mercoledì 26 giugno 2013

Recensione: Finché zombie non ci separi, di Jesse Petersen

Ciao a tutti! Inaspettatamente, rieccomi qui, a poca distanza dall'ultimo post, a parlarvi della mia ultima lettura. Se sono stato così veloce, è merito di questo romanzo che, carinissimo, si è lasciato DIVORARE. Ringraziando la gentilissima casa editrice per avermene inviato una copia, vi auguro una buona lettura e vi mando un abbraccio. Coraggio, è quasi fatta. Molto probabilmente, dal 2 Luglio sarò un uomo libero!
Gli uomini vengono da Marte. Gli zombie dall'inferno...

Titolo: Finché zombie non ci separi
Autrice: Jesse Petersen
Editore: Multiplayer Edizioni
Numero di pagine: 224
Prezzo: € 15,00
Sinossi: Sarah e David sono una giovane coppia in crisi: l'alchimia che c'era prima ormai sta svanendo e il loro matrimonio rischia di andare in fumo. Da qui, la necessità di seguire una terapia di coppia con la Dr.ssa Kelly. Un bel giorno, proprio mentre sono diretti verso lo studio della psicoterapeuta, Sarah e David notano delle stranezze: la superstrada è deserta, la solita guardia di sicurezza al parcheggio dell'edificio non c'è, e il fatto che la Dr.ssa Kelly stia strappando a morsi la gola di un altro cliente. La coppia ha scelto il giorno sbagliato per uscire di casa, perché stanno spuntando zombie da ogni angolo della strada! Un virus sfuggito ad un laboratorio universitario ha trasformato Seattle in una zona di guerra, piena di mostri antropofagi che attaccano le persone. La situazione peggiora di ora in ora. Dopo aver eliminato la vorace (ex)psicoterapeuta, i due devono prepararsi a sopravvivere ad un' Apocalisse zombie. Sarah e David lotteranno per la sopravvivenza ma i loro problemi di coppia non svaniranno magicamente solo perché assediati e in pericolo di vita. Riusciranno ad unire le forze, salvare la pelle e i loro succulenti cervelli senza uccidersi l'uno con l'altra?
                                                   La recensione
Qualcuno l'ha detto: l'amore è un campo di battaglia. Be', quel qualcuno aveva ragione e, probabilmente, in una sfera di cristallo magica, misteriosamente proiettata sul futuro, aveva visto funesti presagi, zombie, nubi radioattive e una Seattle di cenere e fiamme. Quel qualcuno, ancora più probabilmente, conosceva Sarah e David. Una coppia scoppiata. Avete presente il genere, no? Lei, lavoratrice instancabile e con sogni grandi. Lui, scanzafatiche legato, in seconde nozze, con il joystick della sua amata Xbox. L'amore all'inizio c'era, ma poi è subentrato il resto: lavori saltuari, un catorcio puzzolente come macchina, un monolocale squallido in un quartiere ancora più squallido, una crisi che logora le finanze e gli affetti. Economica, dunque, e sentimentale. L'unica soluzione per salvare cinque anni di matrimonio: una rinomata terapista dall'altra parte della città. Il che equivale a consigli scontati ed inutili, soldi buttati a vanvera, massicci manuali per mariti e mogli modello, altri litigi ancora. La loro casa, da scrigno di tenerezze e confidenze, era diventata, già da un pezzo, il campo di battaglia di quel famoso e saggio detto. Il 10 Agosto 2010 lo è diventata letteralmente: una fortezza, una barriera, un bunker. Quando fuori è scoppiato il finimondo, stare insieme sotto un unico tetto è diventato la loro salvezza. Gli zombie, come in un film horror, hanno invaso la città; forse il mondo intero. L'aveva detto la sveglia Sarah che qualcosa non andava quando, armata di tacco a spillo, aiutava il suo quasi ex maritino a sfondare il lobo frontale della sua terapista, la Dottoressa Kelly. Con i suoi prezzi improponibili, che la terapista fosse una sanguisuga senza scrupoli i due giovani coniugi già l'avevano capito! Ma mai avrebbero sospettato che quella bella donna in carriera dalle unghia sempre smaltate, accanto al pilates e ai massaggi termali, avesse anche l'hobby del cannibalismo. Lo scoprono quando, entrati nel suo studio, la vedono divorare la più affiatata delle sue coppie da salvare. Purtroppo per loro, quello non è un caso isolato. La passione per la carne umana, d'un tratto, impazza a Seattle più velocemente di qualsiasi moda. Quella donna in tailleur è una zombie in un Paese di zombie. Prima che i lifting le stirassero, insieme alle rughe, anche il buon senso, Madonna non diceva forse una cosa giusta?
Canticchiate con me, sù: 'cause we are Living in an material undead world and I'll be an material undead girl. Ok, forse no. No, non diceva così. Prevedere un'epidemia di morti viventi era troppo anche per lei, la nonna d'arte di Lady Gaga... Fatto sta che Sarah, voce narrante del romanzo, è fermamente decisa a non adattarsi a quel mondo. Lei – anticonformista, ribelle, viva? - vuole custodire la sua umanità e, sopratutto, vuole ricucire, come la fedele Penelope, la relazione con il suo incostante David. Mentre la città marcisce come carne putrefatta e sembra implodere su sé stessa, i due impareranno a collaborare (Uccidiamo insieme quella belva della terapista, yeah!), a scambiarsi gentilezze (David, mio caro, come spappoli cervelli tu nessuno mai!), ad amare i loro reciproci difetti (E' vero che lasci sempre la tavoletta alzata, ma chi mai avrebbe pensato che mi sarebbe stata utile per schiacciare la testa del nostro vicino non-morto nel water?!), ad accettare le loro famiglie (Tua sorella è una strega odiosa. Probabilmente nemmeno uno zombie le si avvicinerebbe: andiamo da lei!), a capire di volersi ancora bene (E' la seconda volta che mi salvi la vita: ti amo, ti amo!): perché la morte accende il fuoco della passione, non lo sapevate? La loro scapestrata fuga per la vita, caratterizzata da spettacolari uccisioni, simpatici personaggi che vanno e vengono, sette di fanatici religiosi e buoni sentimenti, è raccontata con leggerezza, ironia, agilità, orrore e sentimento. Sangue, amore e sfolgoranti sorrisi non mancano certamente: tutto grazie alla prosa della brava Jesse Petersen che, pur non firmando il libro dell'anno, intrattiene piacevolmente come pochi sanno fare. Tragicomica, caliginosamente solare e famelica di divertimento, è un pericoloso ibrido tra una wedding planner, una psicoterapeuta e un George A. Romero in gonnella. Primo di una trilogia mortalmente divertente, Finché zombie non ci separi è una storia rosa shocking e cervelli fumanti, rossa come l'amore e come sangue che zampilla da un morso vorace. Una commedia romantica con Katherine Heigl e Jennifer Aniston, ma con zombie. Strappa risate, miti consensi, brandelli di carne. Si salvi chi può!
Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Katy Perry – Hot & Cold

