[2012]
I bambini strillano e strepitano; all'asilo non ci vogliono andare.
Ma la piccola Klara, ultima nata in una famiglia litigiosa, lì
sta bene. Soprattutto, per il maestro Lucas. Klara
ogni tanto si perde e, quando tutta presa a contare le linee che
solcano il marciapiede non guarda se la direzione presa è quella
corretta, c'è Lucas – dolce, disponibile, affettuoso – a darle
una mano e condurla verso il bene. A scuola, dove il maestro gioca a
acchiapparella con alunni che lo venerano. A casa, dove spesso
quell'adulto solitario – nella sua vita privata, infatti, stanze
vuote, il divorzio e, all'orizzonte, la promessa dell'affidamento
congiunto e di un nuovo amore – si ferma a pranzo. I bambini dicono
tante bugie, ma le bugie non hanno mai fatto al caso di Klara, che al
contrario è precoce e sotto sotto – come lo si può essere solo a
quell'età - un po' innamorata del gigante buono e occhialuto che non
nega a nessuno un sorriso. Finché la bambina – che non è la
protagonista, perché questa non è la sua storia – non confessa,
imbarazzata, l'incofessabile: il suo amico adulto le avrebbe fatto
male. Come persone cattive sanno fare a bambini innocenti. Male così.
Il sospetto è
la storia dell'uomo su cui pesa l'accusa più grave che c'è. Il
sospetto che
è un titolo bugiardo: giacché lo spettatore, angosciato, non nutre
il minimo dubbio che quel padre di famiglia senza macchie, senza colpe,
abbia fatto pensieri impuri su quella creatura che maneggia, sulla
strada verso casa, alla stregua di un gioiello fragile. Agghiacciante
è la domanda che non mi sono posto – Lukas è un pedofilo davvero?
- e tremendo, in assenza di un (ir)ragionevole dubbio, è osservarlo
arrancare porta a porta, come un cane rognoso, mentre gli amici lo
scacciano, i commercianti gli si negano, il suo viso insonne si fa
tutto un livido scuro. Ho avvertito gli spintoni, gli insulti, il
peggio. Le orecchie che fischiano per i sibili biforcuti delle
malelingue e, sulla schiena, occhiate di quelle che squagliano il
cappotto. Mi sono sentito il suo male mortale per tutto il tempo; due
ore, queste, appresso a cui butti il sangue. Per resistere a uno dei
drammi più duri di Vinterberg servono una trasfusione, nervi saldi.
Sarai compassionevole? E tu, genitore, sarai abbastanza lucido da
discernere la bugia dalla verità, se il sangue tuo verrà, e dio non
voglia, a rivelarti un inquietante segreto? In mezzo a comprimari
grandi e piccoli, in una chiesa colma di sguardi a Natale, il profilo
inconfondibile di un Mads Mikkelsen – il signorile Hannibal che mi
ha fatto scordare Hopkins – protagonista di una sublime performance che è un ingrato calvario verso l'oro a Cannes.
Quell'anno,
sospettato
di essere una delle migliori pellicole dell'annata, volava agli
Oscar. Vinceva Sorrentino, con quella Grande
bellezza
che – ancora prima di piangere su Alabama
Monroe e di
tormentarmi con l'epilogo senza pace ma perfetto dell'ultimo
Vinterberg – borbottavo, incompreso dai più, fosse come La
corazzata Potemkin per
Fantozzi. Il
sospetto resta straordinario, anche se ogni volta – troppa la bile che
sale in gola, troppa l'ingiustizia – avrai bisogno di un trapianto
di fegato. Presente la sensazione maledetta? (9)
[2012] Il medesimo anno di produzione, altra pellicola danese, lo stesso destino. A Royal Affair punta all'Oscar per il Miglior Film Straniero, un anno prima rispetto a Il sospetto. Con un Mikkelsen sempre magnetico che tenta l'en plein, portanto orgogliosamente la bandiera rossa e bianca di un Paese che sa fare grande cinema, e un genere diverso che – questa volta a giusta ragione – non è abbastanza ambizioso per il premio più desiderato. Alla base, un problema insuperabile: il mio disamore per tutto ciò che è storico. Quanto mi annoia? Tanto, troppo, e – con una durata che si aggira intorno alle due ore e venti – capirete perché il sontuoso dramma in costume di Nikolaj Arcel si sia prestato ora e non in precedenza a un sentito recupero. Ambientato nel XVIII secolo, alla corte di re Cristiano VII, parla di un Paese dalla storia ineditamente travagliata e di un triangolo che venne a crearsi nel momento in cui un carismatico medico – fruitore di libri proibiti, illuminista, rivoluzionario – s'intromise nella vita del re, infantile e iperattivo, e nelle stanze della giovane regina, splendida e malinconica nobildonna inglese. L'imperscrutabile Johann, consigliere fidato ed esperto conoscitore dei cuori nobili e delle sofferenze di un popolo miserabile, userà l'amicizia del sovrano e l'amore della consorte come instrumentum