martedì 31 dicembre 2019

[2019] Top 10: i miei film


10. The Nightingale
Ha diviso Venezia in due. E in due, completamente a tradimento, mi ha spaccato il cuore. Una storia di stupro e vendetta girata con ritmi da western. Una tragedia di stranieri in terra straniera, che strazia con la brutalità delle immagini e commuove con la limpidezza del suo canto di libertà.

9. Suspiria
È il primo film che ho visto al cinema quest’anno. È dello stesso regista che nel 2018 ha guadagnato scettro e corona nel mio listone, con la cronaca di un’indimenticabile estate italiana. Potevo forse scordarmi di Guadagnino, anche quando si dà ai remake azzardati; anche quando esagera con troppa carne al fuoco? Il suo horror grigio e femminista è una danza conturbante. Non sarà Argento, ma luccica ugualmente.

8. Eighth Grade – Terza media
Amato in patria da pubblico e critica, in Italia è però un titolo destinato all’anonimato delle piattaforme streaming. Commedia adolescenziale da salvare necessariamente dall’oblio della nostra distribuzione, è una macchina del tempo che funziona lì dove Lady Bird aveva fallito: ricordarci i segni dell’adolescenza – e dell’acne –, attraverso lo sguardo di una protagonista da abbracciare.

7. Il traditore
Unico italiano in lista – degni di menzione, però, anche Martin Eden e Ricordi? –, il film di Bellocchio emoziona per la lucidità di un regista che non sembra avvertire la stanchezza degli ottant’anni. Il suo Buscetta è un personaggio dalla levatura shakespeariana e il mimetismo dell’interprete Pierfrancesco Favino, sempre empatico ma lontano dal santificare i crimini dell’uomo, regala all’attore la performance della carriera.

6. Border – Creature di confine
I troll raccontati dall’autore di Lasciami entrare sono antiestetici, sgraziati, promiscui. Nel fitto dei boschi fanno un sesso strano e si rendono protagonisti di una storia d’amore a tratti raccapricciante, sospesa a metà strada tra mitologia e cronaca. Ma, a ben vedere, quanta bellezza c’è nella loro bruttezza?

5. Ritratto della giovane in fiamme
Il mito che preferisco, quello di Orfeo e Euridice, rivive in una relazione su uno sfondo degno di un’utopia femminista. Lei, pittrice, si scopre attratta dall’altra, modella. Che deve cercare di dipingere a memoria, limitandosi a osservarla. Ma chi osserva non viene forse necessariamente osservato a sua volta? Accordi di sguardi e giochi di ruolo, nel tableau vivant con la sequenza finale più bella che io ricordi.

4. La Favorita
Era il mio favorito alla notte degli Oscar, ma purtroppo è rimasto a bocca asciutta. Non potevo non ricordarlo qui, questo period drama caustico e seducente in cui tre grandi attrici fanno a gara di bravura. E assieme a loro un comparto tecnico – tra regia, montaggio, scenografia, costumi –, che rivaleggia fino all’ultimo sguardo con la precisione chirurgica della sceneggiatura.

3. Dolor y Gloria
La scorsa primavera ho recuperato tanto, tutto Almodovar. E tanto, tutto ho trovato anche nella sua ultima fatica: un testamento spirituale, che trova in Antonio Banderas un eccellente alter-ego e in una storia fortemente autobiografica l’ispirazione per emozionarci ancora. Se la settima arte è soprattutto narrazione, allora questo è cinema allo stato puro.

2. Storia di un matrimonio
Lo ammetto, non l’ho guardato con la giusta attenzione. Durante la visione, infatti, ho pianto fino ad avere la vista appannata. Da figlio di separati, ho visto moltissimo della mia famiglia sgangherata. E nelle interpretazioni di Adam Driver e Scarlett Johansson – come dimenticare le loro liste, come riprendersi dai loro conflitti? –, le migliori interpretazioni dell’anno.

1. Parasite
Australia, Stati Uniti, Italia, Svezia, Francia, Spagna: infine, la Corea. In un 2019 in cui l’universalità del cinema mi ha portato in lungo e in largo, ho deciso di fermarmi a Seul per tirare i remi in barca. L’ultimo capolavoro satirico di Joon-ho, vincitore della Palma d’oro, è una riflessione sociale che parte come una commedia nera e si trasforma poi in un thriller claustrofobico. Perché non c’è niente di più spaventoso dell’essere umano, se costretto a mordere per difendersi.

domenica 29 dicembre 2019

[2019] Top 10: Le serie TV


10. Dickinson (Apple)
Dissacrante, trasgressiva, libera come l’aria. La vita di una delle più celebri voci americane, raccontata in una commedia adolescenziale dall’irresistibile colonna sonora elettropop; ma a sorpresa, all’appello, non manca nemmeno la poesia.

9.  The Morning Show (Apple)
Scandali, orgoglio femminile e #metoo: il tutto, attraverso i retroscena di un notiziario che dà il buongiorno agli americani da generazioni. È un’aggiunta dell’ultimo momento ma, vuoi il cast sfavillante, vuoi le tematiche di bruciante attualità, la serie sui lati oscuri della televisione poteva forse mancare nel meglio della TV di quest’anno?

8. Modern Love (Amazon Prime Video)
Otto storie d’amore sullo sfondo di una New York più magica che mai. Otto storie vere. Per tornare a credere nelle relazioni, nell’amicizia e soprattutto in sé stessi, grazie alla serie antologica a prova di cuori di pietra. Tramontata la stella di This is us, potrebbe diventare la coccola per eccellenza da concedersi nei giorni storti.

7. When They See Us (Netflix)
Sporadica voce fuori dal coro, al gelido rigore di Chernobyl ho preferito la commozione della miniserie diretta da Ava DuVernay. La cronaca di un’ingiustizia realmente accaduta, che lascia rattristati e inviperiti fino alle lacrime. A volte, se nel posto sbagliato al momento sbagliato, non si hanno colpe: a parte quella di avere la pelle scura.

6. The OA – Stagione 2 (Netflix)
È stata la migliore serie della sua annata. Tornata sul piccolo schermo qualche anno dopo, ha saputo ripetere la sua magia ma non il suo successo: brutalmente cancellata, nonostante una seconda stagione decisamente all’altezza delle aspettative, il singolare sci-fi con Brit Marling aveva ancora altri misteri da svelarci. Peccato. Resterà, comunque, un’esperienza di vita.

5. Stranger Things – Stagione 3 (Netflix)
Ero pronto a dirmi stufo. Della retromania dilagante. Di una serie per grandi e piccini troppo in fretta diventata cult. A dispetto dei dubbi della stagione precedente, invece, Eleven e i suoi insostituibili amici sono tornati con il desiderio di farmi ricredere:  ragazzi, sfida vinta! L’estate di sangue dei bambini dei Duffer Brothers, ormai quasi adolescenti, non passerà mai di moda.

4. Looking For Alaska (Hulu)
Non tutti i John Green, malauguratamente, diventano un tormentone. L’autore di Colpa delle stelle, che in sala ha strappato chissà quante lacrime, sembra infatti non aver fatto il boom anche a puntate. Da me consigliato in lungo e in largo, l’adattamento di Cercando Alaska – sceneggiato dal creatore di The OC e Gossip Girl – è il gioiello grezzo da riscoprire.

3. The Marvelous Mrs. Maisel – Stagione 3 (Amazon Prime Video)
Non so davvero come sia possibile. Trovare anno dopo anno nuove cose da dire. E, soprattutto, nuove cose per cui ridere. Ma se hai un’autrice come Amy Sherman-Palladino, se hai un talento comico come quello di Rachel Brosnahah, inutile porsi domande: tanto vale mettersi comodi, le orecchie dritte e gli occhi spalancati, per godere del genio di uno show di stand-up comedy lungo già tre anni.