domenica 23 giugno 2013

Recensione: The sky is everywhere, di Jandy Nelson

Ciao a tutti, come state, amici miei? E' passata quasi una settimana dal mio ultimo post, ma capirete: il 19 sono ufficialmente iniziati gli esami di maturità. La prima prova – nonostante le tracce difficilissime, che lì per lì mi hanno shockato! - è andata più che bene: analisi del brano di Magris. Non conoscevo l'autore, ma 1) era il male minore; 2) il brano era molto intenso, quindi mi sono cimentato con una cosa che non avevo mai fatto prima. Buona la prima, insomma: speriamo! Alla seconda prova, invece, versione di Quintiliano: fattibilissima, anche se – un errore lì, un errore qui – ho paura di non averla fatta bene come in un primo momento avevo sperato. Domani, è tempo del temutissimo “quizzone”. E, su cinque materie, ne ho fatte due o poco più: cazzo! Intanto, oggi vi propongo la recensione di un romanzo carinissimo che ho divorato in questi giorni, tra una prova e l'altra. Fatemi sapere cosa ne pensate e, mi raccomando, pregate per me: è una corsa contro il tempo. Un bacione, buona domenica e buona lettura, M.
Il cielo è tutt'intorno a te. Sopra e sotto. Il cielo è ai tuoi piedi.

