondo scivola nell'ombra, gli uomini non ragionano più come prima, prestano orecchio alle voci segrete che mormorano dentro di loro.

Ogni tanto, si diceva in apertura di post, in libreria si scoprono tesori tardivi. Non è il caso degli Scellerati, riproposto quando nessuno ne sentiva più la mancanza. Imbellettato, tirato a lucido, non riesce a nascondere a lungo la colpevolezza dei suoi protagonisti o le rughe parlanti della terza età. Con la differenza precisa che intercorre fra i classici, e qui non siamo in presenza di uno di loro, e i romanzi semplicemente vecchi.
Il mio voto: ★★
Il mio consiglio musicale: Elvis Presley – Loving You

sabato 22 settembre 2018

Recensione: Preghiera del mare, di Khaled Hosseini

| Preghiera del mare, di Khaled Hosseini. SEM, € 15, pp. 56 |

Ero io a prestare i romanzi a mia mamma, un tempo, e mai viceversa. 
Il cacciatore di aquiloni e Mille splendidi soli – i più belli degli strappi alla regola nell'intera storia degli scambi in famiglia – erano però per una volta il suo genere, un suo consiglio, e non il mio. Li ho letti e amati a ciel sereno, nonostante fossero i fragili anni delle medie, quelli, e sul mio comodino di ragazzino annoiabile non facessero ancora tappa cose come l'impegno della cronaca nera o l'attualità. Non leggo Khaled Hosseini da allora. Saranno passati dieci anni, ormai, e in mezzo c'è stato E l'eco rispose: non era piaciuto proprio a mamma, però, che per storie come quelle ha da sempre il pallino, ed ero finito per fidarmi un'altra volta di chi mi aveva fatto scoprire le gioie e i dolori del Medio Oriente e tenuto lontano dalle potenziali delusioni in agguato. Hosseini è tornato in libreria dopo l'estate. Ha cambiato editore italiano, formato, e mi sono trovato così per le mani Preghiera del mare: volume illustrato di uno splendore ipnotico, con la prefazione del nostro Roberto Saviano e un fine umanitario degno di infinito rispetto. Uno di quei libri che sfogli e sbirci distrattamente, soltanto per vedere in anteprima cosa ti aspetterà, e che dal nulla finisci. Così, lì su due piedi. Tanto avvincente la lettura, chiederete? Si tratta in realtà di uno di quei libri di pregio impossibili da valutare, difficili da recensire, al pari della raccolta poetica Milk & Honey o della biografia a carboncino di Mary e il Mostro. La differenza è che l'ultimo Hosseini lo leggi senza accorgertene, lo leggi purtroppo senza dargli peso. Distratto un po' dalla cura dell'edizione, un po' da una storia-simbolo che in sé vorrebbe inglobare l'intero dramma delle migrazioni clandestine.


Sono solo parole,
l’espediente di un padre.
La fiducia che riponi in me
mi strazia.
Perché questa notte riesco solo a pensare
a quanto è profondo il mare,
a quanto è vasto e indifferente.
E a come sono impotente io,
incapace di proteggerti.
Non posso fare altro che pregare.

Un padre si rivolge a suo figlio, gli scrive una lettera aperta: come tanti disperati, loro sfidano la furia del mare aperto per sfuggire a una guerra senza connotati. Il bambino è troppo piccolo per ricordare il buono della sua terra: il verde dei pascoli, il rosso dei papaveri, i profumi speziati del mercato. La pace, ormai, è il ricordo bruciato di un'infanzia fa. Amaramente, in compenso, ricorderà la violenza di un conflitto immotivato: quella morte che occupa l'orizzonte tutto, il presente e il futuro. Dio non sa che il loro barcone alla deriva sta trasportando un carico prezioso? Non restano allora che le promesse, non resta che pregare: il Padreterno, e il mare – ugualmente sconfinati, misteriosi e sordi.
L'errore è stato mio, devo avere capito male sin dall'inizio. Mi aspettavo qualcosa di diverso: il narratore a cui sono affezionato, che qui invece scompare per diventare l'emblema di un padre. Per darsi alla sensibilizzazione, alla filantropia, in un compito – per quanto lodevole, per carità – che funziona più in teoria che in pratica. Qualcuno vi dirà che è straziante. Qualcun altro che è buonista. Io, invece, vi dirò in tutta onestà che non è né l'una né l'altra cosa: troppo legato alla sua natura di lettera breve per lasciarsi amare o odiare; troppo succinto per lasciarsi commentare con fiumi di parole che, a colpo sicuro, supererebbero questa volta quelle di un Hosseini pensato per immagini. Beneficenza a parte, di Preghiera del mare mi è sfuggita l'utilità. Ci sono un tema che scotta, che tocca, e una realtà così dura che non serviva affatto ricamarci sopra Peccato mi siano mancati uno sguardo, una prospettiva, l'emozione. Uno svolgimento e una fine. Aveva fatto meglio Margaret Mazzantini in Mare al mattino; a Sanremo, avevano commosso maggiormente le migrazioni ad altezza bambino dell'esordiente Mirkoeilcane. 
Preghiera del mare si legge in dieci minuti, un quarto d'ora al massimo, con la scusa di tornare indietro per soffermarsi sulle illustrazioni, e con il rischio di peccare di insensibilità si fa fatica a trovargli con il senno di poi una parvenza di contenuto. Ci si allontana dalla riva, infatti, ma non dalle premesse di base. Dal poco che il risvolto di copertina riassume. Dalla fiducia per uno scrittore che racconta esistenze a rischio senza avere più, a malincuore, il coraggio di rischiare. 
Il mio consiglio musicale: Mirkoeilcane – Stiamo tutti bene 