2. Fleabag – Stagione 2 (Amazon Prime Video)
Phoebe Waller-Bridge. La amavo anche quando nessuno la conosceva, ma questo è stato l’anno della sua consacrazione: del suo talento, infatti, si sono accorti tutti. Nonostante la serie da lei diretta e interpretata ci dica addio qui, alla seconda stagione che ha schierato in campo un iconico Andrew Scott, scommetto a scatola chiusa che il personaggio di questa Bridget Jones ancora più sfortunata e inglese dell’originale sia soltanto la punta dell’iceberg.

1. Euphoria (HBO)
Euforia, sì. È quello il sentimento con cui ho salutato la serie di Sam Levinson: quella forma di contentezza eccessiva, che da un momento all’altro può sfociare nella disperazione più nera. Merito del cast giusto, guidato da una Zendaya di cui mi dichiaro innamoratissimo. Merito di una regia da manuale, che non sfigura davanti ai ritratti adolescenziali di Boyle, Korine, Araki. Sesso (spinto), droga (a non finire), rock ‘n’ roll (gli si preferisce, tuttavia, Billie Eilish): per favore, non chiamatelo teen drama.

venerdì 27 dicembre 2019

[2019] Top 10: Le mie letture


10. La simmetria dei desideri, di Eshkol Nevo (Neri Pozza)
Quattro amici, quattro anni, un patto: realizzare i propri desideri entro l’inizio dei prossimi mondiali. Con uno stile che ricorda il miglior Nicholls, il mio primo romanzo dello scrittore israeliano fa il bello e il cattivo tempo con una storia che a tratti fa ridere, a tratti fa piangere. È rimasta una delle maggiori emozioni del 2019.

9. La ragazze delle meraviglie, di Lavinia Petti (Longanesi)
Un’amica scrittrice attesa per anni e anni al varco. Un ritorno irresistibile in una Napoli da sogno (e da incubo), guidato dallo spettro di un inquietante Pulcinella e da una fantasia senza eguali. Quanto è brava Lavinia? Quando tornerò, soprattutto, a visitare la città che parla il dialetto dei miei parenti stretti?

8. La lista semidefinitiva dei miei peggiori incubi, di Krystal Sutherland (Rizzoli)
A volte mi dico di non avere l’età. Per apprezzare romanzi per ragazzi. Per avere paura. E poi ci sono quelle autrici brillanti, dall’immaginazione iperattiva, che ti rubano il cuore con una saga familiare a metà tra Tim Burton e Wes Anderson. Quelle letture che sussurrano ai tuoi giorni storti e alla tua ansia sociale, vincendo i peggiori tabù: malattia mentale e depressione.

7. Dracul, di Dacre Stoker e J.D. Barker (Nord)
Tra biografia e invenzione, si muovono un diretto discendente di Bram Stoker e il collega J.D. Parker. Lo spunto del loro romanzo fa tremare, su carta, ma per i motivi sbagliati: chi oserebbe scrivere il prequel di una pietra miliare dell’horror? L’esperimento, vincente, sorprenderà perfino gli appassionati con una narrazione ad ampio respiro e dettagli – cuori pulsanti, topi, blatte – da autentico almanacco della paura.

6. Il potere del cane, di Thomas Savage (Neri Pozza)
Riscoperta postuma, una tragedia americana su un triangolo inconciliabile e un’omosessualità vissuta con inquietudine. La tensione è alle stelle. L’epilogo è degno di un thriller. Splendido e perturbante,  questo novello classico è il lato oscuro della Holt di Kent Haruf.

5. Cat person, di Kristen Roupenian (Einaudi)
Dodici racconti che spiazzano, spaziando dalla favola nera alla commedia grottesca, dalla denuncia sociale all’erotismo. Contemporanea, scorretta e amorale, l’autrice americana  - voce di Tinder, Twitter, del metoo –  conferma il suo diritto a non essere né moglie né intellettuale battagliera: ma vampira, principessa, amante, bambina dai desideri infernali.

4. Nemesi, di Philip Roth (Einaudi)
Un’estate sospesa negli anni Quaranta, una doppia guerra: da un lato le bombe, dall’altro la poliomelite. Di chi è la colpa? Degli italiani, dei randagi, del cibo spazzatura oppure di Bucky, protagonista irreprensibile? Se con la serie TV Chernobyl è mancata la scintilla, qui invece quanta agonia, quanta ira, quanta bellezza.

3. La clausola del padre, di Jonas Hassen Khemiri (Einaudi)
Le famiglie infelici sono infelici a modo loro? Mi perdono Tolstoj, ma dissento. C’è più della mia qui – tra le pagine di una commedia svedese degna di Allen – che in una foto ricordo. L’ho amato ma, se siete persone liete e speranzose, troppa verità potrebbe nuocere.

2. Favola di New York, di Victor LaValle (Fazi)
Apollo, antiquario, incontra Emma, bibliotecaria. Romantici e hippy, hanno un bambino nato sulla linea A della metropolitana. Sembra una fiaba moderna, ma dopo un gesto indicibile si trasforma in un incubo. Tutto dovrebbe finire così, nel sangue: e invece comincia. Incantevole, originale, violentissimo, un romanzo allegorico che parla del lutto al tempo dei social, della presidenza Trump, di troll leggendari e metaforici.

1. Storia del nuovo cognome, di Elena Ferrante (E/O)
Son venuto meno ai miei buoni propositi. In un dicembre svogliato e irrequieto, non ho portato a termine la tetralogia dell’Amica geniale come avrei sperato. Ma Elena Ferrante l’ho letta e riletta – ben quattro romanzi in dodici mesi, compreso La vita bugiarda degli adulti – innamorandone ogni santa volta; sento, però, che l’emozione dell’adolescenza delle indimenticabili Lila e Lenù, nel futuro prossimo, non sarà né superata né equiparata. 

martedì 24 dicembre 2019

And the Golden Globe goes to: Ritratto della giovane in fiamme | Cena con delitto | The Farewell

Si può fare un ritratto a chi rifiuta di mettersi in posa?  Si può fare un melodramma su una passione che a lungo resta sottintesa? È la sfida che accetta una pittrice del tardo ‘700: memorizzare i tratti della figlia della committente e disegnarli in segreto, senza che la modella se ne accorga.  È la sfida corsa da Cèline Sciamma, non nuova alle riflessioni sui meccanismi della sessualità: raccontare un amore vissuto a distanza, che quando finalmente si consuma lascia invidiosi davanti alla sua energia vitale. Sullo sfondo di uno scenario che ispira meraviglie nel direttore della fotografia e pensieri suicidi nelle ventenni irrequiete, si consuma la breve convivenza tra Marianne e Héloise: la prima donna di mondo che ha conosciuto l’aborto e l’emancipazione; la seconda, mancata novizia che vorrebbe soltanto correre e nuotare, rifiutando di essere data in moglie. La pittrice le passeggia accanto, la scruta, la dipinge a memoria. L’osservazione porta alla venerazione. E la venerazione, piano, all’amore. Ma osservare implica necessariamente essere osservati. La collaborazione dipingerà sorrisi sul viso severo della sposa e getterà le basi per l’evoluzione artistica della pittrice, sin troppo legata alle convenzioni manualistiche. L’opera d’arte, nel momento del congedo, apparterrà più all’artefice o all’acquirente? Il mondo della regista è popolato da donne che bastano a loro stesse, dove gli uomini sono anonimi barcaioli che vanno e vengono. Un’isola che non c’è – da eremo sperduto a parentesi felice, grazie alle suggestioni dell’ultima arrivata – che ospita un’utopia femminista radicale, che tuttavia non intimidirà gli spettatori dell’altro sesso.  Quieto e persistente, il sentimento amoroso non esplode mai rumorosamente, ma vibra come un diapason per l’intera durata, sottoforma di una tensione costante che, nell’epilogo, si trasforma in struggimento. All’apparenza algido e rigoroso, Ritratto della giovane in fiamme è in realtà un film che palpita di smania e curiosità. Un tableau vivant tridimensionale, che sa sorprendere con scene di grande erotismo e falò dal fascino stregonesco. Filo conduttore, un mito intramontabile: perché Orfeo si voltò pur sapendo di perdere Euridice? La scelta del poeta ebbe la meglio su quella dell’amante: la poesia, infatti, parrebbe vivere di ricordi e di rimpianti. Io ricorderò a lungo il rosso e il verde degli abiti delle protagoniste, il crepitare del fuoco e delle onde, i giochi prospettici allo specchio, il numero ventotto. E soprattutto quel finale memorabile, sulle note di Vivaldi, che gareggia con la bellezza da sindrome di Stendhal delle lacrime di Timothée Chalamet. (8)