Titolo: The sky is everywhere
Autrice: Jandy Nelson
Editore: Fazi “Lain”
Numero di pagine: 270
Prezzo: € 15,00
Sinossi: La diciassettenne Lennie Walker è praticamente perfetta: ama i libri, suona il clarinetto nella banda della scuola e trascorre gran parte del suo tempo felicemente riparata dall'ombra della volitiva sorella maggiore, Bailey. Ma quando Bailey muore, d'improvviso Lennie si ritrova catapultata al centro del palcoscenico della vita. E, a dispetto della sua inesistente esperienza con l'altro sesso, si troverà a barcamenarsi tra le attenzioni di ben due ragazzi. Toby è l'ex fidanzato di Bailey: il suo dolore fa da eco a quello di Lennie. Joe, invece, si è da poco trasferito in città, dopo un'infanzia trascorsa a Parigi, e il suo magico sorriso sembra essere eguagliato solo dal suo straordinario talento musicale. Per Lennie, Toby e Joe sono come il sole e la luna: se uno è capace di spazzar via il dolore, l'altro le offre conforto. Eppure, proprio come le loro controparti celesti, i due ragazzi non possono incontrarsi l'uno nell'orbita dell'altro senza che il mondo esploda.
                                                    La recensione
Non riesco a dare un calcio al buio”. La morte di un adolescente: brutto affare. Un incidente d'auto causato da un bicchiere di troppo, un pazzo che gioca a fare Dio con la vita di un innocente, il cuore che non regge e le ginocchia che si piegano. Succede, anche se sovverte l'ordine naturale del cosmo. Le cause sono diverse, ma succede. E le parole mancano. E le forze vengono meno. E le lacrime minacciano di fare della nostra cameretta un'Atlantide sommersa. E la vita, anche se non vogliamo, continua: cancellando i ricordi e i volti delle persone che abbiamo amato e che non ci sono più, spingendoci a bere e a mangiare anche se lo stomaco minaccia di vomitare tutto insieme al dolore e al resto... facendoci innamorare da capo. Quando capita è orribile, quando se ne scrive è difficile, straziante, triste. Ma non se si parla di The Sky is everywhere, uno young adult che parla con il tono più delicato e dolce della più lacerante delle perdite: la morte di una sorella. A casa Walker c'è un gene pazzo che, generazione dopo generazione, colpisce le donne della famiglia. Quello dell'irrequietezza, dell'abbandono. Lennie, diciassette anni, sa che è stato quello a portare la madre a scappare lontano. Per fortuna, però, ha sempre potuto contare sulla sua sorella maggiore: la saggia e vitale Bailey. Sono conosciute da tutti come Bailey e Lennie. Niente le ha mai tenute lontane. Finchè anche Bailey, alla fine, la abbandona, proprio come aveva fatto sua madre. La tradisce.Va via, dove nessuno può raggiungerla. In cielo. In un Paradiso che forse c'è, forse no. Durante le prove di uno spettacolo teatrale, muore e basta. Ad appena diciannove anni. Nell'estate dell'anno scorso, cullato dal ritmo del mare e dalle ombre del stabilimento balneare che diventa rifugio per le mie letture durante i mesi più caldi, avevo letto il romanzo d'esordio di un'ottima scrittrice italiana: parlo di Benedetta Bonfiglioli e del suo bel Pink Lady. Anche lì, come nel romanzo dell'americana Jady Nelson, venivano raccolti i pensieri – ora felici, ora tristissimi – di un'adolescente alle prese con una nuova città e col medesimo dramma della nostra protagonista. Di Anna – una scorza dura, ma il cuore morbido di una mela da cogliere celermente – mi aveva colpito l'immensa solitudine, la voglia di chiudersi lontana dal mondo. Lennie, invece, non è sola. Fa parte di una famiglia di allegri hippy e, in un'assolata California, vive tra piante esotiche, rose apparentemente dotate di vita propria e di un'esistenza più eccitante di quella della protagonista stessa, marijuana medica utilizzata da uno zio un po' fuori di melone e con cinque ex mogli all'attivo, foglie profumate alla base dei rilassanti infusi della nonnina. Be', della nonnona: la nonna di Lennie, infatti, è alta tipo un metro e ottanta, ha capelli ricci e lunghi fino al sedere, vestiti sgarcianti ed una casa non piena di gatti, ma di dipinti fatti solo utilizzando tenui sfumature di verde. 
Una figlia dei fiori, diventata una mamma con una figlia scappata chi sa dove e una nonna senza più la maggiore delle sue nipoti. E poi, proprio nel momento più critico, a contendersi il suo cuore sono due aitanti spasimanti. Già, proprio il cuore di lei, che prima non sapeva nemmeno uscire di casa lontana dalle “sottante” dell'inseparabile sorella; che prima aveva la vita sentimentale di una pianta grassa! I grandi amori, si era sempre ripetuta, lei che ha letto Cime Tempestose ventitré volte, spettano solo ai protagonisti. C'erano Heathcliff e Cathy, nessun Mr. Earnshaw è mai stato ricordato. Lei è sempre stata la potenziale damigella, non la sposa. Tutti i riflettori erano puntati su Bailey, lei viveva nel conforto della sua ombra. A unirla a Toby è il dolore, l'assenza, una stanza arancio zucca che odora ancora dei vestiti di Bailey. Lui era il suo ragazzo, e avrebbe voluto sposarla, un giorno o l'altro: l'aveva giurato. E' sbagliato, ma loro si baciano per sentirsi più vicini a lei, per scambiarsi sulle labbra la promessa carnale di non dimenticarla mai e poi mai. L'altro lato del triangolo è Joe Fontaine: candido, solare, innocente, con un sorriso a mille watt e un battito di ciglia portentoso. La chitarra in grembo, un francese impeccabile, la gioia di vivere incarnata nel corpo del ragazzo perfetto. Ma ha mai sentito parlare della sofferenza, almeno? E della morte? 
Follemente triste, follemente felice, follemente innamorata, folle, Lennie si trova a essere il vertice di un triangolo di giovani cuori: Giulietta, Cathy e Lady Chatterly insieme. Per sempre innamorata, per sempre dannata, per sempre peccatrice. Eppure vuole solo volare via, verso quella nuvola a forma di cuore che solca l'azzurro pastello del cielo. Il caldo soffoca, i romanzi d'amore cullano, l'estate profuma, gli ormoni impazziscono. Lei scrive poesie e sogni ovunque: sui post-it e le ante dei mobili vechi, le piastrelle e i bicchieri di Starbucks. Le ha scritte in questo The Sky is everywhere, titolo fantastico per un romanzo che sopravvive a una crociata di pena con un sorriso radioso e un'anima gemella – ma una sola! - accanto. E' solare, delizioso, dinamico, commovente, inaspettatamente lirico, sexy. Uno young adult maturo, che unisce poesia e dramma alle scintille roventi dei new adult di ultima generazione, che alla prosa dell'autrice hanno però da invidiare eleganza, buon gusto, realismo, bellezza. Talvolta malizioso e seducente, capace di sfilare a testa alta tra luoghi comuni e comuni sensi di colpa, è un romanzo di formazione a 360°, in cui adolescenti ed adulti vengono irreversibilmente cambiati da un avvenimento che ha la portata di una catastrofe epocale e in cui, diciassettenni o sessentenni, uomini o donne, tutti cambiano, mentre tutto – intorno a loro – cambia. Quello che mi ha colpito è la musicalità che invade ogni pagina e che ogni singola parola sprizza in un turbinio caldo di scintille e buoni sentimenti. Ha l'armonia dei duetti clarinetto-chitarra che Lennie “John Lennon” Walker e il suo Joe suonano sul portico di casa o sul letto segreto che il verde del bosco nasconde. L'armonia del caos dell'esistenza umana. Fa ridere tanto, fa emozionare tanto, fa sentire vivi tanto e, grazie all'orginale e ottima impaginazione, regala meravigliosi biglietti a sorpresa tra le pagine. Contagia il lettore con un amore che è una febbricitante epidemia di ottimismo, gioia, buon umore. E con una storia di cui si ci dovrebbe riempire i polmoni.
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Oasis - Whatever