regni. A fin di bene, ma in un ambiente in cui covano l'inganno e la cospirazione da secoli. A Royal Affair, al di là di un lato tecnico all'avanguardia che non deve temere concorrenza alcuna, risulta un triangolo dai lati smussati. Classico, senza ombre. Corretto e fluido, nonostante la durata sostenuta, è all'altezza della migliore produzione BBC, con una prima parte che avvolge e una seconda, invece, che appare liquidata con inspiegabile fretta. Scorre e corre. A volte coinvolgente come un romanzo scritto ad arte, altre stringato come un riassunto per sommi capi, in vista di un esame che preoccupa. Comunque semplificato e condensato, con qualche espediente poco brillante che ha del televisivo – la protagonista morente che in una lettera ai figli, in flashback, ricostruisce la sua storia, ad esempio – e ragionevoli compromessi per appassionare – e così effettivamente è – chi tende a perdere il filo, a distrarsi. Resta il fatto che, se non sapessi il suo valore effettivo e la gloria appena sfiorata, non lo terrei probabilmente a mente. E restano tre interpreti magistrali – un Mikkelsen dal fascino indescrivibile, un Mikkel Boe Folsgaard che stupisce e diverte con la caratterizzazione del suo re matto, una intensa e bellissima Alicia Vikander, che – a tre anni di distanza – sta conquistando anche l'estero. C'è del marcio in Danimarca; lo scriveva Shakespeare. Ma, a conti fatti, c'è anche del buono. Sebbene questo A Royal Affair, altrove acclamato, non rappresenti per me il meglio. (6,5)
[2012] Il medesimo anno di produzione, altra pellicola danese, lo stesso destino. A Royal Affair punta all'Oscar per il Miglior Film Straniero, un anno prima rispetto a Il sospetto. Con un Mikkelsen sempre magnetico che tenta l'en plein, portanto orgogliosamente la bandiera rossa e bianca di un Paese che sa fare grande cinema, e un genere diverso che – questa volta a giusta ragione – non è abbastanza ambizioso per il premio più desiderato. Alla base, un problema insuperabile: il mio disamore per tutto ciò che è storico. Quanto mi annoia? Tanto, troppo, e – con una durata che si aggira intorno alle due ore e venti – capirete perché il sontuoso dramma in costume di Nikolaj Arcel si sia prestato ora e non in precedenza a un sentito recupero. Ambientato nel XVIII secolo, alla corte di re Cristiano VII, parla di un Paese dalla storia ineditamente travagliata e di un triangolo che venne a crearsi nel momento in cui un carismatico medico – fruitore di libri proibiti, illuminista, rivoluzionario – s'intromise nella vita del re, infantile e iperattivo, e nelle stanze della giovane regina, splendida e malinconica nobildonna inglese. L'imperscrutabile Johann, consigliere fidato ed esperto conoscitore dei cuori nobili e delle sofferenze di un popolo miserabile, userà l'amicizia del sovrano e l'amore della consorte come instrumentum regni. A fin di bene, ma in un ambiente in cui covano l'inganno e la cospirazione da secoli. A Royal Affair, al di là di un lato tecnico all'avanguardia che non deve temere concorrenza alcuna, risulta un triangolo dai lati smussati. Classico, senza ombre. Corretto e fluido, nonostante la durata sostenuta, è all'altezza della migliore produzione BBC, con una prima parte che avvolge e una seconda, invece, che appare liquidata con inspiegabile fretta. Scorre e corre. A volte coinvolgente come un romanzo scritto ad arte, altre stringato come un riassunto per sommi capi, in vista di un esame che preoccupa. Comunque semplificato e condensato, con qualche espediente poco brillante che ha del televisivo – la protagonista morente che in una lettera ai figli, in flashback, ricostruisce la sua storia, ad esempio – e ragionevoli compromessi per appassionare – e così effettivamente è – chi tende a perdere il filo, a distrarsi. Resta il fatto che, se non sapessi il suo valore effettivo e la gloria appena sfiorata, non lo terrei probabilmente a mente. E restano tre interpreti magistrali – un Mikkelsen dal fascino indescrivibile, un Mikkel Boe Folsgaard che stupisce e diverte con la caratterizzazione del suo re matto, una intensa e bellissima Alicia Vikander, che – a tre anni di distanza – sta conquistando anche l'estero. C'è del marcio in Danimarca; lo scriveva Shakespeare. Ma, a conti fatti, c'è anche del buono. Sebbene questo A Royal Affair, altrove acclamato, non rappresenti per me il meglio. (6,5)
[1999]
Quando avete scoperto François Ozon? Io ai tempi di
Otto donne e un mistero
– commedia musicale dai toni pastello, con un cast che comprendeva
alcune tra le attrici più meravigliose del cinema d'oltralpe, allora