Lo hanno acclamato come il ritorno in sala dei gialli alla Agatha Christie. Attesissimo e preceduto da recensioni entusiastiche, Cena con delitto è forse l’intrattenimento più solido che troveremo al cinema durante le festività. Ma, per via di aspettative parzialmente disattese e di un cast non sempre sfruttato al meglio, il film di Rian Johnson non brilla di luce propria come sarebbe stato lecito aspettarsi.  Al punto che le innumerevoli considerazioni nella stagione dei premi sfuggono, davanti a un divertissement più ritmato di 7 sconosciuti a El Royal ma meno esilarante del survival Finché morte non ci separi. Partiamo con ordine: chi ha ucciso Christopher Plummer, scrittore rinvenuto con la gola squarciata? Nella sua magione in stile Cluedo si affollano parenti di sangue e parenti acquisiti. Tutti, di recente coinvolti in una discussione col patriarca, sono sospettabili. Il movente: i soldi. Indaga un inedito Daniel Craig con l’accento del Sud, detective tanto istrionico quanto poco indispensabile ai fini delle indagini, e accanto a sé ha una Watson a sorpresa: più degli strepiti della Collette, della presenza scenica di quella Curtis in sordina o della mascella scolpita di Evans, infatti, ad avere un ruolo clou è l’incantevole infermiera Ana De Armas. La vera protagonista della storia, checché ne dicano i poster. E soprattutto l’unico personaggio di buon cuore in una storia dominata da intrighi e macchinazioni. La struttura del mistero – in realtà irrispettosa del canone classico, che prevedrebbe ambienti ristretti e personaggi insondabili – si frantuma, svelando un importante colpo di scena a metà e rinunciando preso alla dimensione corale,all’insegna di ronde e inseguimenti che appesantiscono la metà esatta del film. Per fortuna, Johnson ha in serbo un altro colpo di scena per l’epilogo, ma l’effetto sorpresa manca. Cena con delitto vorrebbe essere una commedia nera, ma fa soltanto sorridere qui e lì. Vorrebbe parlare di politica e razzismo, ma il suo far satira punge a stento.  Ben scritto, scorrevole e godibile, trova comunque una perfetta conclusione in una sequenza finale che, rispetto all’incipit, cambia totalmente le carte in tavola e i ruoli di potere. Di ritorno dal cinema, ho pensato a quei dessert rivisti dei ristoranti stellati (ad esempio, il tiramisù scomposto). Che son divertenti e gustosi, sì, ma non quanto la ricetta originale. (7)

Lo scorso anno, alla conquista del boxoffice c’erano gli asiatici del guilty pleasure Crazy & Rich. A ispirare un nuovo viaggio da New York all’Oriente, in questa stagione, è un’occasione meno lieta: una nonna gravemente malata – tumore ai polmoni –, con cui concedersi qualche ultimo giorno insieme annullando le distanze. Siamo in Cina. Terra di abbuffate in compagnia, quartieri in trasformazioni, contraddizioni profonde. Dove, a una certa età, interviene una strana forma di decoro nell’affrontare la perdita. I membri della famiglia Wang esprimono il dolore attraverso urla sguaiate ai funerali, tengono banchetti sulle tombe con le prelibatezze più amate dal defunto, ma sono estremamente riservati sull’argomento malattia: l’anziana in fin di vita, perciò, non dovrà sapere della sua condizione. In nome di un profondo senso di condivisione, i familiari riuniti per un’occasione organizzata a tavolino – un matrimonio lampo, che apre le danze per l’inevitabile funerale – si sobbarcano le preoccupazioni della nonna nel gesto di generosità definitivo: la vita, infatti, appartiene più a noi stessi o ai nostri cari? A giudicare dal temperamento dell’arzilla Zhao Shuzhen, la bugia a fin di bene ha effetti miracolosi: la matriarca mette bocca sui dettagli della cerimonia; rimbecca la nuora giapponese; si preoccupa per la salute altrui; domanda della vita sentimentale della nipote prediletta. Strappata a un’infanzia in Cina, la giovane Awkwafina – trentenne a un bivio – reagisce con la stessa espressione per l’intero film: immusonita e affranta, appare incapace di comunicare la leggerezza che servirebbe alla causa. Questo è il difetto dell’indie con gli occhi a mandorla, sempre al crocevia tra farsa e tragedia, che purtroppo mi ha lasciato indifferente durante la visione. Presentato come una commedia, in realtà ha protagonisti piuttosto mesti e non mi ha fatto né ridere né piangere, quando – da premesse – mi sarei aspettato entrambe le cose. Agrodolce e dai ritmi lenti, mi è parso più interessante che bello: a essere degni di stupore sono infatti il senso della vita e della morte del popolo cinese; le riflessioni sentitissime sulle differenze culturali e le proprie radici. Benché il titolo alluda a un addio, l’esordio della fortunata Lula Wang convince più nel suo dare il bentornato . (6,5)

sabato 21 dicembre 2019

Mr. Ciak: The Nightingale, Light of My Life, Ready or Not, Ophelia, Teen Spirit, Vox Lux

Sono uno spettatore che generalmente non si lascia turbare. Jennifer Kent, già ai tempi del bellissimo esordio, tocca però i tasti giusti. E al secondo lungometraggio, premiato a Venezia, conferma il suo ascendente su di me. Tanto The Babadook mi aveva affascinato, quanto The Nightingale mi ha scosso. Sarà che si inizia col peggio – uno stupro, l’infanticidio –, per poi giungere a un epilogo liberatorio, che stempera la sofferenza in un’alba sull’oceano. In un’Australia trasformata in una prigione a cielo aperto, un tenente spregevole – un inedito Sam Claflin, lontano dai soliti film sentimentali –  s’invaghisce di una detenuta irlandese. Il capo di un plotone della morte come può reagire al rifiuto? Sopravvissuta allo sterminio della famiglia, Clare ricerca l’aiuto di un aborigeno: entrambi emarginati, i paria troveranno punti in assonanza in quelle lingue e in quei canti così diversi. Gli inglesi espropriano, violentano, bruciano, ammazzano. E la visione non lascia niente di suggerito né di impunito. Il percorso della coppia, disseminato d’incubi e cadaveri decapitati, risulta provante e potentissimo, nonostante i discutibili viavai della parte conclusiva. Classico ma inattaccabile, The Nightingale è l’epopea western che non avremmo pensato nelle corde della regista; un horror sui mali della colonizzazione, ambientato in una natura resa ancora più selvaggia dalla presenza britannica. È uno schiaffo in faccia per cui ringrazi. Il merito spetta soprattutto all’interpretazione ribollente di Aisling Franciosi, che conosce la vendetta ma anche il perdono; che ha seni beffardi che non smettono di pompare latte; che confida più nelle parole che nella violenza. La sua commovente collaborazione con Baykali Ganambarr, indigeno che decifra le orme e il canto degli uccelli, regala un duetto di rara intensità su un usignolo che non voleva né gabbie né padroni; che preferiva ruggire anziché cantare. (8)