lunedì 17 giugno 2013

Recensione: Joyland, di Stephen King

Nessuna estate dura per sempre 
  Titolo: Joyland
Autore: Stephen King
Editore: Sperling & Kupfer
Numero di pagine: 352
Prezzo: € 19,90
Sinossi: Estate 1973, Heavens Bay, Carolina del Nord. Devin Jones è uno studente universitario squattrinato e con il cuore a pezzi, perché la sua ragazza lo ha tradito. Per dimenticare lei e guadagnare qualche dollaro, decide di accettare il lavoro in un luna park. Arrivato nel parco divertimenti, viene accolto da un colorito quanto bizzarro gruppo di personaggi: dalla stramba vedova Emmalina Shoplaw, che gli affitta una stanza, ai due coetanei Tom ed Erin, studenti in bolletta come lui e ben presto inseparabili amici; dall'ultranovantenne proprietario del parco al burbero responsabile del Castello del Brivido. Ma Dev scopre anche che il luogo nasconde un terribile segreto: nel Castello, infatti, è rimasto il fantasma di una ragazza uccisa macabramente quattro anni prima. E così, mentre si guadagna il magro stipendio intrattenendo i bambini con il suo costume da mascotte, Devin dovrà anche combattere il male che minaccia Heavens Bay. E 
difendere la donna della quale nel frattempo si è innamorato. 
                                                        La recensione
Ero un verginello di ventun anni, con aspirazioni letterarie. Avevo tre paia di blue jeans, quattro di boxer, un rottame di Ford, sporadiche idee suicide e un cuore spezzato. Che dolce, eh?.  
Devin, questi sono i ragazzi. Ragazzi, questo è Devin. Un tipo magrolino, insoddisfatto, grigio. Una vita da dipingere su una tela monocromatica, scura e piatta proprio come la sua esistenza. E' sempre stato così: né felice, né triste. Perennemente depresso e annoiato, con una fidanzata che protegge il fiore della sua verginità con le unghie, con i denti e una lunga lista di improbabili bugie e mal di testa e l'ambizione segreta, sin da bambino, di diventare un grande scrittore - pur non avendo mai impugnato una penna per dare concretezza a una storia sfuggente – e, nella camera dell'accogliente pensione di Mrs Shoplaw, un cassetto zeppo di pacchetti di preservativi mai aperti, calzini spaiati, mutande stinte, ma privo di un misterioso doppio fondo in cui è nascosto il tipico manoscritto di cui vergognarsi un po', e un po' andare fieri. Il mio ritratto, praticamente - ragazza stronza e sporadici ed infantili pensieri di morte a parte. 
“Con il passare del tempo, ho scoperto che raramente i gentiluomini trombano. Una massima degna di essere ricamata su una tovaglia da appendere in cucina”. Amen, amico mio: una verità universalmente nota, ormai. Ma ritorniamo alla storia!... All'inizio del romanzo, il protagonista – giovane universitario spiantato e in cerca di un lavoretto per mantenersi: il me dell'anno prossimo, probabilmente – scopre Joyland, un parco divertimenti sulla costa americana; ricco e affollato, in un'estate in cui, ancora una volta, è riuscito a sopravvivere alla concorrenza dei terribili, competitivi e meravigliosi Disney Worlds che stanno fagocitando i parchi più piccoli come se fossero poco più che deliziosi e colorati cupcakes. Gnam...Gnam... e, prendendo baracca e burattini, come si dice, si chiude bottega. Lui lì si scopre felice. E, mentre goffo e sudato, balla attorniato da bimbi adoranti non pensa più alla ragazza che gli ha rotto in due il cuore, ai sacrifici fatti o da fare e al fantasma che si racconta popoli il parco. Viene pagato per regalare gioia alla gente. Nella sua estate più bella – quella del 1973 – ci sono i Doors e i Pink Floyd che cantano in sottofondo, cacce ai fantasmi e falò sul mare, amori e amicizie speciali, strade dai nomi di caramelle e dolciumi, dedali di giostre e ruote panoramiche. Un mondo di nomi in codice e saltimbanchi.
Un circo di risate, stupore, infanzia, con indovine dall'accento straniero, tanto esotico quanto fasullo, ed animali amichevoli ed esclusivamente di peluche. Enormi mascotte impellicciate in cui, dentro, c'è un pischello sudato, mezzo nudo e in preda a un esaurimento nervoso pressoché imminente. Anziano, il protagonista si guarda alle spalle. Il pensionamento davanti, la morte al passo successivo. Racconta l'estate dei suoi 21 anni con arguzia, nostalgia e la saggezza di chi ha vissuto tanto, a lungo, intensamente. Con gli occhi velati per la commozione, o forse per la cataratta, compara passato e presente: parla delle coppie che nasceranno, di quelle che scoppieranno al primo litiglio, di amici che vivranno una bella vita e di altri che, invece, non raggiungeranno mai una rugosa e soddisfacente vecchiaia, piena di nipoti e rimpianti come la sua. A raccontare il tutto, un autore d'eccezione di cui, immediatamente, salta all'occhio una leggerezza immane, contagiosa, irresistibile, senza peso: Stephen King. Lui scrive con la stessa facilità con cui si respira. Respira per scrivere, scrive per respirare. E' nato per farlo e, dopo una lunga, lunghissima gavetta, ha conquistato scettro e corona, il titolo di re
Re del brivido, ma che, ancora una volta, sceglie di cimentarsi con qualcosa di diverso dai racconti macabri, cruenti e geniali che l'hanno reso quello che è. Chi non lo ha mai letto ci vedrà solo una storiella estiva di spiriti in cerca di pace e prime volte. Uno Stephen King “da ombrellone”. Io ci ho visto un mondo. Il suo. Un regno d'inchiostro e fantasia che non ha solo case stregate e spauracchi, ma anche viste che mozzano il fiato e lacrime pure, proprio come lo sono i sorrisi e i sospiri che dona. Io, che lo leggo da quando sono piccolissimo, ho visto tra le righe un milione di sfumature. Forse, anche quello che non c'è scritto. Mi è sembrato il racconto di un nonno ad un nipote, pieno di velate bugie e grandi verità proprio come lo è ogni storia riesumata tra i bagagli dei ricordi di un anziano chiacchierone e instancabile. Con la voglia di parlare, di raccontare, di sentirsi – per età – vicino a James Barrie; per energia, a Peter Pan. Una scrittura emozionante ed emozionata lo rendono un testamento morale, la fine di un vecchio ciclo e l'inizio di uno nuovo. 22/11/63 – intenso, audace, coraggioso, capolavoro – era il nuovo. Questo Joyland è un'occhiata lacrimosa e malinconica dalla finestra dell'adolescenza, forse l'ultima prima che il treno fischi e vada oltre. Gli anni passano e Stephen, come tutti, sta invecchiando. 
Io l'ho letto come un addio a Carrie, Stagioni diverse, La bambina che amava Tom Gordon, agli anni ormai passati e, soprattutto, ai bambini curiosi e impulsivi di quella meraviglia di film che è Stand By Me. E' una festa d'addio. Questo luna park non è costruito sulla casa dello spaventoso e sanguinario It, ma in una landa su cui brilla quasi sempre l'arcobaleno, con il sole e le tempeste di acqua e vento. Nell'america calda, vivace e rockettara del film Adventurland. Ci sono bambini dalle doti magiche, mamme forti e mamme a pezzi, eroi per caso, prime delusioni e primi baci dati in mezzo alla felicità e al casino di un letto sfatto, convogli che fanno tappa in zone d'ombra, dove il mistero e la morte aleggia per sempre. Morte che, insieme all'amore, è analizzata nella complessità delle sue forme. In relazione all'aldilà o all'aldiquà, alle azioni efferate di un folle o agli scherzi di una vita dotata di grottesco e cinico black humor. Il destino segue una simmetria tutta sua: quanto è vero. Mentre leggevo e sottraevo tempo allo studio, proprio come sto facendo adesso, ho ripensato al mio primo giorno di scuola del quarto ginnasio. Nello zaino, avevo il mio ultimo acquisto: Il talismano, un potente fantasy scritto a quattro mani  da King e Peter Straub. Adesso, cinque anni e diverse centinaia di libri dopo, ho accolto gli esami ormai alle porte in compagnia di Joyland. Sempre bello, sempre di King. Sono anni che ci facciamo compagnia. Un secondo padre, uno zio famoso, un amico favoloso anche se ignora ostinatamente e comprensibilmente la mia esistenza, un maestro saggio e un compagno di letture a cui posso dire solo una cosa: grazie, ancora una volta, per il lungo viaggio fatto insieme. E' stato un onore.  
PS. Mr King, alla lettera per Hogwarts ci ho rinunciato, alla fine. Ma aspetto ancora che lei mi adotti, sotto sotto. So che non è Angelina Jolie – non vedo labbroni rosso lampone in giro e un asilo nido di bambini che portano tutti il cognome del bel Brad Pitt – ma sa, mai dire mai...
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: The Beatles - Come Together