come adesso, e un omicidio a cui dare un senso. Avevo ancora Sky, e
Sky non si chiamava neanche così, dunque direi che è passato un
po'. In realtà, Ozon –
trentenne e con un passato da modello – faceva il suo debutto alla
regia sul finire degli anni novanta. Dopo una capatina nel mondo del
grottesco con l'introvabile Sitcom,
è Amanti
criminali la
sua autentica opera prima. Giovane coppia di liceali assassini si
smarrisce nel fitto di un bosco, con il cadavere di un coetaneo al
seguito. Finché non si imbattono in una casa apparentemente
disabitata e
nell'ombroso orco che la popola. La regia era acerba, il cast povero, ma questo Ozon così
diverso – sanguinoso, nudo e crudo – aveva già le
idee, il talento e il passepartout per la fama internazionale. Si
nota, la cosa, nel fantasioso mélange di toni – la commedia nera
che, negli anni '90, spopolava negli USA; il retelling che adesso è
venuto a noia a furia di usi e abusi; l'eros sadomasochistico – e
nei caratteri ambiguamente delineati di due Bonnie e Clyde liceali:
Alice, manipolatrice e fatale, e Luc, pazzo d'amore e
sentimentalmente confuso. Coppia fatale: la mente e il braccio.
Hansel e Gretel che sviluppano una spiazzante sindrome di Stoccolma nei confronti del
loro aguzzino, e una sceneggiatura indigesta – sui misteri del
desiderio, sulle ombre fosche dell'identità sessuale – che vuole
come protagonista, inaspettatamente, il vulnerabile Jérémie Renier;
la sexy ninfetta Natacha Régnierc, invece, è chiusa in cantina, in
compagnia di roditori e cadaveri. Le colpe del loro
sanguinoso crimine d'amore sottoposte, così, al giudizio di quel
cacciatore normativo e spietato. Intrappolati in una baracca che ha
una porta sola e di cui solo il loro personale Polifemo possiede la
chiave, bramano la libertà e, tra sevizie fisiche e psicologiche,
vengono rieducati, in un masochistico doposcuola che sembra sbucato
dal cuore nero delle storie dei Grimm. E che, amorale, non tiene conto dell'ultima riga delle favole. (7)
[2008]
Andatelo a dire a chi
era in sala con me, in quel pomeriggio di giugno, che alle nostre
orecchie il chiedersi “E questo Tom Hardy adesso chi è?”,
davanti all'ultimo Mad Max,
suona come la peggiore ammissione di colpa. Tom Hardy, che è sulla piazza da almeno un decennio e che –
trentasette anni, il passato da eroinomane, i denti storti che era
certo sarebbero stati un problema per Hollywood e invece no – a
ogni lungometraggio con la sua strana faccia dentro si scopre
bravissimo. E incredibile lo è sempre, soprattutto nell'eccesso: coi
personaggi ipercaratterizzati, le scene forti, le macchine da presa
di registi suonati che lo mostrano lurido, nudo, multiforme. Dopo il
bel Stuart – A Life Backwards,
Bronson è un altro
consiglio della solita Lisa che, per un equivoco, pensava che le
avessi consigliato proprio io uno dei primi Winding Refn, quando
invece lo conoscevo solo per la losca fama che lo precedeva. Bizzarra
biografia di un criminale senza arte né parte, questa, che, nel
culto dell'amata ultraviolenza, cercava l'immortalità di un nome
d'arte e una fama ottenuta a suon di pugni. Ancora in vita, ancora in
carcere, Michael Gordon Peterson – per la stampa inglese, Bronson,
come l'attore – si godrebbe questo suo quarto d'ora di
notorietà: trent'anni passati in isolamento, ma finalmente le luci
della ribalta. Lui che non sapeva cantare, ballare, recitare, ma
sognava disperatamente la notorietà: ottenerla, perciò, diventando
il detenuto più pericoloso – e costoso – del Regno Unito. Una
spina nel fianco per la Regina in persona. Si parte canonicamente, da
un'infanzia noiosa in una noiosa famiglia borghese, e seguono poi i
pestaggi, gli atti vandalici, il sanguinoso bisogno d'attenzione; il
tutto intervallato da scene grottesche perfette, in cui Bronson –
con la faccia truccata di bianco, come un divo del muto – si
rivolge a una sala vuota. E' in quei siparietti surreali che il film
si scopre meno tradizionale e il protagonista straordinario: lui e la
sua camminata alla Charlot, lui e il sogno dell'applauso. Hardy,
tozzo e muscoloso, è la star indiscussa di un film che altrimenti,
per una trama esile contrapposta a un personaggio che pesa, non mi è
piaciuto del tutto. Visivamente all'avanguardia, con un regista che
si dà a ritmi meno lenti dei suoi, le impennate pazzesche della
colonna sonora classica, lo shock del colore sbattuto in faccia, ma
il paragone con Kubrick è un azzardo, e si sapeva, e, alla fine, non
si ricorda che per l'ennesima trasformazione di Hardy, e si sapeva.
