domenica 31 dicembre 2023

Le mie Top 2023: il cinema e le serie TV

10. Nimona

Una fiaba per grandi e piccini che omaggia il genere e lo rivoluziona. A metà tra il ciclo bretone e lo steampunk, non ha bisogno di forzature per risultare inclusiva, femminista, nuova.

9. Beau ha paura

Come non averne, di paura, davanti a un film così lungo, ostico, sperimentale? Impavido, Aster divide con un'esperienza cinematografica impareggiabile. Freud sarebbe andato a nozze con l'odissea di questo stralunato Phoenix in fuga dalla madre.

8. Pearl

Apparso nel circuito festivaliero l'anno passato, è arrivato in Italia esclusivamente in homevideo. L'assassina seriale di West è un personaggio di rara complessità emotiva e Mia Goth le rende giustizia in un monologo lungo dieci minuti. Il resto è un incubo in technicolor che fa ben sperare per il terzo capitolo della serie.

7. The Whale

Aronofksy torna a parlare di corpi. E insieme a lui torna Fraser, a lungo assente dalle scene. La loro collaborazione, claustrofobica e provante in un salotto già affollato di disturbi – non solo alimentari –, non è per tutti, ma regala un'interpretazione dalla potenza annichilente.

6. La chimera

Gli stranieri ce la invidiano, ma noi abbiamo avuto occhi troppo distratti per riconoscere il talento di Alice. Spirituale, tragica, immaginifica, questa volta raduna un cast internazionale e ci regala il film più vitale dell'anno, pur parlando di morte.

5. Close

Corrono per i campi fioriti e non hanno pensiero alcuno. L'adolescenza porrà fine a quegli andirivieni e getterà lo spettatore in una valle di lacrime. Dopo Girl, dal Belgio un'altra storia di repressione e identità. Perché comportarsi da uomini, quando semplicemente bambini?

4. Anatomia di una caduta

Il vincitore all'ultimo Festival di Cannes è un'analisi del rapporto uomo-donna, un giallo, una foto di nozze. Sorretto dall'interpretazione di Huller, scivola dal francese all'inglese, così come scivola la verità stessa: sdrucciolevole, non renderà libera una famiglia infelice a modo suo.

3. Babylon

Stroncato in patria, è stato un flop. Perfino io l'ho saltato in sala e l'ho recuperato tardi, in una visione domestica non all'altezza di cotanto splendore. Perdonami, Chazelle, per aver dubitato: sei memorabile tanto nei musical quanto nei baccanali.

2. C'è ancora domani

Al botteghino, una casalinga ha sorpassato Barbie e Oppenheimer. Oltre allo straordinario successo di pubblico c'è di più. Cortellesi firma un esordio lieve e impegnato, il cui finale ci lascerà per anni a bocca aperta – con buona pace di Silvestri, che canta A bocca chiusa.

1. Aftersun

L'ho visto a gennaio, ma se chiudo gli occhi sono ancora lì, fra le luci di una discoteca. E cerco invano di carpire i segreti di un padre malinconico, di una figlia precoce, di un dramma sull'elaborazione mai realmente elaborato. In sottofondo, i Queen.

5. The Good Mothers

Nell'anno in cui l'Italia si è chiusa in un silenzio scioccato davanti all'ennesimo femminicidio, non poteva mancare la coproduzione internazionale candidata ai Critics' Choice Award. Un manifesto di resistenza femminile, in cui giganteggia una Bellè all'altezza delle star hollywoodiane.

4. Lezioni di chimica

Se Barbie ha sbancato i botteghini ma non ha conquistato il vostro favore, andate a conoscere Elizabeth Zott: intraprendente e biondissima, puntava al mestiere di chimico. Le toccherà passare prima dai fornelli, in una miniserie in cui Larson segue la scia della Fantastica signora Maisel (di cui non ho visto la stagione conclusiva).

3. Tore

La chicca dell'anno arriva dalla Svezia. Agrodolce, queer e stilosissima, è la storia di un Piccolo Principe in cerca della propria autonomia. Una colonna sonora irresistibile e comprimari a cui voler bene renderanno un lungo piacere questi soli sei episodi.

2. La caduta della casa degli Usher

Succession (che, per la cronaca, non ho seguito) ma in chiave horror. L'ultimo capolavoro di Mike Flanagan è in realtà un bignami del miglior Poe. Una bambola russa di storie dentro storie, con morti da manuale e un cast in stato di grazia.

1. Beef – Lo scontro

Può una zuffa tra automobilisti trasformarsi in una faida, in un'indagine socio-culturale, in una storia d'amore? Sì, se produce A24 e il cast è il regalo più prezioso del melting-pot. Dopo i fasti di Everything Everywhere All at Once, questi asiatici indie e sfrontati conquistano anche il blog.

sabato 30 dicembre 2023

La mia Top 10: le migliori letture del 2023

10. Polveri sottili

La distanza geografica, i non detti, l'immaturità. Com'è amarsi oggi? Ce l'ha insegnato Sally Rooney. Lo ribadisce Gianluca Nativo, in un romanzo al maschile puntuale e dolente, generazionale.

9. Un amore senza fine

Finito nel novero dei classici contemporanei, il cult di Scott Spencer è tornato in libreria nella traduzione di Pincio. Qualcuno lo ama, qualcuno lo odia: ossessivo, cupissimo. Ma come dimenticare una notte di passione sezionata in sessanta pagine?

8. Tomorror Tomorrow Tomorrow

La scorsa primavera è stata la lettura più fotografata sui social. A dispetto dell'aria instagrammabile, però, quella di Gabrielle Zevin è una storia d'amicizia – e videogiochi – più forte del tempo. Non sarebbe bello ritrovarsi nuovamente e partire dal check-point?

7. La bella estate

Sarà per il fascino sospeso della mia Torino, sarà per la sorprendente freschezza dell'omonimo film di Laura Luchetti, ma questo Pavese – a ben vedere, poco più che un racconto lungo – non smette di stupire per modernità e joie de vivre. Essere giovani, donne e bisessuali, a cavallo tra le due guerre.

6. Un giorno di festa

Una mamma single, un bambino vittima della sindrome d'abbandono, un fuggitivo che li prende in ostaggio. E lentamente, con grazia e perseveranza, ne fa una famiglia. Una favola romantica che scalda al cuore, immersa nelle atmosfere sonnacchiose del Midwest di Joyce Maynard.

5. Il Gattopardo

Un'isola ostinata, una Italia impreparata al cambiamento, un'aristocrazia aggrappata con le unghie e con i denti a un mondo che non c'è più. E, forse, non c'è mai stato. Un classico senza tempo, a tratti insospettabilmente divertente, con un vecchio principe che ancora ruggisce.