domenica 16 giugno 2013

Mr Ciak #12: Stoker, Safe Haven, Tutti pazzi per Rose

Buona domenica a tutti, amici. Come state? Qui, si continua a studiare: la prova d'italiano è imminente! Oggi, per non lasciare che il blog cada nell'oblio più totale, vi propongo un nuovo appuntamento con la rubrica Mr Ciak, in cui vi parlerò di tre film adatti a tutti e molto validi. Il primo, Stoker, uscirà nei cinema italiani a giorni, il 20 Giugno e, con un cast straordinario e una trama da brividi, sono sicuro potrebbe sorprendervi non poco. Safe Haven, stranamente ancora inedito da noi, è tratto da uno dei tanti bestseller di Nicholas Sparks: Vicino a te non ho paura. L'ultimo, invece, è al cinema dallo scorso 30 Maggio ed è una commedia francese divertente, romantica, godibilissima, perfetto: Tutti pazzi per Rose. Fatemi sapere, come sempre, se li conoscete o cosa ne pensate. Mi ritiro nelle mie stanze e tra mari di appunti da ripetere. Un abbraccio e buona giornata, M.

Una fotografia ipnotica e nitidissima. Straordinari passaggi da una scena all'altra, talmente belli da sembrare pennellate in un'opera d'arte. Giochi di luce e buio, zoom e fermi immagine sulla natura in fiore e su spruzzi di sangue che sporcano i volti e il verde dell'erba. Angoscia e meraviglia che crescono insieme, in un film non bello, ma atipico, ansiogeno, sublime: che non dà pace. Vado raramente d'accordo con i critici cinematografici e, senza vergogna, ammetto di non essere mai stato attirato dai film di Chan – wook Park, di cui si ricordano con elogi continui soprattutto Thirst, Oldboy, Lady Vendetta. Non sono abbastanza maturo per apprezzare quel tipo di cinema e non ho la pazienza per assorbirlo e comprenderlo fino in fondo. Stoker, tuttavia, prima esperienza americana del regista, è un film estremamente affascinante e intrigante, di grande atmosfera e raffinatezza. Riesce semplicemente a stregare, a renderti parte dell'ossessione e di una lucida e ripugnante follia. E' oscuro, elegante, ansiogeno, grottesco, sottilmente malato: tragicamente bello. Tutto merito di un talento registico palese, sorprendente, pauroso e di una colonna sonora che – insieme alle immagini che scorrono – si libra in picchi di struggente drammaticità, e di un cast che lascia senza parole e incantati perfino davanti al panico dilagante. La storia ruota intorno a un triangolo familiare, a un lutto che ha lasciato una famiglia apparentemente perfetta in balia di segreti inconfessabili. Parla di un'innocenza che muore. Dopo l'improvvisa morte del padre, la diciottenne India si trova a vivere insieme a una madre algida ed incostante e ad uno zio sbucato dal nulla, ma che dietro di sé porta una scia di sparizioni e misteri irrisolti. Interpretato dal bravissimo Matthew Goode, lo zio è bello e crudele come Lucifero, l'angelo ribelle: una figura sorniona e carica di ombre che porta in casa la seduzione, la passione, le cicatrici di un passato mai condiviso con gli altri. Per Goode, che ho sempre allegramente sottovalutato, è una delle migliori prove di sempre.
La madre di India, invece, è Nicole Kidman: bellissima, bravissima e gelida come solo lei sa esserlo. A volte, sembra non essere di questo mondo. Altera, sensuale, perfetta, una donna alienata e distante: una cattiva mamma per un'attrice sempre e comunque fantastica. La chirurgia plastica alla quale anche lei ha ceduto – ma perché?! - non ha intaccato la sua espressività e il monologo finale che pronuncia è straziante, sentito, viscerale. La vera anima del film, però, è la giovane India, interpretata da una Mia Wasikowska in stato di grazia. Una prova da premiare: psicologicamente ed emotivamente carica, complessa, tormentata, che lei personalizza con le sua fattezze da eterna bambina e con uno strano, malizioso candore. I suoi occhi enormi ti spogliano, semplicemente. Un film tesissimo, scandito da omicidi e dal suono sincopato del pianoforte, da fantasie e da eredità tramandate nel sangue. Una pellicola dalla bellezza acerba e assassina. 
 