mercoledì 19 settembre 2018

I ♥ Telefilm: Disincanto | Rick e Morty | Final Space

C'era una volta una principessa ribelle che, come le colleghe femministe Elsa e Merida, rifiuta velo nuziale e corona. Solitaria e coraggiosa, con una mamma morta misteriosamente e un papà presto convolato a nozze con un rettile di matrigna (letteralmente!), si sottrae al destino prestabilito di moglie e sovrana, si impunta, ma non sa quali alternative la aspettino. Giusto un po' più brilla, ma non per questo più audace delle recenti colleghe Disney, cerca sé stessa e un posto nel mondo con i classici viaggi non lontani dalle classiche metafore esistenziali. Non si imbatte né in un lieto fine né nella morale dell'ultimo rigo, ma in due strani aiutanti – un buffo elfo alle prese per la prima volta con la vita vera e un demone custode, che qualche volta la induce in tentazione – che le fanno da spalla comica nell'ultima creazione dell'autore cult dei Simpson e Futurama. Nonostante le aspettative inizialmente alle stelle, le novità scarseggiano. Meglio i rutti rumorosi dell'orco Shrek, meglio le principesse a New York di Come d'incanto, meglio le gustosissime variazioni sul tema dello sfortunato Galavant. Disincanto, infatti, lo si segue ma non brilla di luce propria. Avrebbe potuto prendere e modificare canzoni e motivetti, per farsi beffe della stucchevolezza delle favole per l'infanzia. Avrebbe potuto in alternativa calcare la mano con gli intrecci, il sangue e il sesso, se Il trono di spade è diventato il fantasy per antonomasia. Purtroppo non giovano la durata ingiustificata degli episodi, i ritmi dilatati; situazioni e personaggi abbozzati, in vista di una compattenza narrativa riscontrabile appena dall'ottavo episodio in avanti. No, non ci si lascia incantare a colpo d'occhio. Questo Disincanto poco omaggia, non parodia affatto e, almeno per ora, diverte l'indispensabile. (6)

Prendete un nonno inventore che ritorna all'ovile; una figlia adorante e un genero scettico, noioso, che della famiglia risulta il più sacrificabile; due nipoti più curiosi che intimiditi, in particolare, da traviare nell'arco di tre folli stagioni. Si parla di animazione e fantascienza, due delle cose che meno mi piacciono, ma senza grandi sorprese l'abbinamento non è di quelli letali. Si parla, in ritardissimo, di Rick e Morty: il disimpegno e la leggerezza di una sit-com, sangue e parolacce a fiumi, un amore infinito per il nonsense che si nutre di scenari fantastici, missioni impossibili, paradossi logici e citazioni alte. La serie che, appunto, piace anche a chi su carta il genere non lo digerisce. La serie che vince agli Emmy, per esempio, grazie all'episodio in cui l'irresponsabile Rick si trasforma in un cetriolo pur di non affrontare una riunione familiare che si preannuncia sgradevole. C'è del genio, non lo si può negare mica, in questo Ritorno al futuro col bollino rosso: ma è sufficiente? Troppo sopra le righe ed eccessivo affinché la riuscita sia perfetta o equilibrata, è la dimensione umana, quella interpersonale, che gli manca: soprattutto allontanandosi dalla prima stagione, girata più in piccolo e per questo migliore delle successive, si sente la mancanza degli improperi, in seguito camuffati da un bip strategico; degli interni domestici, delle dinamiche intergenerazionali, a cui si preferiscono i cannibali di Mad Max, mondi alternativi retti dal femminismo imperanti, cloni e deflagrazioni in grande stile. I difetti, forse, stanno in un budget che cresce esponenzialmente; in una serie rinnovata per stagioni e stagioni sulla fiducia, che fa di tutto per stupirci e non ripetersi. Spessissimo ci riesce. Altrettanto spesso, però, rischia di rendere i personaggi semplici macchiette – fa eccezione un Rick che, dopo aver messo in pericolo il nipote e la nostra realtà, di tanto in tanto si ravvede a suon di esami di coscienza –, con copioni di freddure e cattiverie che avvincono e divertono, ma ti impediscono di affezionarti a loro nonostante una compagnia lunga trenta episodi. Non è Bojack Horseman, nichilista e dissacrante. Non è Big Mouth, colorito e sincero. Piuttosto, è un'altra faccia dell'intrattenimento per adulti: a tratti la più fine a sé stessa, ma anche la più audace, la più scatenata. Su questo e altri pianeti. (7)

Siamo sempre nello spazio, sempre in uno sci-fi, sempre a cartoni. Questa volta, però, in una serie animata Netflix di cui poco ho letto in giro, vista su consiglio prima di mio fratello Diego, poi di un coinquilino che ha preferito rivederla con me anziché aspettarmi. La storia è quella di Gary, delinquente da poco ed eroe per caso, condannato a scontare cinque anni di detenzione in solitaria in una prigione galattica su misura in cui patisce la mancanza di altri esseri umani – ad animare le sue giornate, soltanto l'irritante robot Kevin e un'intelligenza artificiale che lo guida e lo consiglia con benevolenza – nonché la crudele penuria di biscotti al cioccolato. La sorte e la sceneggiatura lo chiameranno ad affiancare una bella Guardia dell'Infinito di cui è innamorato perso e a sabotare i pianti del temibile ma cagionevole Lord Comandante – in lingua originale, doppiato da un eccezionale David Tennat –, che vorrebbe aprire un varco per liberare i leggendari Titani, diventando così uno di loro. La chiave sembra essere l'insospettabile e dolcissimo Mooncake: pallina tutta sorrisi, verde e fluttuante, con una fama improbabile di distruttore di pianeti. Finale Space ha musiche indovinate, disegni pieni di colori che accolgono volentieri più di qualche guizzo artistico di CGI e un equipaggio francamente adorabile che intrattiene per dieci episodi, strappa sorrisi e perfino lacrime. Con i suoi sacrifici d'obbligo. Con le canzoni che sottolineano gli stati d'animo loro e nostri. Con un'irresistibile mascotte da proteggere, una coraggiosa ribelle da far sospirare, qualcuno di importante da vendicare sporcandosi le mani di sangue e qualcosa di buono, di vero, da imparare di puntata in puntata. Ci sono ingenuità grandi e piccole; troppi abbracci e troppi discorsi di incoraggiamento; una struttura, a lungo andare, ripetitiva. Ma uno spunto abusato, mai come in questo caso, si rivela vincente con poco senza scontentare né gli appassionati – riconosceranno all'interno l'ironia e la bontà dei Guardiani della galassia – né gli aspiranti nerd dell'ultima ora. Gli si vuol bene all'istante, e Gary e gli altri li si riconosce amici a un primo sguardo, come succedeva a ricreazione, a scuola: benché teneri e sfortunati, i protagonisti provano a fare la differenza – a salvare l'universo –, o almeno ci provano. Dalla nostra, li ringraziamo per il tentativo. (6,5)

lunedì 17 settembre 2018

I film che leggeremo [a puntate]

L'amica geniale
30 ottobre 2018
È l'autrice italiana più letta nel mondo. È già stata al cinema in passato, grazie a Martone e Faenza. La sua celebratissima serie di romanzi non poteva né doveva essere da meno, no; non poteva non farsi serie TV. A sobbarcarsi l'incarico, allora, c'è il buon Saverio Costanzo, con la nostra Rai e l'infallibile HBO a produrre otto puntate che andranno così a coprire il primo romanzo – quello a cui sono purtroppo fermo, al momento, in attesa dell'incentivo perfetto. I primi due episodi, presentati già in Laguna tra gli applausi degli addetti ai lavori, passeranno anche al cinema all'inizio di ottobre. Per gli altri, basterà rispolverare il telecomando e sintonizzarsi di lì a poco su Rai Uno.