Stesi sulla schiena, parlano fitto per dieci minuti. Sono un padre e una figlia. Lui spiega a lei il sesso e l’amore. Le insegna che nessuna razza è superiore alle altre. Le tramanda i ricordi di una mamma da tenere in vita a furia di storie. Le racconta, rivisto e corretto, il mito dell’arca di Noè. A salvare l’umanità dal Giudizio Universale è stato davvero un uomo? Sono stretti in una tenda da campeggio. Sembra una gita nei boschi, ma in realtà è la fine del mondo. Le donne si sono estinte, non si sa perché, e quella bambina – vestita da maschietto per camuffarsi – è un’eccezione alla regola. Il padre, che trasmette infinita tenerezza, è un uomo di parole e non d’azione. La figlia, terrorizzata dall’evenienza di un abbandono, vive l’età in cui inizia a pretendere gonne e giubbotti glitterati. Camminano tra gli alberi, in cerca di ville o baracche. A volte s’imbattono in anziani ospitali, altre in bracconieri spietati. Light of My Life, esordio alla regia di Casey Affleck, non indugia nei sentimentalismi. Non trasforma la sua giovane protagonista in un canonico simbolo di resistenza. Per quanto questo atipico survival debba tanto, troppo, a The Road e I figli degli uomini, l’odissea del minore degli Affleck ha comunque la sua da dire. Grazie alla voce bassa e intorpidita dell’interprete che già ci ha commossi con Manchester by the sea. Attraverso la lentezza di un genere che mostra poco ma suggerisce tantissimo, parlando più del presente che del futuro; più di noi che dell’apocalisse. Travolto da un’accusa per molestie, l’attore e regista fa ammenda con un atto d’amore al genere femminile lungo un film. Come non credergli, come non perdonarlo, dopo questa indiscreta lezione di vita e resistenza? (7+)

Mentre ci si stappa i capelli per Cena con delitto, giallo di cui si parlerà prossimamente, sotto Halloween – a proposito di feroci rimpatriate tra parenti serpenti – era già arrivato in sala un bagno di sangue ad altissima tensione. Una partita a nascondino disputata con la suspance, dove una Rambo in tulle si emancipa in un battesimo splatter degno delle migliori regine del brivido. Bella e carismatica, con un visino che si concede le stesse smorfie di Emma Stone, la promettente Samara Weaving convola a nozze con uno scapolo d’oro. Durante la prima notte di nozze, però, la neosposina dovrà vincere una sfida in particolare per essere accolta in famiglia: sopravvivere. Con una satira sociale appena accennata, Finché morte non ci separi somiglia alla versione disimpegnata di Get Out. Qual è il segreto della famiglia omicida? Ambizione cieca, o forse c’è lo zampino di Belzebù? I ritmi sono invidiabili, l’umorismo è di quelli caustici, il divertimento è assicurato. Si trattiene il fiato. Si maledicono gli antagonisti a ogni comparsata. Si incita al dente per dente. Iniziata come una fiaba romantica, la commedia horror culmina con una perfida luna di miele. Pronti o no, vi vengo a cercare. Ma si è mai pronti al grande passo? Ai titoli di coda potremmo credere ancor meno nei doveri coniugali, nei legami duraturi, nel lupo che perde il pelo ma non il vizio: preferendo, almeno sul grande schermo, la morte all’amore.  (7)

C’è del marcio in Danimarca. C’è chi da quel marcio viene inevitabilmente corrotto, come Amleto in lotta per la successione. E c’è chi, invece, quel marcio lo subodora prima di altri: ovviamente, una donna emancipata e lungimirante. La fidanzata del personaggio shakespeariano non aveva molta voce in capitolo nell’opera originale: di lei ricordiamo l’annegamento e, soprattutto, il capolavoro di Millais che ne fa una ninfa acquatica. In un’epoca di femminismo e riscrittura, poteva forse mancare la tragedia filtrata dal punto di vista di Ofelia? All’inizio dama di compagnia, ci racconta una storia d’amore e vendetta nota ma non troppo. Piuttosto fedele al Bardo, il film viene rovinato dall’aggiunta degli ultimi dieci minuti, che lo trasformano in un calderone di idee di seconda mano, che attingono ora ai veleni di Romeo e Giulietta, ora ai tradimenti della Dodicesima notte. Il resto lo fanno le forzature e gli anacronismi; un rimaneggiamento non richiesto, adatto solo a riscattare la figura agli occhi delle nuove generazioni. Vicina alla bellezza del pittore ma lontanissima dalla complessità del personaggio, una Ridley fuori parte – paradossalmente, convince nelle poche battute che ricalcano il testo originale – capitana un cast inquadrato dal buon lavoro del direttore della fotografia, ma che fa storcere il naso per la parrucca dello zio Clive Owen e il passo falso di Naomi Watts, regina che fa quanto possibile per risultare credibile. Essere o non essere, è questo il dilemma. Vive la stessa scissione anche l’adattamento di Claire McCarthy: povero e frettoloso. (5)

Violet è una ragazza di belle speranze su un’isola sperduta al largo delle coste inglesi. Figlia di una genitrice single sommersa dai debiti, trova un angelo custode in un ex cantate d’opera ridotto a un clochard solitario: in lei, giovane dalla voce angelica, sembra vedere l'ombra di un talento cristallino. Brava ma non abbastanza ambiziosa, protagonista di un talent show, l’adolescente si scopre spaventata dai bagni di folla e dall’arrivo della puntata finale. Come fronteggiare le aspettative e la pressione psicologica un ambiente competitivo? In Teen Spirit, iconico soltanto per il titolo, c’è l’ascesa di Violet, ma mancano i dubbi, le incertezze, la battuta d’arresto. Fiaba canonica e un po’ superficiale, preferisce i toni drammatici a quelli scanzonati e una fotografia alla Refn, mentre la colonna sonora passa alcuni dei pezzi più ammiccanti delle ultime estati. Restano la regia e il montaggio accattivanti, a opera del figlio d’arte Max Minghella; la bravura assodata di Elle Fanning, dotata di una vocalità interessantissima e sempre perfetta in ruoli che richiedono una bellezza a tratti angelica, a tratti selvaggia. Telegenico e instagrammabile, con poco cuore e altrettanta poca grinta, questo musical non ha la stoffa per la fama. Forse ha l’X Factor – stile, interpretazione, qualche performance da riascoltare –, ma per renderlo memorabile servirebbe il resto dell’alfabeto. (6)

Un’altra ragazza di talento, un’altra storia di canto e rivalsa. Si parte altrove, da lontano. In territori che, all’apparenza, hanno più che fare con il thriller. Una regia caliginosa ci porta negli Stati Uniti, nel cuore di una strage scolastica. La giovane Celeste sopravvive. E canta la sua rinascita fino a diventare una stella. Ma la sua carriera, inquadrata in tre tappe fondamentali della formazione, è scandita da tre atti di violenza: prima la strage, poi il crollo delle Torri Gemelle, infine un attentato in Turchia. Perseguitata dalla fatalità, la pop star canta i sogni infantili e il decadimento; l’ambizione e la barbarie. Simbolo dei più, deve il proprio successo a Dio o a un patto con il diavolo? Vox Lux, profondo su carta, vorrebbe raccontare assieme all’evoluzione del personaggio femminile l’involuzione del panorama musicale. Ma partito sotto i migliori auspici, con la voce narrante tipica dei documentari, abbandona la cupezza iniziale per una verbosissima seconda parte. Pretenzioso ma molto ben diretto, il film di Corbet si articola infatti in una serie di colloqui con la sorella maggiore di Celeste, la figlia, il manager Jude Law, un giornalista scandalistico. La colonna sonora è poco orecchiabile. E la protagonista, interpretata da adulta da una dimenticabile Portman, incarna il prototipo della celebrità capricciosa e narcisista, circondata di relazioni fallimentari e tappe bruciate. Il tutto, in direzione di un epilogo da film-concerto, dove il playback spudorato di Natalie e le coreografie alla Lady Gaga non sono all’altezza dell’apoteosi istantanea del personaggio. Lo spettacolo deve continuare. E il film invece? Quando comincia? (5,5)