All'inizio di ogni anno, c'è sempre un autore che, dalle librerie, viene a farci compagnia al cinema: Nicholas Sparks. Dopo aver prestato molteplici volte le sue storie d'amore al grande schermo, a un anno esatto dall'uscita di Ho cercato il tuo nome, l'ho ritrovato per caso con questo Safe Haven, trasposizione del romanzo edito in Italia col titolo Vicino a te non ho paura. I produttori italiani, di solito, non ci mettono mai troppo tempo a riproporre le pellicole “con il macchio Sparks” qui da noi, ma su questo suo ultimo film, uscito negli USA a gennaio con un discreto successo, finora tutto tace. Strano, perché alla regia ritroviamo il buon Lasse Hallmstrom – già regista di Dear John e di altri successi come Chocolat e Hachiko – e perché la trama sintetizza tutti gli elementi proposti nei precedenti film e nei precedenti romanzi dell'autore. Katie è una donna in fuga e in cerca di un nuovo inizio. Un poliziotto la bracca con la stessa determinazione di un segugio e, con un nuovo taglio di capelli e un nuovo nome, la protagonista è in cerca del suo porto sicuro. Il pullman che doveva portarla ad Atalanta, fa sosta in un piccolo ed affascinante villaggio di pescatori e consolidate tradizioni, dove tutti si conoscono, ma dove un viandante stanco è sempre bene accetto, proprio come la calorosa ospitalità del Sud prevede. Katie trova lavoro come cameriera, un piccolo cottage nel bosco, e l'amore di Alex – un giovane vedovo, con due bambini a carico, che gestisce un negozietto d'alimentari affacciato sul mare. Entrambi meritano di amare ancora, entrambi meritano di tornare a vivere. Ma il passato, scopriranno, è una bestia dal quale non si può sfuggire. Solo stando insieme possono sconfiggerlo... Verissimo, lo so. La trama è già sentita, e Sparks non sembra aver rinunciato a quel solito velo di tristezza che è sempre stato proprio delle sue storie. Tra i protagonisti aleggia l'ombra della solita malattia e tra loro e la felicità sono stagliati i soliti ostacoli. Abbiamo la solita cornice suggestiva, accentuata anche da una bella fotografia, i soliti personaggi: più o meno giovani, dal passato complicato, con un nucleo familiare da ricostruire da capo... innamoratissimi. E, sinceramente, questa volta sono perfino troppo belli per essere veri! Tutta questa premessa per dire che, nonostante il solito tutto, come al solito, Nicholas Sparks sa far vibrare le corde giuste. Averci a che fare spesso potrebbe anche venire a noia, ma ritrovarlo ogni tanto fa effettivamente bene. I maestri del thriller hanno le loro regole, lui ha le sue. Sono già consolidate, eppure funzionano: sentimenti grandi fatti di gesti semplici, semplici; niente dichiarazioni eclatanti, niente forzatura da cinema. Parlerei quasi di realismo, se solo la realtà fosse così. Sicurissimo di sé dopo tantissime esperienze con i segreti del cuore e del dramma, Hallmstrom ci mostra paesaggi splendidi, momenti troppo perfetti per essere veri e un intreccio che mescola Via dall'incubo con Ricominciare a vivere. Affiatati, belli e convincenti, nonostante la lieve differenza d'età, Josh Duhamel (Tre all'improvviso) e Julianne Hough (Footloose, Rock of Ages) sono i protagonisti di questa storia. Lui, tra bionde e romanticismo, è sempre a suo agio. Lei, per la prima volta lontana dal musical, mostra che, nonostante la sua avvenenza, sta bene anche in altri contesti, e non solo nelle parate di Barbie in cui, fino a questo momento, l'avevo immaginata. Safe Haven non è nulla di nuovo, ma se avete cali di dolcezza e d'affetto, soprattutto per mezzo di un magico colpo di scena finale, potrebbe fare al caso vostro. Ogni tanto, dobbiamo a noi stessi la visione di questi film. Il nostro cervello, sotto sotto, ci perdonerà: se lo stacchiamo per un'oretta e mezza, anche lui starà meglio. Come noi dopo la visione di Safe Haven