4. Sul lato selvaggio

Il rapporto indissolubile fra due sorelle. Sullo sfondo, l'epidemia di oppiacei che mise in ginocchio l'America. È una tragedia dai risvolti crudeli. Ma scrive Tiffany McDaniel e ogni abuso, ogni delitto, si fa poesia.

3. Dove nascono le ombre

Lavinia Petti è una delle autrici più talentuose della sua generazione. Molti, però, non l'hanno ancora scoperto. È l'ora di conoscerla con un amarcord a tinte gialle che riempie gli occhi di lacrime, a metà tra King e Ferrante.

2. Cleopatra e Frankenstein

Il genere, sdoganato dalla solita Rooney, è il sad hot girl. Eppure quello di Coco Mellors è un esordio che non ispira tristezza. Davanti a questi dialoghi cinematografici, davanti a queste coppie umane e contraddittorie, non si può che essere felicissimi.

1. Le schegge

Bret Easton Ellis, l'icona della generazione X, torna a sedurre anche gli adolescenti di Euphoria. La sua falsa autobiografia è un tuffo negli anni Ottanta. Le tinte forti, i ritmi ossessivi e il sesso spinto garantiscono 700 pagine da leggere con le luci accese e un'eccitazione incontenibile nelle mutande.

mercoledì 27 dicembre 2023

Recensione: L'amore molesto, di Elena Ferrante

| L'amore molesto, di Elena Ferrante. E/O, pp. 176, € 11 |

Torno da Elena Ferrante, a Napoli, una volta all'anno. Sto centellinando gli andirivieni, però, per ammortizzare le fitte che avvertirò una volta terminata di leggerla. Questa volta è toccato al suo esordio: non una lettura agevole. Sordido, morboso e visionario, L'amore molesto è un thriller psicologico nero come il carbone ma irrisolto. Un tour de force fra i fantasmi del passato, in cui una scrittura vorticosa plasma immagini inattendibili, dove intravedere il profilo sfuggente di una madre amata-odiata. Chi era realmente Amalia, trovata annegata con addosso un reggiseno di pizzo e null'altro? Se lo domanda la figlia, Delia, da sempre vittima di una feroce sindrome d'abbandono. Rimasta sola, ricostruisce faticosamente un puzzle domestico in cui niente è al proprio posto: un padre padrone geloso, pittore di scarso talento; una madre bellissima, a cui era severamente vietato sorridere; infine il misterioso Caserta, l'orco delle favole, inseguito per tutto il romanzo come il Bianconiglio del classico di Lewis Carroll.

L'infanzia è una fabbrica di menzogne che durano all'imperfetto.

Come in un giallo, si parte cercando indizi nell'appartamento della morta: una casa di fantasmi in cui la porta non è stata chiusa a doppia mandata e dettagli fuori posto – la biancheria costosa, i trucchi appariscenti – rimandano a una vita segreta di cui Delia è all'oscuro. Si prosegue, poi, lungo le strade della città. Una Napoli rumorosa, tentacolare, squallida, affollata di corpi pesanti e voraci che provocano parimenti curiosità e stordimento. Abituati all'ampio respiro della tetralogia, si è scioccati dall'asfissia degli ascensori tremolanti, delle strade strozzate dal traffico, dei vagoni straripanti della funicolare, dei camerini i cui specchi restituiscono l'immagine di una donna sull'orlo di una crisi esistenziale. Imbrigliata in un vestito rosso che poco si confà ai giorni del lutto, con il trucco sciolto per la pioggia e le lacrime improvvise, Delia rivive una vicenda di scandali familiari, ribellioni tardive e vendette astratte. E in lei, come in una specie di possessione demoniaca, rivive in parte la madre, di cui la protagonista si fa medium e custode. Si può affrancare uno spettro dalle bugie della memoria?

Dire è incatenare tempi e spazi perduti.

Ci sono due uomini – un padre e un figlio – che ricordano quelli della famiglia Sarratore. C'è un tunnel fetido di urina a separare la città dal rione e un sottoscala in cui sono precipitate le speranze di una bambina lasciata sola in cortile. C'è, ancora, il tema del doppio: qui ci si scambia ruoli e vestiti; si compiono eterni ritorni. L'esordiente Ferrante aveva già in mente i temi dei successi futuri e nessuna paura di sporcarsi le mani. Fra le pagine abbondano i fluidi corporei, le sgradevolezze, i tabù. La narratrice fruga nei panni sporchi della morta. E li lava in pubblico, poco imbarazzata dalle smagliature sulle calze o dal fondo delle mutandine macchiate di sangue mestruale. Li lava con noi: in fondo, siamo già di famiglia.

Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Angelina Mango – Fila indiana

lunedì 18 dicembre 2023

Italians Do It Better: C'è ancora domani | La chimera | Io capitano | Le otto montagne | La bella estate

Relegata a leggerissime commedie televisive, Paola Cortellesi prende finalmente parte al suo film migliore: lo dirige lei. Nazional-popolare, brutale e tenerissimo, sorprende per una scrittura in bilico fra la commedia e il dramma e per una cifra autoriale già matura. Si parla di femminismo e discriminazione di genere, di violenza domestica e conflitto generazionale. C'è ancora domani non è, però, l'ennesima storia di female empowerment. Delia è il tipico angelo del focolare. Sempre con il grembiule da cucina, sempre dimessa, sempre con qualcosa da fare. Corre continuamente, ma non va mai da nessuna parte. Il suo eroismo sta tutto nel sopportate a bocca chiusa gli abusi del tirannico Mastandrea. E, nell'impossibilità di denunciarlo, di trasformare i pestaggi in sequenze musical. La solidarietà femminile c'è, ma è nelle sporadiche confidenze in cortile; nell'amara consapevolezza di essere tutte prive di identità. A dar loro voce, ottant'anni dopo, è la comica romana. Che non urla messaggi progressisti, non forza la mano con gli anacronismi del politicamente corretto, ma ci fa sorridere delle sue “piccole donne” grazie alle battute di Fanelli o alle fantasticherie sulle note di Concato, Dalla, Silvestri. Cortellesi mette in scena una rivoluzione discreta e, in un epilogo indimenticabile, celebra un risveglio individuale che si fa anche collettivo. All'improvviso c'è una ragione per mettere il rossetto, la camicia nuova, stringere i pugni. C'è un luogo verso cui correre, con una lettera stretta al petto. Voi correte al cinema. Straordinario nella sua ordinarietà, è l'esordio più significativo degli ultimi anni. (8,5)