The Truth About the Harry Quebert Affair
4 settembre 2018
La verità, a proposito della Verità sul caso Harry Quebert, è che il caso editoriale di Joel Dicker, da quel che leggo amato o odiato senza vie intermedie, non mi ha mai fatto suo. Sono passati gli anni, è venuta meno l'insistenza esagerata delle voci di corridoio, sono arrivate le edizioni economiche che fan sempre gola e, ultima ma non ultima, un'omonima miniserie di cui nessuno parla in giro. Nonostante lo zampino del regista Jean-Jacques Annaud, l'idolo delle mamme Patrick Dempsey e una fama, ormai, che lo precede ovunque vada. Con la scusa, con il pilot già sul mio hard disk, che sia l'occasione buona per farmene un'idea mia?



You – Tu
9 settembre 2018
Una ragazza entra nella libreria sbagliata, durante il giorno sbagliato, rivolgendosi al commesso sbagliato. Che le sorride gentile, le consiglia il miglior libro di Paula Fox, la segue sin sotto casa. Si parla di stalking e ossessioni amorose: temi quanto mai attuali, ma in un thriller Lifetime tutt'altro che insolito. Potrebbe non aiutare su carta neppure la presenza di Penn Badgley – l'indimenticato Ragazzo Solitario di Gossip Girl –, e invece You, ispirato all'omonimo romanzo di Caroline Kepnes, prende in contropiede e diverte da morire. Con le citazioni letterarie da appuntarsi seduta stante, i protagonisti belli e sinistri e, soprattutto, la voce narrante di uno psicopatico nella stagione degli amori che racconta piantonamenti e omicidi con il brio di una commedia romantica a tinte sexy.



Le terrificanti avventure di Sabrina
26 ottobre 2018
Per chi è stato bambino negli anni Novanta era semplicemente un must, e il sottoscritto non fa eccezione. Prima in carne e ossa in formato sit-com, poi a cartoni animati con un petulante gatto nero al seguito, l'amichevole Sabrina – streghetta in erba ispirata alle storie a fumetti di Archie Comics – ha accompagnato per tutta l'infanzia i miei pomeriggi, tra i compiti per casa e la merenda delle cinque. La moda del reboot, ovvio, non poteva fare a meno di corteggiarla. E così torna su Netflix, e c'è poco da storcere il naso, questa volta, sapendola eccezionalmente cupa e violenta. Magica è, cantava la sigla, la tua vita Sabrina. Da Halloween in poi, sarà anche spaventosa.



The Haunting of House Hill
12 ottobre 2018
L'autrice, Shirley Jackson, è stata la maestra spirituale di Stephen King. Il suo romanzo più famoso, L'incubo di House Hill, è stato al cinema prima con Gli invasati, poi con Haunting. A vent'anni dall'ultimo rifacimento, Mike Flanagan – reduce dal successo del Gioco di Gerald, con al seguito la fedelissima Carla Gugino – lo riadatta in dieci episodi, in chiave contemporanea. Squadra vincente non si cambia. E, con le premesse di partenza degnamente rispettate, con l'horror non sbaglia.



A Discovery of Witches
14 settembre 2018
Vampiri, streghe e company. Li credevamo tutti sorpassati, e di certo non ci mancavano. Quest'anno ci hanno riprovato prima al cinema con Dark Hall, poi su Netflix con il delicato The Innocents. Ultima ma non ultima, inattesa, ecco sbucare dai pittoreschi vicoli di Oxford una nuova storia di poteri paranormali e relazioni proibite, che a scatola chiusa farà senz'altro meglio dell'indesiderato reboot di Charmed. Vuoi i nomi di Teresa Palmer e Matthew Goode, lei strega e lui vampiro coltissimi, che in passato hanno scelto con intelligenza i progetti in cantiere. Vuoi l'aria british del tutto. Vuoi, ancora, la saga ben recensita di Deborah Harkness, eppure da me mai bramata in whishlist.



The Passage
Gennaio 2019
Lo leggevo per la prima volta, adorandolo, qualcosa come sette anni fa. Quando questo blog non era nei miei programmi, i mondi post-apocalittici non ci erano ancora venuti a noia e, sulle fascette promozionali, si parlava già di una trasposizione a opera di Ridley Scott. E poi, cos'è andato storto strada facendo? Cos'è successo a Justin Cronin, ai progetti di trarne un film, all'ultimo capitolo mai arrivato in Italia dell'ennesima trilogia interrotta – è forse un caso che io abbia preferito non leggere il secondo romanzo, eppure acquistato poco dopo l'uscita? Sparito dai miei radar, Il passaggio tornerà a far parlare di sé dal prossimo gennaio, si spera. Se sono scarsissime le aspettative riposte sulla serie Fox – colpa di un cast non proprio di primo taglio –, c'è speranza che l'arrivo sugli schermi smuova qualcosa in casa Mondadori. Leggeremo finalmente The City of Mirrors?



Quello che non uccide
31 ottobre 2018 (USA)
Non è un telefilm, l'ultimo della rassegna, vero, ma sempre in ambito di produzioni in serie rimaniamo. Qualsiasi presentazione sarebbe superflua. Millennium ritorna, dopo la trilogia svedese e l'esemplare rimaneggiamento di David Fincher, con un quarto capitolo. Purtroppo cambiano il cast, cambia il regista e, nonostante le ambientazioni, non ci si smuove dagli Stati Uniti. Ancora, si potrebbe lamentare più di qualche spettatore? La presenza di "Sua Altezza" Claire Foy, nel ruolo che fu già di Noomi Rapace e Roney Mara, il promettente Fede Alvarez dietro la macchina da presa e Steven Knight alla sceneggiatura, ricordano che c'è del buono; come del buono, d'altronde, c'era anche nel romanzo apocrifo di David Lagercrantz.


