È
una delle serie più belle dell’anno. Ma, a malincuore, nessuno o quasi se n’è accorto.
Com’è possibile, se interpretata magistralmente e con almeno tre
episodi da incorniciare? Lo ammetto, sì: sono tornato anch’io
con qualche dubbio dalla famiglia Piccirillo. Un meraviglioso Jim
Carrey, allo stremo della pazienza, si era macchiato di un atto
terribile. Con una porzione di fegato in meno e un programma da
reinventare, nella seconda stagione vive: la crisi matrimoniale con
Judy Greer; lo sciopero dei suoi epigoni sparsi per il mondo; il
lancio di un nuovo, discusso giocattolo, per ampliare la
comunicazione con i fan; il crollo psicologico del padre Frank
Langella, in procinto di cedere le redini ad altri. Si può viaggiare
indietro nel tempo? Se lo domanda, intanto, il figlio adolescente:
messa da parte la fase della ribellione, qui si rifugia
nell’impossibile. E la serie torna indietro, sì: alle origini
della vocazione di Carrey e dell’avvio di un amore che gli costò
molto coraggio; in flashback romanticissimi dove il tempo si ferma
come in Big Fish. E il cuore batte più forte. Superiore alla
stagione introduttiva, consigliata anche agli scettici, Kidding
smorza il surrealismo di Gondry e perfeziona la dimensione
corale. Per risalire dal burrone bisogna arrampicarsi sulla mano di
un gigante buono: oltre la cascata, così, potremo trovare una
riflessione commovente e originale sul lutto, la malattia e
l’abbandono. In questi pupazzi di cartapesta, signore e signori,
quanta anima. (8)
Già
rinnovata per la terza stagione, accolta con immutato calore dai fan,
After Life è stata la delusione che non mi aspettavo. Attesa
con impazienza per il sano desiderio di sfogarsi in poltrona – di
ridere e di piangere impunemente, insomma, come soltanto il buon
Ricky Gervais sa fare –, avrebbe dovuto raccontare una nuova fase
del lutto del protagonista. Dopo la negazione, la rabbia e la
depressione, magari finalmente l’elaborazione. Le svolte della
stagione precedete lo lasciavano supporre. Tormentato dallo
sconforto, Tony trovava la salvezza grazie al suo pastore tedesco,
agli strampalati colleghi di lavoro e a un’infermiera con cui,
purtroppo, faticava a sbottonarsi. Ricominciare a vivere significa
dimenticare Lisa, scomparsa troppo presto? La seconda stagione di
After Life si guarda senza fatica, ma ha un difetto: non va né
avanti né indietro. Per Tony non ha mai inizio una nuova fase.
Sempre sarcastico e malinconico, trova conforto nelle chiacchiere con
un’altra vedova e nei vecchi filmini di Lisa: la sua routine,
ripetitiva, mi è venuta a noia. Ogni episodio si conclude con i suoi
occhi lacrimosi e con qualche frase fatta sul lutto, con un buonismo
arrendevole che proprio non si addice all’autore. Ricky, ma cosa
combini? Perché questo buonismo, ancora e ancora? Non c’è traccia
del suo genio neanche nei personaggi secondari: a loro sono affidati
gli inserti comici, e lì fioccano battute di inutile volgarità su
prostata, culi e masturbazione. Zuccherosa e sboccata, stomachevole per l’uno e l’altro
eccesso, la serie fa storcere il naso: soprattutto per le premesse
tradite. Il “dopo”, infatti, non viene mai affrontato. (5,5)
Era
stata una delle sorprese della sua annata. Misteriosa e sofisticata, Homecoming era perfetta così. Lo pensavo
ancora prima dell’arrivo della seconda stagione: senza Julia Roberts nel cast, senza Esmail alla regia, e dunque già inutile
di per sé. I pronostici erano comunque più felici del risultato
effettivo. Spiace dirlo, ma che fallimento è questo ritorno? Prendete l’eleganza e l’ambiguità delle puntate
precedenti, buttatele via. Televisivo e convenzionale, con inserti
involontariamente comici – Joan Cusack nei panni di un militare
senza scrupoli, infatti, è tutta da ridere –, aggiunge pochi
tasselli alla storia della Geist Group e dimentica le vicende della
terapeuta Heidi, nonostante il ritorno dei personaggi di Stephan
James e Hong Chau. Mentre il primo continua a porsi domande sul suo
passato, l’altra raggiunge i vertici in un’improbabile scalata al
potere: l’azienda che su carta produce deodoranti, in realtà, ha
campi sterminati di bacche rosse – antidodo allo stress, nelle dosi
sbagliate possono condannare le persone all’oblio. Vittima
dell’amnesia, questa volta, è Janel Monàe: la cantante, qui al
primo ruolo da protagonista, si sveglia su una barca alla deriva.
Insieme allo spettatore, è chiamata a mettere insieme i pezzi.
Inutile dirlo, questi ultimi s’incastreranno in maniera prevedibile
– tra storie d’amore arcobaleno e personaggi dagli incarichi
improbabili – e condurranno a un finale degno di un film d’azione
anni Novanta: di quelli in cui i cattivi minacciano di avvelenare una
città qualsiasi nebulizzando gas tossici sulla folla.
Sconsigliatissima, mal scritta e recitata in maniera zoppicante, ha
il pregio isolato della breve durata: sette episodi di trenta minuti,
per vederla e scordarla. Senza che la Geist – con i suoi veleni,
con i suoi tranelli – si prenda la briga di metterci lo zampino.
(4,5)
Che
bella coppia, lo scorso anno di questi tempi, quella composta da
Christina Applegate e Linda Cardellini. Nonostante la scarsa
originalità della serie che le vedeva protagoniste, ero rimasto
stregato dai loro tempi comici e dalle sfaccettature dei loro
personaggi. L’ennesima variante delle irripetibili Desperate
Housewives, a ben vedere, ma con qualcosa di diverso tra le
righe: nella loro leggerezza c’era una gravosità impensata; una
disperazione che si scorgeva nei gesti, nelle svolte, negli scoppi
d’ira o di pianto. Unite inizialmente da un scomodo segreto di
morte – la seconda aveva ucciso il marito della prima –, questa
volta invertono le carte in tavola: è stata la Applegate, vedova
dedita al vino rosso, a uccidere James Marsden, alias l’ex della
Cardellini. Chiamate a coprirsi le spalle a vicenda, entrambe
colpevoli, partono da queste premesse tragicomiche per mostrarci
nuovi aspetti della loro amicizia; di una solidarietà femminile
esageratissima che, senza troppe pretese, intenerisce e fa sorridere.
Tra cadaveri nei congelatori a pozzetto, vanghe e nuove storie
d’amore, nella seconda stagione – giunta inattesa: lo ammetto,
non confidavo nel rinnovo – Dead to me calca la mano
sull’elemento grottesco e corre a braccia aperte contro i cliché
delle commedie nere. Compresi gemelli tornati dal passato, identici
in tutto e per tutto all’uomo assassinato: ovviamente, ci si
innamorerà di loro. Si finisce per preferire la freschezza
insospettabile della prima stagione, ma la compagnia delle assassine
della porta accanto non dispiace neanche quest’anno. Bravissime, le
protagoniste potrebbero essere una delle coppie meglio assortite del
piccolo schermo se avessero dalla loro parte una sceneggiatura più
memorabile. Senza rimpianti, con le atmosfere assolate e gli
occultamenti di cadavere dello sfortunato Santa Clarita Diet, ci accontentiamo finché dura. (6,5)