Alice Rohrwacher torna e incanta con una nuova fiaba bucolica in cui un tormentato Orfeo vive continue catabasi per riunirsi alla perduta Euridice. A unirli c'è un filo rosso, in una sceneggiatura in cui nessun simbolismo è lasciato al caso e al mito del poeta che commosse Proserpina si mescolano le suggestioni di quello di Arianna, salvezza di Teseo fuori dal labirinto. In una tragicommedia in cui la fotografia fuligginosa e la colonna sonora anni Ottanta riconfermano quanto prezioso sia il miscuglio di eccentricità e lirismo del cinema della nostra Rohrwacher, un ruolo chiave spetta al personaggio di Isabella Rossellini: qui irriconoscibile, è una nobildonna prigioniera della sua sedia a rotelle, dell'ossessione per la figlia scomparsa e di una magione che è un colabrodo. In cambio di qualche lezione di canto, l'anziana tiranneggia su una sua allieva che tratta come sguattera; all'apparenza servizievole, la giovane nasconde piccoli insospettabili segreti e seduce il fascinoso Josh O'Connor, tombarolo ospite di una baraccopoli dalle ore contate. Tutti aggrappati a mondi precari, destinati ora all'ospizio e ora alla galera, i personaggi rubano e vengono derubati, si illudono e vengono illusi, inseguendo ciascuno i propri sogni impossibili. Ma quanto è pericoloso preferire il vecchio al nuovo; i mausolei ammuffiti alle stazioni trasformate in centri d'accoglienza da manipoli di donne illuminate? Strambo e incantevole, forse troppo per un'Italia ostile all'audacia, La chimera è un apologo pieno di morte che, a sorpresa, si rivela uno dei film più vitali dell'anno; un tesoro che, come certi luoghi abbandonati, appartiene un po' a tutti e un po' a nessuno; un sogno agitato sui seggiolini scomodi di un regionale. Ma un sogno, finalmente, possibile. (8)

Un intrepido sedicenne con il sogno del rap e dell'Europa intraprende un estenuante viaggio della speranza dal cuore dell'Africa alle coste della Sicilia. Dirige Matteo Garrone, la cui bravura è ormai indiscussa da vent'anni a questa parte. Commuove l'esordiente Seydou Sarr, che nel primissimo piano finale, come già accaduto a Fonte in Dogman, entra a gamba tesa nell'olimpo del cinema italiano. Ma il problema di Io capitano è il seguente: visto il trailer, purtroppo, visto il film. Le tappe del viaggio del giovane sono tutte contenute in quei pochi minuti pubblicitari, tra dune e onde, prigioni e palazzi. L'esperienza umana, preziosa, si fa raramente anche esperienza cinematografica. E accade soprattutto negli sporadici momenti in cui il regista romano tralascia le tappe della sua canonica odissea per sconfinare nei territori visionari della fiaba. È allora che il film diventa qualcosa di più di un'edificante lezione di educazione civica, rivelandosi una riscrittura sorprendente del suo medesimo Pinocchio. Il nostro eroe dice bugie alla mamma, ha uno sfacciato Lucignolo come compagno di viaggio, viene derubato e sfruttato innumerevoli volte. Infine finisce in mare. All'orizzonte c'è la terraferma. O è forse la sagoma della famelica balena? Per fortuna, sappiamo in anticipo che diventerà un bambino vero. Anche se qualcuno al governo, oggi, lo negherebbe strenuamente proprio al sopraggiungere dei titoli di coda. (7)

Ogni amicizia è una storia d'amore. Non si può pensare che questo riflettendo sull'intensità che si annida nei “sovrumani silenzi” tra Pietro e Bruno; sulla persistenza di un sentimento viscerale, più che fraterno, costellato di lunghe attese e lunghi sguardi. Ispirandosi all'omonimo romanzo di Paolo Cognetti, un topo di città e un topo di campagna uniscono le loro forze – dopo quindici anni di distanza – per rendere omaggio alla memoria del padre che li ha formati un po' entrambi. I registi di Alabama Monroe, coppia tanto nell'arte quanto nella vita, ci portano ad alta quota e riportano sullo schermo un'altra coppia amatissima: Luca Marinelli e Alessandro Borghi, che questa volta giocano con gli accenti dell'estremo nord e recitano con tutta la potenza della loro fisicità. C'è chi va, c'è chi viene. E c'è chi si aspetta. La costruzione della loro amicizia, graduale e faticosa, spezza le vene delle mani. E graduale e faticoso, per qualcuno, potrebbe essere anche questo film: una scalata lunga due ore, da cui si esce però con le mani fredde e il cuore caldo. Le otto montagne è lungo, lento, morbidissimo. Come un abbraccio improvviso, che prima ti spezza le ossa e poi te le rinsalda insieme – o viceversa. (9)

Dal classico di Cesare Pavese, un film modernissimo nella sua fedeltà Proprio come il romanzo che l'ha ispirato, il lungometraggio dell'ottima Laura Luchetti è un inno alla gioia, alla confusione, al piacere femminile. All'importanza del perdersi, a volte, per ritrovarsi. Morbido, delicato e sottilmente erotico, mostra attraverso le espressioni fuggevoli di un'intensa Yile Vianello – anche musa di Alice Rohrwacher – i dilemmi di una giovane sarta scissa fra campagna e città, uomini e donne; le fa da contraltare l'esordiente Deva Cassel, sì acerba, ma perfetta nell'incarnazione dell'ambiguo e bellissimo oggetto del desiderio. La bella estate si prende tutto il tempo che serve. È di una lentezza che avvolge, proprio come l'abbraccio in balera fra le protagoniste; proprio come la regia, materna, che veste di silenzi e verità l'unica scena d'amore. La colonna sonora cresce, così come cresce il personaggio di Ginia. Le stagioni si avvicendano, ma Torino resta sempre magica sullo schermo. L'avvento del fascismo è una notizia da tagliare fuori: basta chiudere le imposte. Piccole magie di un piccolo film, pieno delle simmetrie gelide della mia città d'adozione e delle asimmetrie di un caldo corpo in fioritura. (7,5)

martedì 12 dicembre 2023

Recensione: Il nemico - Foe, di Iain Reid


| Il nemico, di Iain Reid. Rizzoli, € 18, pp. 256 |

Non sono un lettore che ama la fantascienza. Rifuggo le navicelle spaziali e le guerre intergalattiche, preferisco le atmosfere intime agli effetti speciali. C'è una fantascienza, però, che mi piace. Quella che parla non degli extraterrestri, ma di noi: alieni, spesso, gli uni per gli altri. Fa parte di questo filone, purtroppo meno nutrito di quanto spererei, anche il nuovo romanzo di Iain Reid. Dopo il cervellotico thriller psicologico che ha ispirato l'ultimo capolavoro di Charlie Kaufman, l'autore canadese torna in libreria e presto anche al cinema con la storia di un'invasione. Junior e Hen, sposati da sette anni, vivono immersi nelle campagne del Midwest quando un paio di fari verdi squarciano la notte. Alla loro porta bussa un burocrate vestito di tutto punto, Terrance, che comunica alla coppia l'esito di una misteriosa lotteria. Penseremmo subito a Shirley Jackson, se non fosse per la svolta avveniristica in agguato: il marito, infatti, è fra i fortunati prescelti per le colonizzazione di un nuovo pianeta: la moglie resterà a casa, in compagnia di un rimpiazzo robotico ancora da mettere a punto. Precipitiamo, a questo punto, in un episodio degno delle migliori stagioni di Black Mirror: perché a dispetto della narrazione pacata, delle atmosfere placide e sonnacchiose, l'inquietudine serpeggia sottopelle. E scricchiola, dietro le pareti di una casa improvvisamente violata.