giovedì 19 dicembre 2019

Recensione: La casa delle voci, di Donato Carrisi

| La casa delle voci, di Donato Carrisi. Longanesi, € 22, pp. 400 |

Al pari di quelli di Stephen King, anno dopo anno, i romanzi di Donato Carrisi sono diventati un appuntamento ricorrente. Apprezzato qualche mese fa anche in sala, nonostante una trasposizione all’apparenza impossibile da realizzare, lo scrittore e regista pugliese dalla carriera inarrestabile deve aver fatto un tour de force per regalarci un altro mistero sotto Natale. Ma sempre al pari del prolifico collega del Maine, quest’anno giunto in libreria con il dimenticabile L’istituto, anche il genio dietro i mille intrighi del Suggeritore purtroppo mi ha parzialmente deluso. Che mi abbia abituato, infatti, troppo bene?
In pausa dalle saghe lasciate in sospeso, Donato si trasferisce a Firenze. E senza fare il passo più lungo della gamba si concede un thriller psicologico dei più classici – penso ai mondi di Dorn, Fitzek, Kepler –, genere finora da lui mai approcciato. Meno cruento e meno macchinoso del solito, benché su carta non meno complesso, La casa delle voci è un enigma senza morti ammazzati. Ne ho apprezzato a primo impatto l’eleganza, e nella folla fiorentina ho subito scorto il cappotto Burberry del protagonista; l’ho seguito fino al suo studio in un palazzo del centro. Pietro Gerber –  trent’anni, da poco papà, un vago passato da dongiovanni – è uno psicologo infantile esperto in ipnosi. È un lavoro delicatissimo, il suo, e lo studio ne riflette le particolarità. Sprovvisto di sedia e scrivania, ha una comoda poltroncina, giocattoli di ogni tipo, una vista irrinunciabile: ha voluto che somigliasse a un grembo materno, a un nido. Pietro è un ottimo ascoltatore. Dei bambini conosce i meccanismi di difesa, le fantasticherie più maliziose. Chi ha detto che dicono sempre la verità, che sono anime innocenti? A volte hanno una natura vendicativa. A volte mentono.

Per un bambino la famiglia è il posto più sicuro della terra, oppure il più pericoloso: ogni psicologo infantile lo sa bene. Solo che un bambino non sa distinguere la differenza.
Una chiamata dall’Australia, però, è la spinta decisiva per accettare un incarico atipico; un’eccezione alla regola. Hanna Hall, fumatrice di nero vestita senza nessun senso dell’ironia, ha un nome in assonanza con un personaggio indimenticabile di Woody Allen e i sabati mattina tutti per sé: adulta, racconta al protagonista di un’infanzia da survival americano – cito qualche titolo: Captain Fantastic, Il castello di vetro, Light of My Life – al seguito di una coppia di genitori vagabondi. Quella vita allo sbando, piena di regole, sembrava soltanto un gioco. Ma chi erano gli estranei da cui stare alla larga? Perché quella bara minuscola da seppellire dal nuovo a ogni trasferimento? Cosa successe la notte dell’incendio?
Che si tratti di schizofrenia o di doti paranormali, le intuizioni inspiegabili della paziente inquietano lo psicologo. Che porta, così, la stessa suggestione anche dentro casa. Al decimo romanzo, Donato Carrisi riconferma la sua grammatica riconoscibilissima: non mancano gli albi illustrati e le cantilene, gli archivi polverosi e i manicomi, i mostri sotto il letto e altri elementi di un lessico che attinge puntualmente alle fiabe dei Grimm; riecco all’appello le allegorie infantili, gli interessanti approfondimenti psicologici – plagio, rimozione, suggestione –, le riflessioni sulla fallibilità della custodia degli adulti. Ma questa volta, però, sembra rinunciare alla struttura concatenata dei serial americani e svecchiare uno spunto piuttosto sdoganato: come in un noir d’altri tempi, il transfert tra i personaggi ribalta infatti le carte in tavola; l’interrogatorio si fa dialogo. Chi studia chi?

Se vuoi vivere, devi imparare a morire.

Per la prima volta ammetto di aver intuito il finale in anticipo: da metà in poi, mi sono limitato a veder succedere quello che avevo supposto. Basta un colpo di scena in più, uno in meno, a compromettere la piacevolezza di una lettura?  Vi risponderei di no, ma questo è il maggiore difetto della Casa delle voci. Un romanzo che non vive né di stile né di personaggi, ma della sorpresa dell’intreccio. Tolta quella, mi sono chiesto, cosa resta? Ad alimentare i dubbi sono state le considerazioni su una scrittura essenziale, incalzante ma frettolosa: benché ne guadagni in sveltezza, con un ritmo più veloce che mai, i moventi risultano poco definiti e i personaggi abbozzati con pennellate rapide. Lo sceneggiatore ha avuto la meglio sul narratore; l’architetto di trame sull’autore. Con un protagonista meglio indagato, più tormentato – magari con l’adozione della prima persona, variazione sul tema che personalmente avrei apprezzato –,  il mancato stupore dell’epilogo non mi avrebbe infastidito affatto.  Ma Pietro Gerber mi è parso qui una semplice pedina da condurre alla fine del tabellone e la sua ricerca della verità, letteralmente, non mi ha ipnotizzato; la delusione ha cancellato la paura di non svegliarsi più, annullando il conto alla rovescia. L’isolato passo falso, comunque, non mi spingerà a mettere questa piccola casa stregata in subaffitto.
Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Linkin Park - Castle of Glass

martedì 17 dicembre 2019

Recensione: Le ragazze, di Emma Cline

| Le ragazze, di Emma Cline. Einaudi, € 13, pp. 334 |

I capelli lunghi, i jeans sfrangiati, le mezzelune delle natiche in mostra. Seducente e bellissima, Margaret Qualley si affacciava nell’auto di Brad Pitt chiedendo uno strappo. Con i piedi nudi appiccicati sul parabrezza, la giovane si lasciava accompagnare in un ranch lontano dallo star system. Vagamente inquietanti, gli abitanti di quella comune orbitavano attorno a un leader al momento assente: nell’ultimo film di Quentin Tarantino – cronaca nera riletta a metà tra il favolistico e il grottesco dal regista che già riscrisse la storia con Bastardi senza gloria –, la figura di Charles Manson mancava all’appello. Forse tagliata in fase di montaggio. Forse ridimensionata da un autore che, a differenza di coloro che si sarebbero aspettati una trasposizione accurata della strage, aveva una visione opposta. Insoddisfatto da aspettative mal riposte, a cinquant’anni dal barbaro omicidio di Sharon Tate, ho preferito allora leggere della Hollywood messa a soqquadro dallo spirito d’onnipotenza della Manson Family. Se l’intoccabile Charlie era la mente, chi era il braccio? Quali erano le origini dei giullari della sua spaventosa corte dei miracoli? L’esordiente Emma Cline ha fatto della confusione di quei disperati un best-seller. 