sabato 15 settembre 2018

Recensione: Isola di Neve, di Valentina D'Urbano

| Isola di Neve, di Valentina D'Urbano. Longanesi, € 19,90, pp. 500 |

L'acqua ha fiuto, l'acqua ha storia, l'acqua ha memoria. Qualche volta prende e qualche volta dà. Al pari di un'autrice romana, qui alla sua sesta fatica, che non ci lascerebbe mai annegare. L'ultima Valentina D'Urbano me l'ha data in regalo l'alta marea. Tutte le onde, così, portano a Novembre attraverso la strada più corta. Si avvicinano progressivamente alle esalazioni di salsedine e marcescenza del porto, centro nevralgico di un paese alla deriva nel Mediterraneo che di pesca e vacanzieri riesce a sopravvivere. Si infrangono sul basalto della prigione di Santa Brigida, abbandonata a sé stessa più di mezzo secolo fa, fino a eroderlo implacabilmente. Leitmotiv sempiterno, sono appunto le onde a far veleggiare il peschereccio di Neve e la barca a motore di Manuel ed Edith: lei isolana ferma alla seconda elementare, loro visitatori incalzati dal giallo di un Guarnieri scomparso, sono separati in realtà da cinquant'anni di storia italiana e dall'ingombro di due generazioni. A ben vedere hanno gli stessi capelli biondi, gli occhi che cambiano colore così come cambia il tempo, la pelle riarsa. Stonano da morire su quello scoglio di gente piccola e nera. Forse, non avrebbero mai dovuto incrociare le loro reciproche rotte. Ma il caso vuole che in certi luoghi dell'anima, in certi romanzi ad ampio respiro, la serendipità sia un'incantevole presenza e il tempo soltanto una convenzione. C'erano una volta, negli anni immediatamente successivi al dopoguerra, una diciassettenne incompresa e l'ultimo prigioniero di un carcere fuori norma destinato di lì a poco a chiudere i battenti: l'adolescente si chiamava Neve ma si presentava con l'accrescitivo di Tempesta all'esimio criminale che proveniva dai bombardamenti di Dresda e la faceva innamorare suonando il violino come un diavolo, ma promettendole come un angelo custode un futuro insieme in una Roma da cartolina. Li aspettava, non troppo a sorpresa, l'oblio di un finale disperato; nel nuovo millennio, purtroppo, non c'è più nessuno che sappia di loro. Che si sono divisi teneramente tra le sbarre cioccolato dolce e amare verità, che si sono protetti pensandosi a vicenda quando il padre di Neve la pestava a sangue e un lume acceso non bastava a rischiarare la cella di Andreas Von Berger, compositore senza gloria.

Per un sacco di tempo ho pensato che prima o poi mi sarei ammazzata. Mi sarei buttata dalla scogliera. Adesso non lo penso più. Adesso non ho più tanta voglia di ammazzarmi. È meglio, è peggio, chi lo sa. So solo che adesso mi va di vivere.

Oggi, invece, in una stagione che scoraggia i vacanzieri, ci sono due figli degli anni Ottanta che si immaginano per un po' gli unici abitati di un'isola in stato di abbandono, gli ultimi amanti al mondo: Manuel fugge dal senso di colpa e, messo con le spalle al muro, si rifugia nella casa dei nonni Livia e Libero come un bambino bisognoso in cerca dei sapori e del conforto di un'infanzia sperperata troppo presto; la tedesca Edith, piercing dappertutto e qualche chilo in più, a quel ventottenne con i vestiti da vecchio fa la barba e prepara un'ottima carbonara. Si scaldano la notte, quando fuori soffia il maestrale, e insieme si imbucano alle feste in piazza. Lei si fida ciecamente di lui, anche se non dovrebbe. E insieme scoprono il pericolo e lo stupore dello scoprirsi compagni di avventure, in una caccia al tesoro spesso a confine con la ghost story. Che fine ha fatto il concerto per violino solo di Andreas, cos'è stato della giovane ribelle che rese degna di essere vissuta quel poco di vita che gli restava? Giuro che a metà lettura l'ho fatto, sì: ho cercato informazioni su Google, sovrappensiero, per scoprire amaramente che le isole di Novembre e Santa Brigida non esistono mica; che non potrò sentire un concerto di Von Berger perché non c'è stato nessun musicista con quel cognome. Com'è possibile, se ci sono stato in visita per cinque giorni? Com'è possibile, se io l'ho sentito suonare Vivaldi?

Se ami davvero qualcosa, la ami a tal punto da farti del male.

Valentina D'Urbano avvisa i naviganti. Inventa vite sott'acqua e scorci paesaggistici, ricordi che questa volta ingannano per quanto appaiono reali. Tiene lezioni di nuoto e di respiro a beneficio di personaggi che scelgono di restare lì, con un'isola che sembra una prigione e una prigione che sembra un'isola da spartirsi in due. Tralasciando i difetti evidenti nella caratterizzazione della vendicativa ex di Manuel, Greta, personaggio secondario tanto fuori posto da sembrarmi la comparsa di un indegno romanzo rosa, Isola di Neve approda per il resto dalle parti di Acquanera, il mio preferito: atmosfere cupe, apparizioni evanescenti e sogni impossibili, promontori ai confini della realtà come nella brughiera di Heatchliff. L'intensità e l'emozione sono assicurate. Valentina infatti parla sempre d'amore, e sempre in maniera diversa dalla precedenze. Come ci riesca, onestamente, non lo so. 
A spaziare nei generi pur conservando una riconoscibilissima coerenza di fondo. 
A sopravvivere ogni volta alle sue storie, che stremano il cuore. 
A rinunciare ai personaggi che ha messo al mondo e reso memorabili, con il rischio che dalla sua penna ne arrivino poi altri, magari nel romanzo subito successivo, a scalzarli in fretta dai ricordi. Noi lettori abbiamo una memoria da elefante, a volte, e profonda riconoscenza. Perché ai nomi indimenticabili di Alfredo, Vadim e Fortuna se ne affiancano semplicemente altri, senza rimpiazzarli né tradirli – incommensurabile la commozione per l'eponima Neve, che mi ha ricordato la straordinaria Lila di Elena Ferrante. E alla generosità emozionale dell'autrice non si può rispondere perciò che con altra generosità, di rimando, con il groppo in gola, soprattutto in un anno di letture che di rado mi hanno coinvolto altrettanto.

Tra molti anni, Neve, solo tu ti ricorderai di questa cosa. Sarà svanita nel nulla, sparita dalla memoria di tutti, ma non dalla tua. Un uomo ha bisogno di una cosa sola nella vita. Ha bisogno di qualcuno che continui costantemente a perdonarlo. E tu mi devi fare questo favore. Tu mi devi perdonare. Per tutta la vita, bambina.