Non riceviamo visite. Non qui.

Costretti a tenere il segreto, resi partecipi di uno stadio successivo dell'evoluzione umana, i protagonisti sono formiche sotto la lente di ingrandimento di Terrance. Logorati dall'invadenza dell'ospite, sono monitorati notte e giorno tramite interviste che lentamente diventano interrogatori. Han diventa sospettosa, distante. Junior, confuso, stringe i pugni per difendere la loro vecchia routine. Ma cos'è, in fondo, la normalità? Prima di Terrance erano davvero così felici? Con una prosa sommessa e senza fronzoli, vicina alla narrativa di frontiera, Reid scrive una storia ambigua sulla solitudine, sui rapporti di genere, sul terrore del cambiamento. Isola i suoi personaggi in un limbo snervante, fatto di campi di colza e pollai, e mette a punto un esperimento antropologico che pone tutto in discussione. Il colpo di scena c'è, vero, ma non sconvolge. A spiazzare è piuttosto il risveglio delle coscienze di uomini e donne guidati dal senso pratico, senza ricordi né desideri, che si affacciano angosciosamente sul futuro e per la prima volta si soffermano sul presente. Con la consapevolezza di essere, nonostante le tutto, incontrovertibilmente vivi. Serve allora un'altra lotteria, un'altra missione, per conquistare il proprio “spazio”?

Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Baby, It's Cold Outside

venerdì 1 dicembre 2023

Per trenta minuti: Beef | Tore | The Lovers | Still Up | Heartstopper S02

Lei è artista e mamma: la classica moglie trofeo. Lui è nel ramo delle costruzioni, ma non riesce a costruire una casa per i genitori lontani: nel frattempo fa da padre al fratello minore. I protagonisti si incontrano e si scontrano nel parcheggio di un supermercato. Uno sgarbo da poco creerà una stori di vendetta lunga diversi anni e dieci episodi. Le premesse sembrano quelle di una commedia romantica. Il prosieguo, degno di un un purissimo dramma introspettivo, sfocia perfino nel thriller sparatutto. Beef è una commeda. È un crime. È tutto quello che c'è nel mezzo. È, a oggi, tra le serie dell'anno. Merito di un cast come Dio comanda, in cui Ali Wong e Steven Yeun fanno continuamente a gara di bravura; merito di una sceneggiatura che unisce il nichilismo di un Bojack Horseman a tutta la freschezza del cinema asiatico. Quando fa bene a Hollywood la carica sovversiva delle penne coreane? Un po' fuori posto in Occidente, ognuno alla ricerca del proprio spicchio di sogno americano, i personaggi sono il frutto bacato della società aggressiva dei self-made men. Ai due estremi del ring, benché curiosamente simili nei tormenti, si combattono a sangue. Ma si specchiano, nel frattempo, l'uno nell'altra. Può lo scontro frontale tra due solitudini non rivelarsi mortale? La risposta è in un finale tanto assurdo quanto memorabile, capace di regalare un sorriso commosso all'indomani di un'allucinazione alla Wertmuller. (8)

Tore ha ventisette anni, una sessualità ancora inesplorata, una libertà di cui non sa bene cosa fare. Improvvisamente orfano e indipendente, senza più l'amato padre a fargli da guida, si divide fra il lavoro in una ditta di pompe funebri e una vita sociale fatta di droghe e locali notturni. Cerca l'amore della vita. O, forse, semplicemente sé stesso. Sempre livido, ammaccato, sanguinante, s muove come il Piccolo Principe in una serie svedese brevissima ma folgorante che ha la disperazione tragicomica di Fleabag, la colonna sonora elettro-pop di Euphoria, le riflessioni esistenziali di After Life. Il protagonista conosceva realmente il defunto genitore, che progettava in segreto una nuova vita accanto alla compagna? Perderà la verginità col primo che passa, o aspetterà i comodi del romantico fioraio di turno? Lo faranno riflettere un'amica provata dalla maternità, una vecchina con frequenti istinti suicidi, una drag queen dalla voce struggente, un cane prima ceduto e poi preteso indietro. Protagonista di un racconto di formazione e deformazione, qualche volta si perderà per il gusto di ritrovarsi. Ma non perderà mai il suo incantevole candore, né il ritmo con cui vive questa bellissima giostra di prime volte. (7,5)

Che fine hanno fatto le commedie sentimentali? L'amore è forse passato di moda? Se questa deliziosa miniserie Sky Original fosse stata girata vent'anni fa, il protagonista sarebbe stato il solito Hugh Grant. Vanesio, ambizioso e superficiale, Seamus è un giornalista londinese ben inserito nello star system: la fidanzata è una bionda attrice da rotocalchi e il suo programma TV è stato occhieggiato, pare, da una famosa piattaforma statunitense. A Belfast per un servizio televisivo, fa i conti con le sue origini frastagliate e incontra Janet: lui è in fuga da una gang di teppisti, lei sta per suicidarsi. È l'inizio di un adulterio da nascondere ai tabloid. È il principio di una relazione? Divertente, un po' cinico e, soprattutto, molto romantico, The Lovers è una romcom meravigliosamente recitata dai bellissimi Flynn e Gallagher, in cui si parla di identità, differenze culturali e scheletri nell'armadio all'ombra dei famigerati “troubles” irlandesi. Per fortuna siamo in una commedia, di quelle che facevano una volta. L'unica guerra che conta è quella fra i sessi. L'importante è che finisca bene. (6,5)