Se vivi negli anni '50 e sei una giovane donna, puoi avere solo un sogno: fare la segretaria. Un lavoro moderno, di grande responsabilità, con l'accesso facile ai pettegolezzi e ai segretucci di tutti, che porta la bionda ed imbranata Rose nello studio dell'autoritario Louis, un capo esigente e normativo, ma che, tuttavia, crede ciecamente in lei. Una convivenza forzata li porterà a vivere sotto lo stesso tempo, la preparazione per un campionato mondiale di dattilografia li renderà sempre più vicini. Professionalmente e sentimentalmente. Le commedie romantiche: come le fanno i francesi, nessuno mai! Tutti pazzi per Rose è un esempio perfetto di garbo, grazia, eleganza, brio. Una fiaba moderna (o quasi) dai color confetto, dal lieto fine assicurato e di una leggerezza che fa star bene al primo sguardo. E' apparentemente semplicissimo, ma non lo è poi tanto. Dietro ogni scena c'è una citazione, dietro ogni vestito o scenario un rimando alto e nostalgico: la bellezza semplice e intramontabile di una Audrey Hepburn, un dosaggio di colori intensi e contrasanti che ricorda Hitchcock, un amore che strizza l'occhio al bellissimo My fair Lady.
Un film d'altri tempi, dunque, scandito dal ticchettio dei tasti di una macchina da scrivere – io le trovo splendide! Devo riesumare quella dei miei della soffitta... -, da risate e sorrisi dolci e dalle prove attoriali di Roman Duris e Déborah François. Il primo – una mascella pronunciata e un sorriso asimmetrico – dopo averci fatto divertire con Il truffacuori e tornare indietro nel tempo con Arsenio Lupin, si conferma uno degli attori d'oltralpe più bravi e versatili. La sua partner, invece, che non avevo mai visto prima sullo schermo, unisce perfettamente un fascino ingenuo e un'imbarazzante sbadataggine in una sceneggiatura che la vuole “principessa” e “sognatrice” della storia. Sarò di parte, ma lo consiglio. Adorabile.

mercoledì 12 giugno 2013

Recensione: Di me diranno che ho ucciso un angelo, di Gisella Laterza

  Ho imparato che gli umani si perdono dappertutto. Alle stazioni dei treni, in mezzo al mare, inseguendo un sogno. Si potrebbero fare delle collane di persone smarrite, collane da mettere al collo di chi sappia prendersi cura di loro.

Titolo: Di me diranno che ho ucciso un angelo
Autrice: Gisella Laterza
Editore: Rizzoli
Numero di pagine: 183
Prezzo: € 15,00
Sinossi: E' quasi l’alba. Aurora, di ritorno da una festa, sta per addormentarsi sul tram che la porta a casa. Forse è stanca e stordita, forse sta solo fantasticando, ma lo sconosciuto che all’improvviso le rivolge la parola ha un fascino così misterioso da non sembrare umano. In un’atmosfera sospesa tra sogno e realtà, Aurora ascolta la sua storia. La storia di un angelo caduto sulla terra per amore di una demone, deciso a compiere un lungo viaggio alla scoperta dei sentimenti umani per divenire mortale. Un’avventura che forse non è soltanto una fiaba, perché raccontare una storia – e ascoltarla – è il primo passo per farla diventare reale.
                                          La recensione
"Prima di imparare a vivere, l'angelo capì che avrebbe dovuto imparare a leggere." 
Nell'attimo sospeso in cui la notte incontra il giorno e la luna il sole, prima che una luce color pesca e lillà rischiari le strade e spenga una ad una le fiammelle dei lampioni di viali e piazze vuote, un'adolescente cerca pace sui seggiolini consunti di un tram che sembra viaggiare verso l'infinito. Non arrivare mai. E' giovane, e quella è la prima volta in cui qualcuno le spezza il cuore. Di quella notte da dimenticare restano giusto il rimmel sbavato, la testa che gira, abiti scomodi e il ricordo di un lui senza nome che l'ha fatta sentire una nullità; morire dentro. Vuole dormire e dimenticare. E' tardi ed i suoi pensieri si scontrano ora contro quell'acuto dolore, ora tornano agli occhi buoni di suo padre e al suo cipiglio severo: è tempo di tornare a casa. Si chiama Aurora, lei: come quella bellissima principessa caduta in un sonno perpetuo. Leggere Di me diranno che ho ucciso un angelo vuol dire spiare sotto le sue palpebre chiuse dolcemente, entrare – senza che se ne accorga – nel cuore di luce del suo sogno incantato. Il romanzo è una voce che risuona in un sogno. E' la voce di un sogno. Di una delicatezza assordante e pura, che infrange i silenzi eterni e i muri di spine. 
In tram, Aurora incontra un angelo caduto: un Peter Pan in cerca della Wendy che lo aiuti con la sua ombra; Pinocchio. Ha bisogno di diventare umano. Ma lui non è un bambino di legno, ma un ragazzo dai lineamenti che sembrano cesellati in un blocco di marmo candido, pulito, perfetto. I suoi capelli sono d'oro puro e i suoi occhi d'ambra sono bellissimi: profondi come l'abisso, scavato dalle Leggi Divine, per separare Bene e Male. Eppure non sono quelli gli occhi di cui ha bisogno. E' venuto sulla terra per diventare un uomo, per imparare l'importanza di un nome, come Romeo, e il mondo di emozioni nascosto dietro la parola amore”. Lui le racconta la sua storia, le suggestive e imperdibili tappe di un pellegrinaggio dell'anima attraverso i lidi più misteriosi della ragione e del cuore. Tutto ha avuto inizio quando la Luna si è innamorata di una stella. E una demone ha cercato l'amore della parte sbagliata del cielo. Lo sguardo dorato di un angelo gentile. "Gli sfiorò il viso e sentì di amarlo come i viaggiatori amano le stelle, con quella forza dolce e misteriosa che unisce due cose che sono, per natura, irrimediabilmente lontane."
E' lui che vuole qualcuno che gli insegli a vivere o è la giovane Aurora che, attraverso quel racconto di amori tristi e impossibili, tragici o a lieto fine, impara a farlo? Gisella Laterza firma un esordio incantevole e complesso. Una versione italiana di Il piccolo Principe, che, tuttavia, parla un linguaggio universale che ogni cuore riesce a comprendere. Una storia spirituale e fiabesca, che sa di filosofia antica, infanzia ed età adulta. Che - vellutata, tenue, dolce – suona come l'amore spiegato da un bambino a un essere senza peccato. Inizialmente, ingannato dal meraviglioso e indimenticabile titolo, pensavo si trattasse di una raccolta di aforismi; di un volume di poesie. Poi, letta la trama, ho pensato subito a un urban fantasy. Una volta strettolo tra le mani e contemplato a lungo quella copertina gotica e magica, ho compreso subito che la verità, per una volta, era esattamente al centro delle due cose: tra l'urban fantasy e la poesia c'è la favola, ed è lì che Aurora e il suo angelo inquieto e romantico vivono sospesi su un cielo di carta. In mezzo alla vita. Tra gli uomini e le donne – ... tante storie da raccontare - di Paola Calvetti, Sara Rattaro, Dorotea De Spirito e del Donato Carrisi di La donna dei fiori di carta.  
Con il tempo che scarseggia sempre di più, in questo periodo, l'ho letto quasi sempre la sera tardi. Non nascondo che il sonno mi è sembrato più dolce, in sua compagnia. La prosa di Gisella culla, accarezza, abbraccia. E finché l'umanità avrà bisogno di un abbraccio, be', questo sarà il libro perfetto. Uno di quelli da salvare in caso di incendio.
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: James Blunt – You're Beautiful 
 