Ci vogliono cinquecento pagine pienissime affinché si sciolgano i misteri di Neve, affinché si plachi la Tempesta su quel che resta di Santa Brigida, affinché si possa lasciare Novembre già nel mese di settembre. Nel bel mezzo di questi miracoli meteorologici e di questi giochi di parole, Valentina D'Urbano inventa i trascorsi di un musicista mai nato, e dunque mai morto, e uno scorcio di Mediterraneo che non troveresti sulle mappe. 
La biografia di un'isola pulsante, la geografia di un cuore a picco, che forse esistono davvero ma, come nella leggenda di una novella Atlantide, si nascondono negli abissi con le mareggiate. 
Per riaffiorare poi quando il mare letargico se ne va a dormire, congedati da bravo padrone di casa gli ospiti festanti e i turisti stranieri, lasciando sul bagnasciuga d'un tratto spoglio una storia bellissima in un messaggio in bottiglia e conchiglie parlanti. Accostane qualcuna all'orecchio, potresti sentirci rimbombare dentro gli schiaffi dei cavalloni e il suono dei violini. Potrebbero parlarti di tutti loro.
Il mio voto: ★★★★½
Il mio consiglio musicale: Elisa – The Waves

giovedì 13 settembre 2018

Recensione: Bad Man, di Dathan Auerbach

| Bad Man, di Dathan Auerbach. Sperling & Kupfer, € 18,90, pp. 394|

Un'immagine come tante se ne vedono, in fila alle casse del supermercato. Un bambino che fa i capricci perché deve usare il bagno d'urgenza, un fratello maggiore che lo asseconda pur perdendo le staffe, gli altri acquirenti che di sottecchi guardano e giudicano gli schiamazzi del primo e la mancata pazienza del secondo. Eppure, quando il piccolo Eric scompare come in un gioco di prestigio, mai uscito dalla toilette, tutti sembrano guardare altrove. La norma, nei paesi di provincia che hanno tutto da nascondere. La norma nei romanzi di genere, soprattutto se prendono in prestito da Stephen King – metro di paragone per antonomasia – le comunità omertose, i luoghi quotidiani trasformati in scenari da incubo, gli adolescenti insicuri e solitari chiamati a scoprire strada facendo verità, amicizia, coscienza di sé. Come in It, perciò, ci sono facce di bambini scomparsi che tappezzano i pali della luce e sopravvissuti che cercano affannosamente, senza darsi pace. Se lì una tragedia indicibile colpiva tra capo e collo Bill, il più popolare e integrato tra quegli indimenticabili Perdenti, qui il protagonista è invece Ben: quasi omonimo, eppure agli antipodi per via dei chili di troppo – centodieci – e di una gamba che lo sorregge a fatica. Ha abbandonato la scuola quando costretto a ripetere nuovamente l'anno, rappresenta una spina nel fianco per le forze dell'ordine a causa di un desiderio di giustizia a confine con l'ossessione, divide una casa che non possono più permettersi con un padre e una matrigna che lo accusano tacitamente dell'accaduto. Gli ci vorrebbe una via di fuga, gli ci vorrebbe un lavoro – con lo stipendio, i colleghi ciarlieri, l'indipendenza che comporta. L'amaro paradosso? Trovarlo, dopo tanto cercare, proprio nel supermercato in cui la fine della sua famiglia ha avuto inizio. Come magazziniere, di notte. Tra le nebbie della cella frigorifera, i sospiri profondi del condizionatore guasto e una pressa mortale già protagonista di diversi incidenti sul lavoro, le corsie desolate ospitano un direttore che spia tutto; rinoceronti di peluche e simboli enigmatici scorti d'un tratto ovunque; scatole impilate con attenzione certosina lì dove avevamo lasciato invece il nostro disordine. Eric, o quel che ne resta, ha mai varcato le porte automatiche? Sempre dubbioso e in allerta, Ben e i suoi nuovi amici – Marty e Frank, spalle comiche a cui subito si vuol bene – si improvvisano investigatori e collezionano sospetti. Qualcuno, tuttavia, vorrebbe sabotarli: forze paranormali, o un'ombra senza volto che magari di giorno è un insospettabile cliente del supermercato?

Ed è questo che è la speranza in realtà. Un anestetico […] Non risolve nulla: si limita ad anestetizzare e rassicurare, finché non riesce a sacrificare i disperati sull'altare della sua fiamma brillante. E, mentre la speranza ci conforta, diventa sempre più facile dimenticare che anch'essa era contenuta nel vaso di Pandora. È l'unico orrore che non sia stato liberato nel mondo quando il vaso è stato scoperchiamo. E l'unico orrore che vive dentro di noi.

Dici creepypasta – quello il background di un esordiente tutt'altro che alle prime armi, ma nato e cresciuto in rete –, dici omaggio a Stephen King – quello l'imprinting letterario –, e questo Bad Man rischieresti purtroppo di sottovalutarlo, subodorando un'amatorialità che non c'è. Bastano infatti poche pagine per dirsi conquistati dal dramma di un personaggio ai margini, da un'ambientazione anni Ottanta accennata appena col buon gusto di chi non ha intenzione di cavalcare l'onda di una retromania venuta presto a nausea, da una vividezza espressiva che durante la lettura restituisce lo spasso del cameratismo e il disgusto delle macabre scoperte. I difetti arrivano soltanto poi, e non si può dire che nella seconda metà non rovinino un romanzo partito sotto i migliori auspici. Quattrocento pagine sono troppe per un esordio ai confini della realtà. La suspance e la curiosità scemano per forza di cose e, accumulando indizi e colpi di scena alla rinfusa, sembra inevitabile un finale non all'altezza del mistero di partenza. Il cadavere rinvenuto nel prologo, perfino l'uomo cattivo del titolo: chi sono, alla fine dei conti? Perché abbandonare il supermercato, scenario originalissimo, per dedicarsi a boschi alla luce della luna, scuole in stato di abbandono e altri luoghi comuni? Alcuni, allora, sembrano buchi narrativi veri e propri, altri spunti su cui arrovellarsi il cervello sfogliando Bad Man all'incontrario, altre porte da lasciare socchiuse per il seguito che qualcuno ipotizza. Dathan Auerbach ha preso lezioni dal migliore, e dal Re ha tratto brividi grandi e piccoli, tutto il calore della solidarietà maschile, il male in incognito. A malincuore, però, anche la verbosità di cui sono vittima le ultime cento pagine; ne risentono i ritmi sempre più dilatati, così, e la curiosità di lettori sempre più disattenti, se guidati da un esordiente tanto capace di dipingere scene orrorifiche quanto impacciato a gestire meccanismi male oleati. Gioco bello ma che dura troppo, e che forse da qualche parte è ancora in corso. Partita a nascondino con sorpresa – forse ancora aperta –, in cui chi conta si confonde con chi cerca, o viceversa.
Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: The Clash – Lost in the Supermarket 