Che fine hanno fatto le commedie sentimentali, ci si chiedeva poco fa? Eccone un'altra all'appello. La struttura la conoscete già, no? Lui, affetto da ansia sociale, non esce mai di casa. Qual è il trauma che l'ha segnato al punto da spingerlo a vivere come un recluso e a evitare tutto e tutti, vicini ficcanaso compresi? Lei, mamma piena di energia, ha un compagno premuroso che vorrebbe sposarla e sempre qualcosa da fare. Loro, migliori amici accomunati da un'insonnia che non vuol passare, nelle notti in bianco si fanno reciprocamente compagnia con lunghissime videochiamate. Com'è nata la loro storia? Come finirà? Disponibile su AppleTV, Still Up è una commedia in otto puntate: lieve, a tratti inaspettata, con i bravissimi Antonia Thomas (Misfits) e Craig Roberts (Submarine) a reggere il tutto e i soliti infallibili tempi comici delle serie britanniche a far la differenza. Il finale, sospeso nella friendzone, lascia ben sperare per una una seconda stagione. Danny e Lisa supereranno finalmente il confine fra amore e amicizia? Intanto, la si consiglia a scatola chiusa: è perfetta per scaldarsi il cuore con l'inverno fuori. (7)

Continua la storia d'amore tra Nick e Charlie. Questa volta sono in gita a Parigi e alle prese con una questione importante: come dire a tutti della loro relazione? Immancabile il sostegno di amici e confidente, tutti parte di una grande e colorata famiglia queer: insegnanti compresi. Più che un ritratto veritiero dell'adolescenza oggi, l'autrice e fumettista Alice Oseman continua a dipingere una landa fiabesca dai toni pastello che non c'è, ma che sarebbe bellissimo ci fosse. I suoi liceali non dicono parolacce, non bevono, non sembrano pensare al sesso. Si scambiano lunghi e casti abbracci e combattono il bullismo e i disturbi alimentari a suon di parole, ma senza mai correre realmente ai ripari. Nata come l'antitesi di Euphoria, la seconda stagione di Heartstopper si conferma luminosa, lieve, positiva, di una dolcezza che misteriosamente non viene a noia: anzi, a fine visione ne vorreste ancora, in barattoli, per affrontare il freddo  che ci aspetta. Vero: anche qui, come in Sex Education, tutti appartengono a qualche minoranza, i pochi personaggi etero sono tendenzialmente negativi e nutro seri dubbi sull'efficacia educativa del tutto. Ma mentirei se dicessi di non aver seguito gli episodi con gli occhi a cuore, sentendomi un decennio in meno sulle spalle. Sarebbe auspicabile, un mondo così. Sarebbero belli, quindi anni così. (7,5)

venerdì 24 novembre 2023

Ritorni d'autore: Babylon | Oppenheimer | Coup de Chance | The Killer | Monster

Due innamorati ballavano romanticamente e si interrogavano, speranzosi, su come conciliare sentimenti e carriera. Questa volta ci sono elefanti in pista da ballo, umori corporei, feticismi. Come si è passati dal musical al baccanale, dal sogno al delirio? Caustico, volgare e disincantato, il film tradisce la fiaba per raccontare l'evoluzione della settima arte. E la progressiva degenerazione del mondo che c'è dietro. Si passa dal muto al sonoro, dai divi alle meteore, dal western alla commedia: il tutto per accontentare un pubblico che in fretta si annoia e dimentica. Babylon ha anticipato lo sciopero degli sceneggiatori. Ha irritato Hollywood e infastidito gli spettatori, entrambi artefici del meccanismo perverso che fagocita i protagonisti. Il pubblico deve essere intrattenuto. Chi non sa reinventarsi è spacciato. Pitt è sul viale del tramonto, come l'amica Swanson; Robbie prende lezioni di etichetta, ma il richiamo del lato selvaggio è forte; Calva rischia di essere risucchiato dal caos della festa che si limitava a contemplare. Questo Chazelle è coreografico come Luhrmann; folleggia come Tarantino. Maneggia serpenti, ammazza comparse, divora topi. Provoca e denuncia, in un'opera esilarante ed esaltante, pornografica e candida. Mi rincresce averlo perso al cinema. Sarebbe stato un onore piangere insieme al protagonista, nel finale, e guardare attraverso i suoi occhi schegge di Gene Kelly, di angeli e fantasmi. (10)

È sulla bocca di tutti da prima dell'uscita. L'ho visto a oltre un mese di distanza dall'arrivo in sala, impermeabile a qualsiasi entusiasmo. Oppenheimer, accolto come il capolavoro di Christopher Nolan, è per me un film grande che non diventa mai un grande film. Algido, logorroico, cerebrale, stordisce a suon di nomi e informazioni, ma mostra il portento e l'orrore della bomba atomica fuori scena. A distanza di sicurezza. Restano i tormenti dell'uomo, qui interpretato da un emaciato Cillian Murphy, diviso tra patriottismo e senso di colpa; quei troppi dettagli, a metà tra scienza e politica, che lasciano a lungo confusi. L'emotività irrompe soltanto nell'ultima parte: un processo alle intenzioni in cui ogni azione è in discussione e, a sorpresa, a rubare la scena è la tradita, sottostimata moglie interpretata da Emily Blunt. Non ho ben compreso il ruolo del doppiogiochista Robert Downey Jr, ben nascosto sotto un mascherone di trucco ma sempre insopportabilmente gigioneggiante. Non ho capito il troppo rumore per nulla, o quasi. Da questa detonazione mi sarei aspettato un brivido lungo la schiena; l'acufene; un'eco maggiore. Il biopic sull'inventore dell'atomica, invece, è una docufiction magistralmente diretta e montata a cui tuttavia manca il sano ardore di Prometeo. Senza fuoco, fuori fuoco, si rivela un compito diligentemente svolto e poco altro. (6)

Alla tenera età di ottantotto anni, Woody Allen dirige il suo cinquantesimo film. E ogni volta che torna in sala è sempre un po' festa. Quanto ci mancava? Quanto ci mancherà? Sfortunatamente, nonostante sia stato misteriosamente ben accolto all'ultimo Festival di Venezia, Coup de Chance è una commedia nera senza grandi guizzi che, scegliendo un idioma e toni diversi, si limita a riproporre l'acuminato triangolo sentimentale dell'indimenticato Match Point. Questa volta la moglie trofeo, interpretata dall'incantevole Lou de Laage, è divisa tra l'amante scrittore e il ricco marito malavitoso. Se la sorte ci mette lo zampino, ribalterà tutto la puntualità dell'epilogo per regalarci, in extremis, un sorriso beffardo. Il resto appartiene a un Allen logorroico e eccezionalmente francofono, piuttosto povero di contenuti, che strizza l'occhio alle donne infedeli di Chabrol e ammalia grazie alla fotografia assolata del solito Vittorio Storaro. Checché se ne scriva, gli ho preferito di gran lunga gli ultimi film: il teatrale La ruota delle meraviglie, lo scoppiettante e giovanile Un giorno di pioggia a New York e perfino Rifkin's Festival, sottovalutata delizia cinefila troppo in fretta sacrificata sull'altare dello streaming. (5)