Tutte le altre ragazze pensavano che fosse il regista a fare la scelta. Invece in realtà ero io a dire al regista, in un mio modo segreto, che la parte doveva darla a me. Io volevo quello: un’onda che corresse da me a Russell. A Suzanne, a tutti quanti loro. Volevo quel mondo senza fine.
Le ragazze è un romanzo di formazione scritto con l’urgenza di un thriller. Sbirciata da una cortina di fumo tossico, la protagonista è Evie: quattordici anni, figlia di genitori divorziati, vittima della noia degli andirivieni che le comporta raggiungere la città in bicicletta. Ha i segni dell’acne, una frangia di cui è scontenta, due occhi non abbastanza azzurri. A settembre partirà per il collegio e, mentre i maschi tremano per la chiamata in Vietnam, l’adolescente scalpita al pensiero della divisa austera, della gonna plissettata, dell’obbedienza a ogni costo. Innamorata non corrisposta del fratello maggiore della migliore amica, un giorno trasgredisce per rifuggire la routine e i pizzichi di zanzara. Sale su uno scuolabus riverniciato di nero; scappa di casa. Tutto per essere all’altezza di Suzanne, hippy languida e selvaggia che fruga nei cassonetti in cerca di cibo e fa sesso con chiunque voglia. A quell’età, a quella latitudine, un’esistenza pericolosa non preoccupa: fa gola. E Russell Hadrick, il leader della comune che non riesce a sfondare nel mondo della discografia, è un attento conoscitore di tentazioni, desideri reconditi e tristezza femminile. Quelle ragazze le usa come prostitute, mezzi, armi. Tutto è in comune. Tutto è lecito. Anche una strage sotto acidi consumata in una villa sul mare, in cui fino all’ultimo sfugge il ruolo dell’ingenua Evie. Ormai adulta, invogliata a rievocare il passato, la narratrice riavvolge il nastro. E ricorda il superamento di una soglia invisibile – quella dell’essere adulti, quella della moralità –, che tanto ha in comune con i boschi di certe favole: posti in cui è vietato spingersi. Romanzo di crescita introspettivo e spietato, Le ragazze arriva con immediatezza. Sin dalle prime pagine non fa mistero né degli eventi né del destino dei protagonisti. Scritto in maniera esemplare, con un andamento sinuoso e oscuro, convince tuttavia più quando lontano dal ranch.

Non gli dissi che rimpiangevo di aver conosciuto Suzanne. Di non essere rimasta al sicuro in camera mia sulle colline aride vicino a Petaluma, con le mensole affollate dai dorsi a lettere d’oro di miei libri d’infanzia preferiti. E lo rimpiangevo davvero. Ma certe notti in cui non riuscivo a dormire e sbucciavo pian piano una mela davanti al lavello, facendo allungare quel ricciolo sotto la scintilla della lama. Con la casa buia attorno a me. A volte non sembrava rimpianto. Sembrava nostalgia.
Russell, alter-ego di Manson, non ha il carisma luciferino del personaggio reale; le sue entrate in scena, anzi, risultano i momenti più noiosi del romanzo. Evie lo guarda stranita, come se reagisse alla battuta di qualcuno che non fa mai ridere davvero, e l’unico fascino che subisce è quello di Suzanne – amica e amante occasionale, al centro di un passionale rapporto simbiotico. Cinquant’anni dopo, Le ragazze di Emma Cline si affrancano dal giogo maschile, e in una riflessione profondamente femminista demitizzano i falsi guru, guardano di sottecchi i fidanzati bugiardi, subodorano le crisi sentimentali dei padri. Sono precoci. Ma a causa di una struttura abusatissima e di personaggi maschili non altrettanto interessanti, al pari di Quentin Tarantino, finiscono poi per parlare d’altro: il passaggio di Brad Pitt, nel bene e nel male, conduce altrove. Al crocevia di una vicenda soltanto ispirata alla storia vera, che tra le righe vive del cinema di Sofia Coppola e delle melodie di Lana Del Rey. A un muro imbrattato, con sopra il disegno di un cuore insanguinato. Opera dei satanisti? No, peggio: di una ragazzina innamorata.
Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Lana Del Rey – Freak

sabato 14 dicembre 2019

I ❤️ Telefilm: The Marvelous Mrs. Maisel S03 | Living With Yourself

Arrivati alla terza stagione, è un’impresa scrivere di The Marvelous Mrs. Maisel senza il rischio di riciclare gli aggettivi degli anni scorsi. Davanti a un prodotto che si ripete senza ripetersi – sempre di gran qualità e all’altezza delle stagioni precedenti, la serie sul mondo della stand-up comedy riesce continuamente a stupire con nuove battute al fulmicotone –, cosa dire? Resterebbe da scrivere soltanto una lettera a Babbo Natale: in un pacchetto ben infiocchettato, infatti, mi piacerebbe tanto trovare il talento di Amy Sherman-Palladino. Come pensa quei dialoghi da ascoltare e riascoltare all’infinito? Come riescono i protagonisti a pronunciarli senza mangiarsi nessuna delle bellissime parole pensate per loro? Come può stare al passo un comparto tecnico che, per non essere da meno, cura allora nel dettaglio le luci, le scenografie e i costumi di una New York lussuosa come in un musical? Più scoppiettante che mai, la serie si supera: la terza stagione è la migliore delle tre. Benché ne abbia fatto una presenza ricorrente nei listoni di fine anno, in precedenza qualche difetto l’avevo trovato: soprattutto in una seconda stagione in cui avevo sentito la nostalgia dei numeri di Midge e percepito come un ingombro le scene dedicate ai suoi familiari. Quest’anno sono stato ascoltato. Felicissimo, ho avuto il mio show – tantissimi monologhi, con la protagonista impegnata in un lungo tour – e non ho patito le parentesi dei genitori di lei. Protagonisti di uno sconcertante declassamento, Abe e Rose si trasferiscono dai consuoceri con effetti esilaranti: con lui impegnato a coordinare un gruppo di giovani comunisti, toccherà alla consorte – svampita, sì, ma abile in fatto di cuore – sgomitare per tornare nel West Side. Quella pecora nera della secondogenita, invece, vicinissima a diventare una comica di professione, apre con successo gli spettacoli di un cantante jazz: con il piede in tre scarpe – l’ex marito, l’ultimo fidanzato mollato, un collega galante –, vola a Las Vegas ma a causa della sua lingua lunga rischia di perdere molto: compresa la manager Susie, chiamata a dividersi tra lei e una rivale che vuol darsi a Strindberg. Ci sono l’aggiunta del sempre in parte Sterling K. Brown e più battute per Jane Lynch, di cui sostengo la simpatia sin da Glee. E poi c’è l’insostituibile Rachel Brosnahan, che piroetta nei piani sequenza, indossa mille abiti diversi, parla a raffica e – e non si sa come – non si stanca. Non stancandoci. (8)

La scoperta di una persona identica a te. Una parvenza di normalità di mantenere, tra moglie e lavoro. Tutte le gag comiche possibili e immaginabili all’interno di genere che sin dalla notte dei tempi prevede scambi e fraintendimenti. Ecco: questo è tutto quello che Living With Yourself, ingiustamente passato in sordina, non è. Se a torto, come ho fatto io, si immaginava una commedia in stile anni Novanta – faccio un titolo in particolare con un’idea simile: Mi sdoppio in 4 –, la sorpresa potrebbe essere dietro l’angolo. Lo si capisce presto. Traviato dalle false aspettative e dalla presenza di un attore spesso coinvolto in pellicole demenziali, in cerca di un riempitivo a cena, mi sono trovato invece in compagnia di una dramedy dal taglio indie con uno spunto degno del Black Mirror delle origini. Cosa saresti disposta a barattare in cambio di un’esistenza perfetta? Un pubblicitario pigro e svogliato, su suggerimento di un collega, fa visita a una strana spa per ritrovare l’ispirazione: non sa che alla fine del trattamento sarà rimpiazzato da un clone – la sua versione bella, propositiva, performante. Qualcosa va storto però. E questi otto episodio saranno guidati dalla verve di un Paul Rudd doppiamente bravissimo; da due protagonisti con la stessa faccia e uno spirito agli antipodi, che si contenderanno senza esclusione di colpi un’unica vita. Se l’uno è un marito disattento che in ufficio per di più ha perso il tocco magico, l’altro è un compagno dolce nonché un dipendente pieno di iniziative. Il troppo storpia, perfezione compresa: allora il clone, proprio come un novello mostro di Frankenstein, stringe un po’ il cuore con il suo sentirsi eternamente fuori posto. Amici-nemici, i due Rudd vogliono uccidersi, scavalcarsi, sostituirsi: fino a un finale rocambolesco e imprevedibile, che rappresenta tuttavia una bella chiusura in caso di mancato di rinnovo. Caratterizzato da uno sviluppo sorprendentemente credibile e da riflessioni talora inquietanti, Living With Yourself racconta la crisi – quella di un matrimonio a un bivio, quella di un uomo smarrito perché spaiato – alla maniera della fantascienza esistenzialista che più piace. Meno leggera del previsto, per fortuna notata anche dai Golden Globe, questa convivenza dell’altro mondo è da sperimentare. (7)