martedì 11 settembre 2018

Recensione a basso costo: The Sun Dog, di Stephen King

| The Sun Dog, di Stephen King. Pickwick, € 10, pp. 211 |

Siamo negli anni Ottanta di Cujo, Cose preziose e della commedia horror secondo Joe Dante.
Gli steccati riverniciati di bianco, le villette monofamiliari e i misteri inspiegati, invece, sono gli stessi di una Castle Rock tanto fittizia quanto leggendaria che, proprio in questi giorni, mi sta facendo compagnia anche sul piccolo schermo con l'omonima serie Hulu. Quando diventerò ospite onorario, mi domando da un'infanzia a questa parte, quando? 
Nel mentre, rieccomi. Di nuovo lì, alla base, per un piccolo Blog Tour tra appassionati. Per ristampe dal look ispirato alla moda Stranger Things, con i migliori racconti del Re riproposti singolarmente e rivestiti di tutto punto per l'occasione – in libreria, diciamolo pure, attireranno senz'altro i lettori più giovani e qualche collezionista instancabile, meno i parsimoniosi affezionati di lunga data. A sorte, il postino mi ha consegnato The Sun Dog: apparso in precenza in Quattro dopo mezzanotte e, a memoria, forse il racconto peggiore di una raccolta che conteneva fra gli altri I Langolieri e Finestra segreta, oggetti di culto e trasposizioni negli anni. La memoria, no, non mi ha ingannato. Sono entrato presto nel vivo dell'incubo di Kevin Delevan, quindici anni e una Polaroid maledetta in regalo, e presto ho scorto pregi e limiti di una storia dell'orrore dallo spunto curioso, ma troppo piccolo per dipanarsi in duecento pagine; una buona idea che, sul lungo tratto, a malincuore non basta; una manciata di personaggi da presentarci e un mostro che s'intravede a malapena, a scatti alterni.

Glielo si leggeva nell'occhio fosco, nel ringhio incipiente. Giudicava che volesse due cose.
La prima era scappare. La seconda era uccidere.

Se non tutti gli Stephen King escono terrificanti, comunque poco male. Ci si mette comodi sul bagnasciuga, allora, per godersi all'ombra dell'ultimo sole una prosa quanto mai rilassata, con protagonisti tratteggiati con pennellate grossolane e divertenti; uno stile che questa volta non va per il sottile, in quanto a ironia, ma che eppure attrae con citazioni pop che spaziano dalla Bambola assassina a Blow up e immancabili rimandi interni che in fretta ci portano nelle celle di Shawshank o nell'ufficio dell'indomito Alan Pangborn. È buona regola, poi, che all'appello non manchino mai gli empori, gestiti magari da squallidi prestatori a usura con il pallino per le scommesse vincenti, la pornografia, l'occulto. Gli insospettabili appassionati del paranormale – su tutti le esilaranti sorelle Pus, o un imprenditore in pensione con tanto di isola privata –, che bramano tavolette Ouija, registrazioni di sospiri d'altri mondi, fumo negli occhi. Un adolescente incuriosito da un rinnovo tecnologico guardato all'epoca con infondato sospetto, che insieme a una sorellina innamorata del cinema di genere e a un papà con un segreto scomodo da farsi perdonare si dedicano a un'indagine con il pericolo che incalza. 
C'è qualcosa che non va nella Sun 660 di Kevin, scartata con gioia e presto protagonista di pensieri di immediata distruzione. Davanti a qualsiasi soggetto il ragazzo decida di immortalare, infatti, la macchina disobbedisce: sulla carta fotografica che si asciuga emergono puntualmente un giardino, l'ombra di un'anonima silhouette e soprattutto un randagio nero e bavoso. Che a ogni scatto si fa sempre più minaccioso, e più vicino all'obiettivo. Abbastanza da saltare nel nostro mondo, rotta la catena tra una dimensione e l'altra, per divorarci l'anima in un sol boccone? The Sun Dog, quindi, lo si legge in un flash. Senza farsi grandi domande sulle origini del mistero, destinato a rimanere senza apparente risposta. Aspettandosi, come d'obbligo in un certo tipo di horror, l'inevitabile ghigno sadico dopo la quiete ingannevole dei titoli di coda. Peccato che questo cane abbai ma, al contrario del famigerato San Bernardo killer, poi non morda.
Il mio voto: ★★½
Il mio consiglio musicale: AC/DC – Dog Eat Dog

sabato 8 settembre 2018

Mr. Ciak: Resta con me, Tully, Disobedience, Chiudi gli occhi, In Darkness

La protagonista di Colpa delle stelle incontra il protagonista di Io prima di te: sembrerebbero d'obbligo i finali tragici, le lacrime. Insieme, infatti, conoscono un oceano che Pacifico lo è soltanto di nome e tutta la violenza dell'urgano Raymond. Che li spazza via, ma non li spezza. Feriti e disperati, andranno alla deriva per più di un mese. In Resta con me, cronaca romanzata della loro storia d'amore e sopravvivenza, i giorni sembrano però passare troppo in fretta, senza peso. Ci si nutre, ci si guarisce, ci si protegge con un sentimento che sa essere totalizzante senza per fortuna risultare stucchevole. Dotato della struttura strategica delle bambole russe e bilanciato con misura, con un taglio classico che non disegna tuttavia un colpo di scena finale, il film con la coppia di richiamo nel cast non rischia di risultare memorabile né nella parte melodrammatica né in quella catastrofica, benché discreto in entrambe. All'appello: le immagini spettacolari e spaventose della Tempesta perfetta, il viaggio come ricerca di sé del metaforico Vita di Pi, la solitaria ode alla resilienza di Cast Away. Novella Robinson Crusoe, Shailene Woodley tiene il timone del tutto con l'intensità di cui a sorpresa la avevo scoperta capace ai tempi della leucemia e dell'adolescenza in sala; Sam Claflin, nuovamente ferito e inservibile, si lascia invece salvare da un'altra donna con il polso di ferro. Resta con me non insegue onde alte o lidi mai esplorati prima. Ma non spiace, eppure, gettare l'ancora e ammainare per un po' le vele. Se alla tempesta, anche a quella aizzata del già visto, c'è qualcosa di buono che resiste: puntando i piedi contro tutti i luoghi comuni di sorta e le altre correnti avverse. (6)