Un sicario è appostato sui tetti parigini. Non dorme, non ha sentimenti, non sbaglia mai. Finché non manca il bersaglio e per lui ha inizio una fuga rocambolesca che tocca altre quattro città, altri quattro capitoli, nel tentativo di costruirsi un futuro alternativo accanto alla compagna lontana. Lo interpreta Michael Fassbender, attore troppo a lungo assente dalle scene. Asciutto, stiloso, inafferrabile, indossa camicie floreali da turista tedesco e si concentra ascoltando i successi degli Smiths. Come se non bastasse, firma il tutto David Fincher, finalmente tornato al thriller dopo la parentesi metacinematografica dell'autoriale Mank. Al secondo film per Netflix, il regista cult torna sugli schermi con l'adattamento di un graphic novel nelle sue corde. La violenza c'è, ma è raffinatissima. Gli omicidi abbondano, ma i corpi quasi non sanguinano. Gli scontri fisici sembrano coreografie studiatissime. Chirurgico, rigoroso, freddissimo, questa volta si diverte e diverte con un film d'intrattenimento godibile ma non all'altezza. Perché The Killer, partito sotto i migliori auspici con un omaggio al miglior Hitchcock, diventa una pellicola d'azione che non ha né la classe di James Bond, né la leggerezza di John Wick. Colpa di un soggetto tutt'altro che memorabile, in cui l'entrata in scena di Tilda Swinton rappresenta il momento di maggiore curiosità: peccato sia impegnata in poco più che un cameo. L'ultimo Fincher, come il suo killer dall'insopportabile voce narrante, intrattiene in poltrona ma non fa centro. (5)

Lo strano comportamento di un bambino insospettisce gli adulti. La mamma, iperprotettiva, fatica ad ammettere che il figlio stia crescendo; il maestro, tacciato di maniere forti, è forse più lungimirante di altri; la preside, reduce dalla morte della nipotina, modera per tutelare l'istituto. Il protagonista è una vittima o un bullo? Chi, fra lui e un fragile coetaneo, è il mostro? Kore'eda torna Giappone con una sceneggiatura perfetta. Delicatissima e magistralmente orchestrata, mostra la stessa vicenda attraverso tre punti di vista complementari. Ne viene fuori un puzzle sui segreti di grandi e piccini, che favoleggia di rinascita. Quieto ma pervaso di tensione, sceglie di mantenersi ambiguo fino alla fine: nemmeno l'epilogo ci chiarirà se abbiamo assistito o meno a una tragedia. Monster inizia con un incendio e termina con un tifone. E, fra le due calamità, lascia posto alle scosse sismiche della pre-adolescenza. Come in una versione più stratificata di Close, Kore'eda descrive il momento in cui la purezza dei bambini viene meno. Saranno mai felici al di fuori di quel vagone ferroviario al centro del bosco? Nella sequenza più memorabile (insieme a quella di quattro mani che tentano di pulire un finestrino dal fango), la preside insegna al piccolo protagonista a soffiare via il dolore in una tromba. E gli suggerisce che, se non è per tutti, non è felicità. Non c'è giallo più fitto dei propri sentimenti. (7,5)

giovedì 16 novembre 2023

Recensione: Giù nella valle, di Paolo Cognetti

| Giù nella valle, di Paolo Cognetti. Einaudi, € 16, pp. 124 |

Quella di Paolo Cognetti è una scrittura che ha trovato negli opposti la sua segreta armonia. È calda, ma freddissima. È delicata, ma scabrosa. La sua massima espressività? A sorpresa, in una storia come questa: apparentemente senza sorprese. Lungo poco più di cento pagine, Giù nella valle è un romanzo breve ma compiuto – spietato, convulso, intenso. Questa volta siamo nei primi anni Novanta, a novembre. Non fra le cime svettanti, ma a valle. Considerata il pisciatoio d'Italia, la Valsesia è un imbuto asfissiante in cui proliferano nebbie, alluvioni, bettole mal frequentate. I camion scaricano rifiuti industriali nelle cave abbandonate, il fiume è inquinato dai solventi chimici, l'illuminazione è costituita dai neon delle insegne dei bar. Il tasso di alcolisti e suicidi è alle stelle. Più cupo, questo Cognetti ha il fascino ombroso del fondovalle e fa spazio al dramma di due fratelli agli antipodi.

Lo sai cosa vorrei, invece? Un bell'abbraccio da mio fratello. O anche fare a pugni, scegli tu. Ma qualcosa di vero.

Luigi fa la guardia forestale: pallido e ordinato, somiglia al larice piantato dal padre. Alfredo, invece, è un abete: pungente e frondoso, ha conosciuto il Canada, si è spinto fino al Mar Glaciale e infine è tornato indietro, complice un'eredità da impugnare. Fra di loro ci sono: una belva che semina cani sbranati; una donna un tempo contesa, Elisabetta, che fa il bagno nuda nel fiume e ha preparato uova sbattute a suo suocero fino al giorno in cui il vecchio non l'ha fatta finita; una casupola a 1800 metri d'altezza che presto confinerà con una pista da sci. Mentre la conta dei morti cresce, il progresso fa timidamente capolino: per lasciare spazio al divertimento dei turisti, toccherà abbattere oltre cinquemila alberi. Non ci vuole molto a cogliere analogie con i romanzi precedenti: i protagonisti dai caratteri opposti ricordano gli amici lontani di Le otto montagne; Fontana Fredda e la vita selvaggia facevano già capolino nel più fiabesco La felicità del lupo. Cognetti ormai scrive sempre la stessa storia? Forse sì, ma ancora una volta la scrive meravigliosamente bene, pur auspicandomi un ritorno in città per il prossimo romanzo. A dispetto della ripetitività delle tematiche e della debolezza dei personaggi femminili – le donne di Paolo sono tutte forestiere, detentrici di valori familiari e calore: non persone né personaggi; candidi archetipi piuttosto –, è impossibile non lasciarsi incantare da una voce carezzevole che omaggia il Bruce Springsteen di un famoso album datato 1982.

Era piccola, la sua valle, eppure c'erano ancora posti che non aveva mai visto. Sceso dall'argine, lasciò andare avanti l'uomo e osservò il paesaggio di pioppi e betulle, una conca dove la Sesia faceva un'ansa, tra i banchi di ghiaia modellati dalla corrente. Adesso che era in secca, il fiume si diramava creando isolotti e spiagge. Gli venne in mente che dieci anni prima ci avrebbe portato Elisabetta a fare il bagno, ma per i bagni nel fiume c'era una stagione, nella vita, che poi chissà perché passava. Poi veniva la stagione dei figli, delle case da comprare e ristrutturare, dei vantaggi di un lavoro salariato.

