Ho radici frastagliate, io. Un accento strano, difficile da indovinare. Ho rubato la parlata al luogo in cui sono nato, alle città in cui mi sono trasferito, ai miei genitori. Quando mi arrabbio, lo faccio come mamma e papà: in napoletano. La lingua delle parolacce. Del cuore e delle viscere. Si trovano la stessa istintività, la stessa musicalità scassata, nell'esordio di Monica Acito. Un'opera prima che, nel bene e nel male, somiglia alla sua città: Napoli. Generoso, barocco, saturo fino a scoppiare, racconta con stile funambolico la funambolica storia di una famiglia infelice a modo suo. Quando la Spaiata (che di mestiere si si strugge ai funerali degli sconosciuti nell'umile Forcella, abile a “chiagnere e fottere”) sposa Pasquale Riccio (figlio di un famoso notaio dei quartieri alti, pieno di debiti e smanie) dalla loro unione nascono due figli rissosi ma inseparabili.
C'era un punto di non ritorno, al di là dell'invidia, ma a quel punto nessuno ci voleva mai arrivare, perché sotto le crepe dell'invidia c'era una sorgente carsica di amore sconfitto.
Il primogenito, detto Uvaspina, ha una voglia a forma di chicco sul volto e la stessa pelle traslucida di un frutto: sospeso tra i sessi, bellissimo ed efebico, sembra essere della specie dei femminielli o dei semidei. Sua più spietata carnefice, sua boia e liberatrice, è la sorella Minuccia: una giovane dispettosa e imprevedibile, come le eruzioni del Vesuvio, difficile da accasare e da saziare; con la sua fame nervosa, bulimica, divorerebbe anche il sangue del suo sangue. Il destino di Uvaspina, strizzato costantemente come il frutto di cui porta il soprannome, è portare pazienza. Ma come può continuare a vivacchiare se la conoscenza di Antonio, pescatore dagli occhi bicolore desideroso di una scalata sociale per riscattare la mamma dalla miseria, gli fa venire l'improvvisa voglia di fare l'amore sulle scale di Palazzo Donn'Anna? Ogni personaggio ha una ricca vita intima. Ogni angolo della città racconta una storia d'amore infelice. Ogni pagina scoppia di dettagli, odori, suoni, colori. All'ombra del Vesuvio, sotto un'aura magica di miti e leggende, è possibile predire l'identità dell'anima gemella; gettare fatture mortali; innamorarsi al suon di aneddoti su regine e puttane.
Le mani di Antonio risvegliavano tutto, con una potenza dolorosa che faceva gemere Uvaspina come una giovenca: nel tocco di Antonio c'era la misura di tutto l'amore che negli anni lui aveva dovuto ingoiare e poi vommecare nel cesso che si affacciava sulla Marinella.
La
lingua bellissima di Monica Acito, non contenta della tanta carne al
fuoco, fa scintille e fuochi artificiali. C'è troppo, di tutto. E a
lungo andare, prolisso, il romanzo perde l'umorismo e il senso del
grottesco iniziali (l'incipit somiglia a “Filumena Marturano”);
diventa una tragedia senza fondo, in cui perfino gli elementi del
folklore locale assumono connotati luttuosi. Senza equilibrio, fuori
scala, “Uvaspina” non si mette scuorno di niente: nemmeno delle
sue mani unte d'olio evo; nemmeno della sua pelle che puzza di
sigarette di contrabbando, sperma e sangue di polpo.
Come
non uscire stanchi dopo un tale stordimento sensoriale? Come,
tuttavia, non uscirne grati? L'ho letto in gita in Campania. Mancavo
a Napoli da un po'. A modo mio, mi mancava. Ma sul treno del ritorno,
a riparo dagli schiamazzi della mia scolaresca e dai clacson dei
motorini a picco nei Quartieri Spagnoli, mi sono contraddetto ancora
e mi sono detto: per fortuna torno a Torino.
Il mio consiglio musicale: Madame – Nimpha