Ah, le gioie della maternità. L'indimenticabile Juno, troppo saggia per diventare ragazza madre senza arte né parte, nel finale del miglior Reitman rinunciava a malincuore a quelle ma anche ai dolori che scoprirsi genitori comporta. A farci una rapida rassegna di questi ultimi, nel ritorno in sala del figlio d'arte, è una Charlize Theron splendida anche con venti chili di troppo, già irrequieta Peter Pan in Young Adult. Mamma di due bambini, ha rinunciato al sonno, al sesso e all'amor proprio in vista di un terzo neonato: la crisi di nervi è dietro l'angolo. Ci si ritrova infatti a rimpiangere il bel fisico dei tempi andati, la vita da single, perfino i fraintendimenti con una coinquilina rivista al bar; a non sopportare più un marito menefreghista, incantato dai videogiochi. Quello che le ci vorrebbe in regalo: una tata sui generis come Mackenzie Davis. Bussa alla sua porta, una notte, e assicura sia lì per aiutarla. Ha inizio allora un gioco di ruoli, di riflessi, con cenni di situazioni tanto surreali quanto amare. Chi è, cos'è, Tully? Né un'odierna Mary Poppins, né una stalker da home invasion, né una mitica sirena. Né un dramma, né una commedia. Un altro nome di donna, piuttosto. Un altro dialogo intergenerazionale a opera della solita Diablo Cody, che poco graffia, anche se fa piacere riscoprirla in forma dopo una serie di passi falsi. Squadra vincente non si cambia, se all'insegna di un intrattenimento lieve ma di qualità. Questa volta ne nasce una bambina capricciosa, che vorrebbe stare sveglia fino a tardi per poi ammalarsi di invidia, di rimpianti. La rabboniscono le cure di un regista dalla sensibilità spiccata e un cast raccolto. Le augura una serena notte una chiusa agrodolce, dopo una svolta mai messa in conto, che non fa chiudere la sua serata in un pianto isterico, né la nostra in una delusione evitata senza salti mortali. (7)

La pecora nera che torna, i pregiudizi della comunità che l'ha messa al bando, la scoperta di come tutto sia cambiato mentre lei era impegnata a diventare una lanciata fotografa. I suoi migliori amici si sono sposati tra loro. Da bambini s'intuisce fossero un trio affiatatissimo: lui diventato un giovane rabbino e lei, molto più che una compagna di scuola, etero se l'ebraismo non consente altrimenti. Rachel Weisz incontra di nuovo Rachel McAdams e, nonostante tutto, s'innamorano da capo. In due ore rubano aria, risate, baci profondi. Vivono una seconda adolescenza, tra amore e fede. Soprattutto, il loro diritto a essere donne. La Weisz apre infatti vecchie ferite, occhi appannati dal velo del perbenismo e questioni lasciate in sospeso su un volo per gli Stati Uniti. Al vertice del loro triangolo sentimentale, un barbuto Alessandro Nivola che a sorpresa spicca per intensità: marito e amico tra l'incudine e il martello, con una relazione e una promozione improvvisamente in forse. A raccontarceli è il cileno Sebastian Lelio, che sceglie la disobbedienza nel titolo ma qui, intanto, non sovverte le regole: algido e delicato, fin troppo, in un dramma al femminile a cui mancano i guizzi poetici che gli hanno valso un meritato Oscar per Una donna fantastica. Scopre l'America, ma non si perde né migliora, anche se stilisticamente Disobedience è un passo indietro. Spento, monocromatico, piatto in superficie, nasconde lo stesso cuore bello del ventoso La terra di Dio; un intero mondo di passioni sotterranee, sconquassato piano dalle riflessioni su un libero arbitrio affrontato a voce alta, ora in teoria e ora in pratica. (7)

L'amore è cieco, dicono. Cosa succederebbe se riprendesse a vederci? Emergerebbero le crepe e i difetti. E un'ottima Blake Lively, forse, si accorgerebbe che c'è del marcio nel marito Jason Clarke. Sono sposati da un po' e vorrebbero un figlio. Lei cieca in seguito a un incidente automobilistico, lui suo fedele custode. Un'operazione andata a buon fine, fra l'ammaliante Bangkok e una Spagna a luci rosse, restituisce alla protagonista la vista all'occhio destro. Da lì un taglio di capelli radicale, vestiti nuovi e una nuova casa, la tentazione del tradimento. Ma anche la diffidenza, le paranoie, bugie grandi e piccole quando il rapporto con un marito messo da parte minaccia di incrinarsi. Melodramma coniugale dagli spunti assai verisimili e vestito ingannevolmente da thriller negli spot pubblicitari, il cosmopolita All I See is You in Italia diventa Chiudi gli occhi. In realtà si parla dell'esatto contrario: di aprirli, gli occhi; di scoprire traumi familiari, indecisioni coniugali, la sessualità nella sua pienezza. La Lively, lasciato il bastone e il braccio di Clarke, vorrebbe vivere indipendente, curiosa, erotica: l'ammaliante regia dell'ondivago Marc Forster ce ne suggerisce lo stupore e le percezioni, la liquidità. Peccato che il consorte geloso abbia piani alternativi. Tremendamente ben fatto, purtroppo, il film è per il resto un ibrido confuso e brancolante. La sceneggiatura si accartoccia in fretta su sé stessa, risultando perfino noiosa nella confusione del finale, rendendo vano il risveglio di Gina. Facendo sì che la sua apertura al mondo, con un pizzico di rammarico per l'occasione persa, si scordi a occhi e sipario chiusi. (5,5)

Belle, famose, non vedenti per copione: anche Natalie Dormer si aggiunge alla schiera di giovani dive in pericolo con gli occhiali scuri, il bastone da passeggio e più di qualche scheletro nell'armadio. La solitaria Sofia vive a Londra, compone colonne sonore e ha come vicina di casa un'altra donna bella e impossibile: Emily Ratajkowski, figlia di uno spietato dittatore con innumerevoli nemici. Il soggiorno della star di Instagram sul set dura poco: cade dal secondo piano, e la polizia parla di suicidio. Ma Sofia, al piano di sotto, ha sentito qualcosa di sospetto. Perché, eppure, sembra covare tra sé e sé sentimenti ambigui e non informa gli agenti nell'immediato? Thriller elegante e laccato, diretto con inaspettata classe dal compagno di una Dormer qui anche co-sceneggiatrice, In Darkness è un teatro delle ombre con una sottile sottotrama politica e garbugli un po' confusi di doppi o tripli giochi. Sul ritmo perfetto di un metronomo, così, tenta di inanellare una lunga serie di colpi di scena: alcuni andati a buon fine, altri meno. Se poco convincono i personaggi affatto limpidi del galante sicario Ed Srkein e di Joely Richardson, femme fatale in là con gli anni, a rimediare agli errori è un personaggio principale che ha stoffa da vendere: un background doloroso suggerito con intelligenza, un'interprete con abbastanza carisma da bucare lo schermo, un titolo che cela una doppiezza di significato. Nel buio della coscienza, infatti, si perde la via del bene peggio che in quello della cecità. Benché impegnati a farsi ipnotizzare dalle pose di Natalie Dormer, nel nostro caso, no: in In Darness non procediamo alla cieca. (6,5)