Sinceramente grato, Cognetti cita le canzoni e gli scrittori del cuore: sono tutti americani. Ma è alla provincia italiana che deve gli incisivi spaccati per le troppe birre aperte con i denti, il vino rosso e lo spezzatino in tavola, i misantropi un po' romantici che preferirebbero una tenda nel bosco al tepore del talamo, i fiumi che vogliono rigorosamente l'articolo determinativo declinato al femminile. Il suo personale Nebraska è una partita a mosca cieca. Un girare in tondo animato da furia e tenerezza, in cui Luigi e Alfredo, divorati da una struggente tensione verso l'alto – gli occhi sempre puntati lì, sull'abbacinante Monte Rosa –, si inseguono sulla scia di una domanda. Il larice e l'abete crescono bene fianco a fianco, o si fanno troppa ombra a vicenda? Una lite, un incendio, li ha fatti ardere qualche anno prima. La neve caduta ha spento le fiamme soltanto all'apparenza. Il fuoco è penetrato nel terreno, l'incendio è soltanto dormiente. Basta un soffio di vento, e Luigi e Alfredo torneranno a bruciare. E, forse, a volersi bene.

Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Bruce Springsteen – The River

venerdì 10 novembre 2023

Recensione: Chiodi, di Antonio Schiena


| Chiodi, di Antonio Schiena. Fazi, € 16, pp. 180 |

Era lecito aspettarsi più carattere da uno che gestisce una pagina intitolata Antipatia gratuita. È il primo pensiero che ho fatto una volta terminata la lettura di Chiodi, ultimo romanzo del trentatreene Antonio Schiena ma il primo pubblicato con un grande editore. L'autore, da me molto apprezzato sui social per i suoi post deliziosamente caustici, arriva in libreria con una piccola storia sul diventare grandi. Ma mancano la fermezza di Niccolò Ammaniti, la fantasia ardita di Stephen King e il suo romanzo, generalista e didascalico, si rivela una fiaba nera adatta soprattutto a un pubblico di giovanissimi. In un imprecisato paese del Sud, si è diffusa una leggenda che accomuna generazioni vicine e lontane: racconta dell'Avvinto, un giovane arrogante che sfidò la morte e ne pago le conseguenze. È forse lui il nuovo guardiano del cimitero? I bambini si sfidano a scavalcare i cancelli e ad affrontarlo. Una volta tornati indietro, saranno uomini. A prestarsi al rito di iniziazione è Marco: un tredicenne disarmonico e sgraziato, reduce da un'infanzia di prodotti sottomarca e da anni spesi a incassare le vessazioni dei gradassi. Fra il bambino e il guardiano, entrambi emarginati, nascerà un breve dialogo intergenerazionale dagli incastri drammatici, ma non così imprevedibili. Marco vuole una storia da raccontare ai compagni. Ha importanza se sia le verità oppure no?

Essere soli non è male. Essere circondato dalle persone sbagliate è molto peggio.

I temi, delicatissimi e sempreverdi, vanno dalla rabbia repressa al bullismo, dell'isolamento alle onde sismiche del rancore. Peccato per l'abuso di luoghi comuni, soprattutto nella caratterizzazione dei personaggi: i bulli fumano e indossano il chiodo; il guardiano ha un occhio guercio e un alano nero al seguito; Marco ha un armadio total black, un amico in sovrappeso, una mamma troppo presa delle frequentazioni occasionali per curarsi di lui, una manciata di professori ciechi e sordi davanti alle prepotenze. Storia di due solitudini allo specchio, Chiodi attinge a un immaginario lugubre e malinconico. Piace quando è di corsa, fra le lapidi del cimitero, ma fa storcere il naso per la prevedibilità degli altri scenari. Schiena scrive in punta di penna. Concede ai lettori un finale amaro il giusto, ma non calca la mano per eccessiva prudenza. Ne viene fuori una morality play poco sfumata, ma al contempo senza colori decisi. Una vicenda a tinte forti né abbastanza oscura da inquietare, né abbastanza luminosa da regalare speranza agli afflitti. Come il suo protagonista, al crocevia tra infanzia e adolescenza, sceglie di mantenersi insomma in una zona liminare, dove il Pinocchio in copertina fatica a diventare un bambino vero. Sulla soglia del camposanto. Nel limbo delle occasioni mancate.

Il mio voto: ★★
Il mio consiglio musicale: Fabio Concato - Fiore di maggio

lunedì 6 novembre 2023

Recensione: Le schegge, di Bret Easton Ellis

| Le schegge, di Bret Easton Ellis. Einaudi, € 23, pp. 752 |

Un telefono a disco squilla nel salotto di una villa con piscina. Scatta la segreteria. Dall'altra parte, qualcuno sospira. Il suo silenzio vibra di minacce. Lo hanno preceduto effrazioni, regali misteriosi, animali domestici sottratti. L'obiettivo finale sono i giovani padroni di casa. Il serial killer, soprannominato Il Pescatore a strascico, comporrà un mostruoso patchwork con i corpi smembrati. L'inizio è degno di uno slasher di Wes Craven. Il prosieguo, a metà tra teen drama e satira sociale, è un'indagine antropologica della “peggio gioventù” di Los Angeles. Correvano gli anni Ottanta. Una volta ottenuta la patente, gli adolescenti sgommavano lontani dai rigidi regolamenti delle loro scuole private e dai confini sicuri dell'infanzia. Meta: la perdizione. Quelli cantati nel girone dei dannati di Bret Easton Ellis sembrano sbucati da un dipinto di David Hockney. Dediti a edonismo e oppiacei, belli e ricchissimi, appaiono disinteressati a tutto. Non li sfiorano le nozze di Carlo e Diana, l'omicidio di John Lennon, la setta dei Cavalieri dell'oltretomba, le avance sessuali degli adulti. A turbarli, piuttosto, è l'arrivo di Robert Mallory. Chi cambierebbe mai scuola l'ultimo anno di liceo? Da dove viene quell'adone al contempo sensuale e candido, che minaccia di far scoppiare coppie storiche – Susan e Thom, il re e la reginetta della Buckley –, ma cela un passato di disturbi mentali?

Molti anni fa mi resi conto che un libro, un romanzo, è un sogno che chiede di essere scritto nello stesso modo in cui ci s'innamora di qualcuno: il sogno diventa irresistibile, non c'è niente che tu possa fare, e infine cedi e soccombi anche se il tuo istinto ti dice di battertela a gambe perché potrebbe trattarsi, dopotutto, di un gioco pericoloso – in cui qualcuno probabilmente si farà male.