martedì 10 dicembre 2019

Recensione: Confidenza, di Domenico Starnone

| Confidenza, di Domenico Starnone. Einaudi, € 17,50, pp. 141 |

Sebbene sia un autore di per sé affermatissimo, qui ammetto e qui nego la mia superficialità. A farmi interessare negli anni ai romanzi di Domenico Starnone, infatti, sono state le voce di corridoio che vedevano proprio in lui – esimio professore napoletano – il professionista di spicco nascosto dietro il personaggio fittizio di Elena Ferrante. Per quando la questione Ferrante non mi abbia mai incuriosito – per me è bravissima, per me è donna: la leggo perciò senza farmi domande di sorta –, lo stesso non posso dire delle analogie con Starnone. C’erano davvero delle similitudini nella loro scrittura, nelle loro storie? Potevo forse star fermo senza scoprire se ci fosse del vero, rischiando così di perdermi un autore chiaramente bravissimo? Desideroso di mettermi in pari, per comodità ho iniziato dall’ultimo romanzo arrivato in libreria. Dalla sua aveva una copertina essenziale ma bellissima, poche pagine, moltissimi commenti a favore.  E la Ferrante, se proprio dovevo procedere con il mio ficcanasare, l’avevo letta giusto qualche romanzo prima. Confidenza non è stata la scelta giusta: si è rivelata una storia in cui non sono mai entrato; una di quelle letture che, sarò franco anche a costo di apparire ingenuo, non ho ben capito. Cosa dire di un romanzo senza grandi difetti, che però lascerà in me piccoli ricordi di reciproca incomprensione?

Non è la pedagogia dell’affetto che ci migliora, ma la pedagogia dello spavento. 
Suddiviso in tre racconti di lunghezza disuguale, segue in realtà un singolo filo rosso: un triangolo sentimentale lungo cinquant’anni, osservato da tre punti di vista speculari ma nient’affatto conciliabili. Il primo appartiene a un insegnante statale, protagonista colto e di bell’aspetto, che in un esame di coscienza racconta del suo lavoro al liceo classico; della pubblicazione di un saggio che attirò l’interesse delle librerie indipendenti e dei pedagogisti; del suo amore prima per Teresa, poi per Nadia. Agli antipodi, le due donne sono l’una il rovescio dell’altra. Teresa, ex alunna con una futura carriera negli Stati Uniti, è più giovane di dieci anni ma a ben vedere è più saggia di lui: la loro relazione è stata tanto litigiosa quanto viscerale, ed è finita all’indomani della confidenza del titolo. Nadia, presto diventata sua fedele consorte, è una collega di matematica che diversamente dall’altra si lascia condurre e traviare: si fa leccare la mano al primo appuntamento, mette al mondo tre figli, rinuncia al dottorato a Napoli per la famiglia. Traditore, il protagonista non vuole essere tradito. Predatore, non vuole diventare preda. Maschio piacente, solido e consapevole, è abbastanza abile da darsi alla politica e da sapersi dividere tra le due donne: l’indimenticata ex è sempre al centro dei suoi pensieri turbolenti e, a distanza di sicurezza, si punzecchiano in uno scambio epistolare. L’oceano che li divide è abbastanza grande? Si amano, o forse s’odiano?

- Ora sai di me ciò che non ha mai saputo nessuno.
- Non possiamo lasciarci più, siamo davvero l’uno nelle mani dell’altra.
Pochi giorni dopo, senza litigare, anzi con un fomulario cortese che non avevamo mai usato tra noi, ci dicemmo che la nostra relazione era ormai esaurita e di comune accordo di lasciammo.
Ombra avvolgente e inquietante insieme, Teresa lo invoglia a non trasgredire, a coltivare virtù a confine con la santità: lo educa a furia di minacce inespresse. Messa alle strette, spiffererebbe il segreto che si sono scambiati da innamorati? Il secondo punto di vista, invece, è di Emma: primogenita del protagonista, è una figlia adorante cresciuta nel mito irraggiungibile del genitore. In occasione di un’onorificenza destinata all’insegnante e saggista ormai in pensione, la giovane donna cerca ospiti d’eccezione. Nel terzo e ultimo racconto, chi si offrirà mai di onorarlo con una visita a sorpresa? Confidenza somiglia a un dongiovanni cinico, piacione, un po’ troppo autocompiaciuto. Ti mette una mano sulla spalla con nonchalance, ti sussurra sconcezze all’orecchio. Scritto benissimo  e con un irresistibile cinismo tra le righe – ora capisco, sì, le analogie con la Ferrante: stesso lessico ricercato, stesso ambiente culturale, stessi narratori antipatici –, purtroppo non sfoggia una simile brillantezza anche nella struttura. Sbilanciato e frammentario, il romanzo segue uno schema narrativo che dedica cento pagine al punto di vista principale; le poche restanti, dunque non abbastanza, agli altri due. E davanti a una morale di fondo che francamente sfugge tutt’ora, questa vicenda di fedeltà e infedeltà, fiducia e sfiducia, ragione e sentimento mi ha lasciato piuttosto freddo – sensazione d’incompiutezza che spesso accompagna la lettura di alcuni racconti brevi. Non era, immagino, il modo giusto per entrare in confidenza. Ci entreremo mai?
Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale:  Mannarino – Statte zitta

sabato 7 dicembre 2019

Mr. Ciak: Storia di un matrimonio | Un giorno di pioggia a New York | C'era una volta a Hollywood | L'ufficiale e la spia

Qualche giorno fa ho fatto l’albero. Mi sono subito accorto che c’era qualcosa che non andava: era stato riposto di fretta e qualche ramo si era spezzato; due delle quattro serie di luci led, inoltre, erano fulminate. Rinunciare all’idea oppure montarlo come andava andava? Storto e spennacchiato, adesso mi fa compagnia mentre scrivo: non è il primo che metto in piedi da solo. Odio l’allegria obbligata del mese corrente, e la conta degli alberi di Natale fatti alla bell’e meglio mi aiuta a tenere a mente gli anni trascorsi da quando siamo andati in pezzi. L’ultima immagine della mia famiglia risale a dicembre. Quest’anno fanno quattro anni: pensavo di più. Ripenso alla nostra vecchia formazione, e sembra una vita fa. Mentre cercavo di non cader vittima della malinconia, l’attesa alle stelle mi ha spinto a vedere l’ultimo film di Baumbach – acclamato a Venezia, ma tornato a bocca asciutta – in occasione di questa amara ricorrenza. A dicembre, ho visto finire anche il matrimonio tra Adam Driver e Scarlett Johansson. E la visione mi ha talmente devastato che in sala, sentendomi singhiozzare, qualcuno avrebbe chiamato un’ambulanza. Purtroppo o per fortuna, è soltanto su Netflix. La mia potrebbe sembrare la cronaca di un dramma pesante e distruttivo, ma chi conosce il cinema di Baumbach – io pochissimo, e ammetto di non averlo mai apprezzato – non può che aspettarsi siparietti esilaranti, vedasi ad esempio i piantonamenti dell’assistente sociale, o comprimari sopra le righe come l’avvocatessa di un’inviperita Dern. Lui e lei all’inizio restano in rapporti civili: legati da un sodalizio artistico lungo un decennio, giungono a un crocevia nel momento in cui le loro carriere prendono strade opposte – il primo scritturato a Broadway, l’altra assunta per una serie TV a Los Angeles. Il goffo pigmalione e la sua musa entrano in collisione per il bene dell’unico figlio. Chi lo crescerà, e dove? Inizierà una lunga battaglia legale e, senza esclusione di colpi, ci si farà male. Benché colti e divertenti, gli ex diventeranno delle belve: una sorte che non risparmia nessuno. Nemmeno il regista in persona, che in un film autobiografico commuove parlandoci delle contraddizioni dell’uno e dell’altro. Allora quanto odio per Scarlett: colei che fa il primo passo e sceglie infine il tribunale. Quanto odio anche per Adam: un gigante buono che, in una lite furibonda, vomita parole così oscene da farmi sentire l’esigenza di mettere in pausa lo streaming. Da figlio di separati, ho sentito ogni recriminatoria. Ma le lacrime sono scorse più per la bellezza dei piccoli gesti che per la bruttezza delle parole pesanti. Anche quando tutto è finito si trova infatti qualcosa per cui sorridere: il ritornello di un musical al karaoke; un foglio volante con su scritti i pregi della persona amata; il dettaglio di quei capelli ormai da accorciare, o di una scarpa sciolta. Come permettere che un nostro caro inciampi? Non si può. E così io mi preoccupo, faccio giri di telefonate, addobbo. Onorando il padre e la madre, nella casa del matrimonio che hanno disonorato. (8,5)