mercoledì 5 settembre 2018

I ♥ Telefilm: Sharp Objects | The Innocents

Il romanzo è sempre meglio del film, o così sostiene qualche lettore. Cosa succede però se i nomi coinvolti sono troppo importanti per non ammettere un'eccezione alla regola? Cosa succede se non è di un film ma di un telefilm che si parla e se, cosa nota di questi tempi, sul piccolo schermo si è soliti aumentare il numero dei capitoli, la qualità, l'intensità? Inizialmente pubblicato con il titolo Sulla pelle e poi protagonista di innumerevoli ristampe, tra lo straordinario successo ottenuto al cinema da Gone Girl e quello di questa miniserie HBO già sulla bocca di tutti, l'esordio di Gillian Flynn – a quando un nuovo romanzo, mi domando, e quando decidersi a rinunciare a vivere di rendita? – non convinceva: un trio di magnetiche protagoniste femminili, infatti, faceva carta straccia di una trama che stentava a reggersi. Una giornalista dal corpo ricoperto di tagli autoinflitti che torna a casa in cerca di scoop, il ritrovamento di due adolescenti con i denti cavati di bocca, i segreti di una famiglia che vive di apparenze e quelli di una provincia americana arricchitasi conducendo maiali al macello o rievocando antiche battaglie. I sospettati: un padre e un fratello maggiore che reagiscono male al lutto, e ancora peggio alla pressione pubblica. Gli oggetti contundenti con cui marchiarsi a sangue il corpo, non soltanto quelli del delitto, bensì le lingue affilate di una matriarca gelida e di una sorellastra arrivista; la relazione passeggera con un detective dalle buone intenzioni, forse troppo gentile per un'anima nera come lo è in fondo la problematica Camille. Trattandosi di una trasposizione fedelissima, nel bene e nel male, il destino di banalità e confusione di Shap Objects vive un'immancabile replica in tivù: ecco palesarsi gli stessi contro riscontrati su carta, e con una divisione in episodi – otto di un'ora ciascuno, dunque tanti – che li esacerba allo sfinimento. I ritmi diventano dilatatissimi, il giallo un pensiero incidentale e le protagoniste, distrazioni eccellenti, uno specchietto per le allodole. Ci si prova a convincere del contrario, allora, con un montaggio a regola d'arte che rende la struttura un puzzle; con una colonna sonora lisergica, in cui sono le note dei Led Zepelin a far da padrone; con la regia indie di un Vallée con il pallino per le storie al tempo del metoo e per le donne con gli attributi. L'abuso della telecamera a mano mi ha innervosito, a lungo andare, e proprio non mi sono fatto bastare l'impegno di un'apatica Amy Adams che, colta fuori dalla sua comfort zone, si fa rubare la scena da Patricia Clarkson superba e dalla rivelazione Eliza Scanlen. Rinnovare il copione di un giallo non particolarmente ispirato rendendolo, più che d'autore, pretenzioso? Sharp Objects con me ha ingranato a fatica e dopo essersi preso tutto il tempo del mondo, troppo, accelera all'inverosimile nel frettolosissimo finale – stralci di spiegazione, pensate, sono relegati in flashback lampo dopo i titoli di coda, alla stregua di un horror di infima categoria. È una penna scarica, un coltello spuntato. Una serie, annunciata in anticipo come l'evento dell'estate, che non graffia un lettore coriaceo. Farà senz'altro faville durante la prossima stagione dei premi, mieterà consensi e mi sottoporrà a più di qualche critica, ma per me rimarrà un mistero. Meno scontato e più fitto ancora di quelli nascosti nel cuore della sordida, sonnacchiosa Wind Gap. (5,5)

Si conoscono a scuola. Candidi e innocenti come da titolo, June e Harry sono una specie da salvaguardare in una generazione che brucia in fretta le tappe e veicola modelli sbagliati. Lei cresciuta nell'inganno, con un patrigno che l'ha protetta con le buone e con le cattive dalle domande su una madre scappata lontano da loro dopo una notte di cui in giro ancora si mormora; lui, più intraprendente, alle prese con un genitore catatonico che necessita di attenzioni continue. Si innamorano presto ma di nascosto, scoprendosi ugualmente fragili e in cattività, e pianificano la fuga su una Fiat sgangherata. Meta: una Londra mai così distante da quella provincia senza prospettive. Il viaggio in macchina, già consolidata metafora giovanile di per sé, svela in fretta la natura nascosta della protagonista: è una mutaforma, creatura sbucata direttamente da una leggenda scandinava. Scopriranno insieme che ci sono altri come lei, identici nella natura ma opposti nei desideri: possedere qualcun altro è erotico, infatti, sa di onnipotenza. Soprattutto, si accorgeranno insieme allo spettatore che c'è una trama parallela alla loro che conduce a un'isola in Norvegia: una casa di donne, portatrici dello stesso inspiegabile gene, sedotte e controllate da uno psichiatra con il volto del sempre fascinoso Guy Pearce. Questi novelli Romeo e Giulietta, accomunati dallo stesso finale (di stagione) tragico, rischiano di perdere innocenza e alchimia strada facendo, confusi sui loro stessi sentimenti. Rischia di perdersi lei, June, nel riflesso di quella mamma che non si è mai raccontata con limpidezza e di un dubbio che intanto logora la coppia. Non bisogna perdere il controllo: la protagonista ha sperimentato che basta un tocco anche fugace, quando è fuori di sé, per risvegliarsi in un corpo che non le appartiene e, suo malgrado, per profanarlo, lasciando lungo la strada uomini e donne come gusci vuoti. E l'amore, invece: ha effetti collaterali oppure ti salva? Di teen drama a tinte fantasy si tratta, sì, e con passioni salvifiche, famiglie preoccupate e cattivi annunciati ci si intrattiene per otto episodi. Fortunatamente, non siamo nei territori post Twilight: vuoi i protagonisti sconosciuti e acqua e sapone, che insieme formano una coppia tenerissima; vuoi i grigi acquosi e la pacatezza delle produzioni britanniche; vuoi una storia semplice ma ad alto tasso emozionale, complice la colonna sonora indie rock, che agli adolescenti parla di identità metaforicamente e non. Romanzo di formazione sci-fi, delicatissimo tanto nella componente sentimentale quanto in quella mitologica, The Innocents è la serie di cui nessuno sta parlando: perché piccola, comunque più di quanto ci si aspetterebbe da una coproduzione internazionale, ma piena di grazia. (7)