Da sopra gli occhiali da sole lo studia lo stesso Ellis; gli occhi appannati per la brama e il Valium. Segretamente omosessuale, benché fidanzato con la figlia di un famoso produttore cinematografico, l'autore sperimenta una dolorosa attrazione verso l'ultimo arrivato in città. E ne fa, presto, la sua ossessione. Il trasferimento di Robert coinciderà con un'ondata di follia lunga l'intero anno scolastico. È realmente lui il responsabile della rete di delitti che si stringe sempre più intorno agli amici di Bret? O la sua colpa più imperdonabile è quella di aver infranto il sogno di illusoria perfezione dei protagonisti, ponendo freno a un'estate creduta, a torto, senza fine? Tutti hanno un segreto. Tutti stalkerizzano tutti. In settecento pagine, a momenti alterni, tutti saranno vittime e carnefici; intrusi e perseguitati. A quarant'anni di distanza dai tragici eventi del 1981, l'autore sfida il disturbo post-traumatico da stress e sfoglia a ritroso un annuario dalla nutrita sezione in memoriam. Questa è una storia vera. O quasi.

Voi tutti non fate altro che proteggervi a vicenda. Da cosa? Dalla realtà.

Irresistibile nella sua inattendibilità, Ellis è ammicca furbamente ai temi caldi dei social: la retromania, l'autofiction, il true crime, il queerbaiting. Prende i tormentoni contemporanei e, all'apparenza, li sconsacra. Ma, a dispetto del cinismo diffuso – la dedica del romanzo recita proprio: A nessuno –, ci restituisce la rievocazione più verosimile e accorata di una generazione, di un mondo, a un passo dall'annientamento. Le schegge è un elettrizzante incubo vestito Ralph Lauren in cui il sangue e lo sperma, le paranoie e le prurigini occultano la nostalgia per un inconfessato primo amore. Lettore e cinefilo instancabile, il giovane Bret guardava il mondo con il voyeurismo compulsivo tipico degli scrittori. La sua futura professione lo rendeva attento già allora. Lo rendeva già bugiardo. Fermo al tempo dei suoi sconsiderati sedici anni, firma un thriller tanto spaventoso quanto eccitante – di quelli da leggere con la luce accesa, e con un'erezione prepotente nei boxer. Ma anche un sorprendente amarcord sull'impossibilità di risolvere il giallo di Robert Mallory, quando si è ancora intimamente irrisolti come adulti. Cosa resterà di quegli anni Ottanta? La voglia di vivere, amplificata a dismisura dalla paura di morire. Le schegge di un trip stupefacente, da cui sarà amaro svegliarsi soltanto per poi scoprirsi casti, invecchiati, sobri.

Il mio voto: ★★★★★
Il mio consiglio musicale: Ultravox – Vienna

martedì 31 ottobre 2023

Un Halloween in streaming: La caduta della casa degli Usher | The Last of Us

Dopo aver adattato Jackson e James, Mike Flanagan chiude la sua ispiratissima trilogia gotica cimentandosi con un altro capolavoro dell'horror. Questa volta si rifà al maestro dei maestri, Poe, e lo omaggia in una serie densa di citazioni. Se la cornice narrativa è quella del racconta La caduta della casa degli Usher, ogni episodio si rivela invece una reimmaginazione delle novelle più spaventose. Le puntate sono caroselli di storie dentro storie. Sontuose feste di morte in cui le dipartite, splatter e fantasiosissime, provengono ora da Il gatto nero, ora da Il pozzo e il pendolo. Roderick – un carismatico e fascinoso Greenwood – è il fondatore di un'industria farmaceutica responsabile di un'epidemia di oppiacei. Spietato e senza scrupoli, ha intrapreso una fulminante scalata sociale insieme alla sorella e messo al mondo una progenie corrotta quanto lui. In pochi giorni si troverà a seppellire tutti e sei i figli. Qual è il prezzo da pagare, in una vicenda di avidità, sesso e ambizione? Meno horror delle serie precedenti ma perfino più crudele, con i suoi monologhi caustici e riflessioni al vetriolo sul consumismo, l'ultima scommessa di casa Netflix è una saga generazionale sul male di cui, a volte, le famiglie sono capaci. A interpretare gli Usher tornano i soliti attori feticcio. Su tutti aleggia la presenza seducente di Carla Gugino, la cui bellezza senza tempo la fa muovere fra epoche e travestimenti, offerte e minacce. Chi non berrebbe un cognac con lei? Gli unici incorruttibili: una nipotina idealista e un tuttofare dal passato rocambolesco (di lui parlano Le avventure di Arthur Gordon Pym), interpretato da un inatteso Hamill. Dimenticate la commozione per gli sfortunati eredi di Hill House, per me di una perfezione insuperata; gli spettri – un po' troppo melensi – di Bly Manor. Qui non c'è consolazione nell'aldilà. Non c'è riconciliazione nell'oltretomba. Sono già uno strazio le cene condivise. Chi vorrebbe trascorrere insieme anche la vita dopo la morte? (8)

I videogiochi ispirano pessime trasposizioni: è una legge universale. The Last of Us non è soltanto l'eccezione alla regola, ma è una creatura ibrida che mette d'accordo sia gli appassionati del blockbuster che gli amanti del cinema d'autore. Merito dei suoi ritmi lenti e di un andamento che ricorda gli indie The Road e Light of My Life, e perfino un po' il nostro Anna. Horror on the road ambientato in una America post-apocalittica dilaniata da mostri e banditi, la serie HBO ha per protagonisti un uomo segnato dalla tragedia e un'adolescente misteriosamente immune. All'indomani di un'epidemia tratteggiata con agghiacciante realismo, gli esseri umani vanno temuti più degli infetti. Il dolcissimo Pedro Pascal, stando sempre un passo indietro, sorveglia Bella Ramsey come farebbe un genitore apprensivo e lascia a lei le scene madri più memorabili. La chimica fra i due garantisce emozioni altalenanti, ma innegabili. Dipinti entrambi con luci e ombre, sacrificherebbero la spasimata cura pur di non cedere ai morsi dell'abbandono? Dappertutto aleggia un senso di tragedia. In nome di un pathos inseguito a ogni costo, episodio dopo episodio, la serie dimentica a lungo andare sottotrame intriganti e comprimari creduti, a torto, importanti. Ma mentre il terzo episodio – parabola sulla persistenza di uno struggente amore gay – ci regala un capolavoro romantico musicato a Max Richter, gli altri finiscono per generare uno strano senso di assuefazione davanti all'ennesima morte, all'ennesimo sacrificio, all'ennesimo morso. Bella ma non bellissima, insomma, questa trasposizione videoludica sfida il luogo comune: agli Emmy è già record di nomination. Ma è realmente la serie dell'anno? (7)