Forte, imponenente: anche abbastanza da reggere il tutto? E io che
salto qui e lì nella sua caotica filmografia e, ogni volta, giuro
che quella – questa?
- sia la prova della sua carriera. Fino a quando, stupefatto, non
assisto allla successiva. (6,5)
[2002]
Era l'estate dei miei
otto anni e avevamo traslocato. La ricerca di un appartamento in cui
ci stessimo tutti e quattro, i materassi sul pavimento come barboni
perché il camion che ci aveva seguito dalla Sicilia si era perso i
letti in giro. Una città nuova, coi centri commerciali di vetro, i
McDonald che profumavano di fritto, un negozio di videocassette e cd
in cui passavo le ore. Ora è tutto cambiato: la città si è
rimpicciolita mentre io crescevo, i supermercati si sono spopolati,
quella videoteca non esiste più. Triste visione. Una mattina,
ricordo di avere aiutato papà con cose noiose, da grandi: sono
orgoglioso di quel bambino già maturo che faceva la fila alle poste,
aiutava gli adulti a scegliere, andava matto per i film dell'orrore.
Ricompensa per quel giorno, siccome non mi ero lamentato ed ero stato
buono, un VHS in regalo. Avevo scelto The Ring,
l'horror con la bambina nel pozzo che aveva fatto chiacchierare il
mondo. Ricordavo più le circostanze dell'acquisto, sinceramente, che
il film in sé. Lo conservo ancora, ma chissà se il nostro
videoregistratore funziona... Lo avevamo visto a casa dei miei nonni,
intorno a mezzogiorno. La nonna faceva avanti e dietro dalla cucina,
lanciando occhiate riprovevoli alla tivù, e il cielo azzurro mi
aiutava a scacciare la paura. O ero un bambino coraggioso io, oppure
The Ring era una
pizza: non mi aveva impressionato. Non come quelle volte quando io
e Diego avevamo fatto dormire papà accanto a noi, sulla sdraio, per colpa di un film vietato ai minori.
Adesso è cult e io ricordo più positivamente il seguito,
piacevolissimo ma bistrattato, che l'inizio di questo cerchio (quasi)
senza fine. L'ho rivisto un sabato pomeriggio, con la stessa
familiare compagnia di un decennio fa, per vedere come lo avrei
trovato a una seconda occhiata. Dodici anni di horror hanno reso
scontato il mistero della mitica Samara, ma affascinanti i suoi
oscuri simboli e i suoi crudeli percorsi. Ghost story classica,
questa, di cui buchi narrativi e l'inconcludente finale, buttato lì
a caso, senza un briciolo di enfasi, si scambiano però erroneamente
per mistero. Da rivedere di nuovo per lo schermo a tubo catodico, i
telefoni antiquati, le cassette maledette di cui ce ne freghiamo,
tanto ormai tirano lo streaming e i Blu-Ray, l'effetto post Scary
Movie 3. Il pregio è che, come
la splendida Naomi Watts, The Ring
invecchia bene. I passi concitati dell'indagine li ho seguiti con più
curiosità della prima volta e i ricordi appannati che mi ritrovo
hanno reso non dico inaspettate, ma riuscite alcune svolte di questo
conto alla rovescia dalle ore contate. Per il resto, non inquietava
allora; figuriamoci oggi. Gli si riconosce una regia di un
perfezionismo notevole, la recitazione che per un horror mainstream è
al di sopra della media, il merito – o la colpa? - di avere dato
per primo tratti occidentali ai mostri con gli occhi da manga. (6)