Dopo il dramma della Ruota della fortuna, dopo lo scandalo dell’infamia, il prolifico Woody Allen ha voglia di voltare pagina e dimenticare. Tornando a un passato d’oro: ossia quello dello skyline di Manhattan, del jazz in filodiffusione, dei bellimbusti galanti e nevrotici. Lo fa con una commedia come non ne dirigeva da un decennio, sabotata in patria e salutata con affetto in Italia: una sorpresa. Invecchiando, infatti, ci si inacidisce. Il regista ottuagenario è invece protagonista di una novella fioritura. In forma smagliante, compone un puzzle romantico con ogni pezzo al posto giusto e una sceneggiatura talmente brillante da rendere gli zigomi doloranti per il ridere. Poligono sentimentale perfettamente in linea con il suo stile, ma riadattato a favore delle nuove generazioni, può contare su una scrittura a orologeria e su un autore quanto mai al passo con i tempi. Divertenti, divertiti e meteoropatici, i protagonisti passano un giorno in città: il prezzemolino Chalamet, elegantemente fuori moda, è figlio dell’Upper East Side ma come Il giovane Holden rifugge i salotti e l’ipocrisia; Elle Fanning, attrice dal talento comico finora inespresso, è una reginetta di bellezza la cui ingenuità suscita ilarità nel pubblico e mai biasimo: desiderosa di essere una reporter, si perde appresso a scandali da rotocalchi, contesa da un regista in crisi, uno sceneggiatore tradito e un attore traditore; Selena Gomez, amica di famiglia, stupisce invece piacevolmente per le risposte acidissime e una sensibilità affine a quella del protagonista. La pioggia spariglia le carte in tavola, cambia le relazione e il colore del cielo. Imbottiglia le automobili in code infinite. Qualcuna la ama, qualcun altro la odia. Ma in un film delizioso e scintillante come questo – Storaro, illuminami d’immenso; Allen, mi trasferisco in una tua commedia – vien voglia di buttare l’ombrello e di saltare nelle pozzanghere. Per godere del futuro arcobaleno: una visione in mezzo allo smog. Per concedersi un altro amore: una salvezza dal solito cinismo. (7,5)

Non avendo rapporti idilliaci con Tarantino, ho affrontato piuttosto spaventato le due ore e trenta del suo film più divisivo. Confuso dai pareri discordanti, al tempo dell’uscita ho preferito evitare noie e delusioni: conservo infatti ricordi pessimi dell’interminabile The Hateful Eight, visione che ricordo particolarmente faticosa. Poteva andarmi meglio. Poteva andarmi peggio. C’era una volta a Hollywood è costituito da storie che viaggiano a velocità sostenuta e che non si incontrano mai sullo stesso binario. Storie di ricadute e rinascite, con lo star system sullo sfondo, dove invenzione e verità si mescolano a piacimento ma senza un disegno preciso. Qual è il punto di questo film: lungo, popoloso, ondivago? La prima ora e mezza è occupata da un piacevolissimo andirivieni di bella gente. DiCaprio, talento della recitazione intrappolato in ruoli da antagonista, sgomita per brillare in western dimenticabili; Pitt, controfigura e autista part-time, lo scarrozza a destra e a manca; Margot Robbie, sempre al centro della scena a passo di danza, è invece la splendida moglie della casa accanto. Il delitto di quest’ultima, Sharon Tate, è appena marginale. Il ranch di Manson è intravisto in una tappa fugace e, se non fosse per un trascurabile cameo, Charlie sarebbe assolutamente assente. Ci sono gli anni Sessanta però: dappertutto attori glamour, finanche fra le comparse – Pacino, Fanning, Hirsch, Olyphant –, radio e televisori ad alto volume. Una Los Angeles polverosa e trafficata, zeppa di figli dei fiori, caravan e inattese proposte di lavoro. La prima parte mi è piaciuta moltissimo. Peccato per quel salto temporale di sei mesi: con Leonardo di ritorno dalle riprese in Italia, l’intromissione di un’orribile voce narrante, l’arrivo della famigerata notte del massacro – qui messa in ridicolo e affrontata  in un trip inutilmente sanguinoso, con mosse alla Bud Spencer. Lieve e autoironico, a confine tra omaggio e fiaba, l’ultimo Tarantino usa il cinema – fabbrica dei sogni per eccellenza – per riscrivere la storia. Ma il suo film, sentito ma piuttosto sbavato, dubito che scriverà la storia della settimana arte. Soltanto i fan, di parte, potranno reputarlo riuscito. (6,5)

Altro film d’autore passato in Laguna, altro grande ritorno, L’ufficiale e la spia non è tornato in Francia a mani vuote: contestatissimo dalla stampa a causa dell’ennesima denuncia a carico di Polanski, il thriller d’inchiesta ha preso Venezia in contropiede guadagnando a sorpresa il Gran premio della giuria. Alla contentezza generale, a scatola chiusa, mi sono aggiunto anch’io: è necessario scindere l’artista dall’essere umano; condannare l’uomo senza censurarne il lavoro. A fine visione, reduce da un film tanto solido quanto scolastico, purtroppo ammetto a malincuore un po’ di delusione davanti a una ricostruzione nient’affatto memorabile. Forte di un irresistibile fascino polveroso e dell’interpretazione di Jean Dujardin, ci fa dimenticare a colpi di eleganza il disastro che fu Quello che non so di lei. Ma benché tecnicamente esemplare, per me resta piuttosto modesto sul piano narrativo. Avvincente ma schematico, si sfilaccia e si appesantisce nella parte conclusiva. Perde gradualmente potenza, fino a risultare una cronaca enciclopedica in sede di processo: la parte clou, ridotta purtroppo a una piccola parentesi nella quale ci si scorda della vittima Dreyfus. Interpretato da un irriconoscibile Garrel – purtroppo, rispetto a lui, sulle scene è più presente la pessima Seigner –, l’ufficiale ebreo accusato d’alto tradimento viene prima recluso su un’isola deserta, poi riscattato dalle indagini del suo superiore. L’antisemita Dujardin, infatti, dichiara la propria fallibilità di uomo e di statista davanti alla falsità dell’accusa e trascina in tribunale i servizi segreti. Seguire il proprio orgoglio, o l’onestà? Leggibile tra le righe anche in chiave autobiografica – Polanski si dichiara innocente –, quest’atto di accusa risulta ancora attuale, ma mi è parso freddo e informativo. Restano quadri bellissimi, con simmetrie vagamente hitchcockiane, e la sensazione di trovarsi al cospetto di un’opera da museo. E in un museo non si alza la voce. Non ci si arrabbia. Non ci si indigna. (6)