martedì 11 giugno 2013

Il mio ultimo giorno di scuola.

Succede in tutte le commedie americane degne di questo nome. Il senior year - l'ultimo anno di liceo - è accompagnato da tutta una serie di tradizioni che ho sempre adorato e spiato da lontano: il prom, la consegna dei diplomi, un bel discorso finale da pronunciare con i kleenex a portata di mano e la reflex ad immortalare il tutto. Ma questa è la vita, non un nuovo capitolo dell'High School Musical con cui – coraggio, non nascondiamolo! – noi di questa generazione siamo cresciuti. Siamo in Italia. Qui non si fanno balli scolastici, qui non si consegnano diplomi a orgogliosi studenti in toga. Per essere fiscali, qui non siamo nemmeno ancora diplomati! Ma ad abbozzare un discorso ci tenevo. Davvero. A parlare al microfono proprio non mi ci vedo, ma dietro uno schermo tutti siamo più forti. Dietro queste parole scritte su carta nessuno mi vede tremare un po'. 
Non so com'è successo. Una mattina di queste, come al solito, mi sono ritrovato su Facebook senza un perché. Anzi, forse lo so: scommetto di aver aperto il portatile, con gli appunti di latino o filosofia accanto, in cerca di qualche strano paradigma o di un'anima buona che sapesse trovare un senso alle tonnellate di assurdità messe per iscritto da quel pazzoide di Kierkegaard. Al posto di googlare qualcosa di intellettualmente edificante – perché sì, ho un'esame da preparare! - ho inserito password e email e il Social Network più famoso del mondo mi ha dato il benvenuto, su una home zeppa di foto di tizi sconosciuti al mare, di frasi scritte per darsi arie da colti, di canzoni estive e trailer di film che ho già visto in streaming. Senza un perché, sono finito sul mio profilo e, andando a ritroso, ho cliccato sulle prime foto postate lì, nel lontano 2008. Il mouse mi ha connesso a un passato di cui mi vergogno sempre un po' e mi sono ritrovato a fissare il me di cinque anni fa: mmm... Madre Natura ha uno strano senso dell'umorismo, eh. Stronza proprio!
All'epoca, diciamolo pure, aspettavo che si decidesse a darmi sembianze vagamente umane. Nonostante abbia sempre qualche parola cattiva più che me che per gli altri, questa volta, guardando quel ragazzotto schivo e robusto che aveva superato indenne o quasi le bolge infernali delle scuole medie – guardandomi –, ho sentito abbattersi su di me una valanga di malinconia. Ma non di rimpianto. Ho sorriso all'altro me che, dietro lo schermo, sorrideva; poi ho provato il gran bisogno di piangere, e chiudermi in casa, e piangere ancora. Un sorriso e una lacrima per tutti i giorni passati, per tutte le incazzature e i drammi, per tutte le fantastiche persone strette accanto a me in quella foto di gruppo sgranata. E pensare che io il Classico non lo volevo nemmeno fare più. 
Ogni volta che mettevo piede in quella scuola sembravo braccato dalla nuvola nera di quello sfigato di Fantozzi. Fuori cantavano gli uccellini e brillava il sole, poi, una volta sull'uscio, cominciava a diluviare. Brutto segno. Indovinate il primo giorno di liceo? Già: pioveva. Sono arrivato all'ingresso bagnato fradicio e quei bei capelli, che avevo aggiustato e riaggiustato con una dozzina di vasetti di gel, gocciolavano acqua come un'ala ormai affondata del Titanic.
Mi ero fatto una videoteca di film mentali, un mare di problemi: il latino (i prof pazzi!), il greco (… altri prof pazzi!), la filosofia (… altri prof pazzi ancora!). Avevo fatto i conti con tutti, ma non con le persone con cui – per i futuri cinque anni – avrei convissuto. Nonostante fosse l'ultimo dei miei pensieri, è l'amicizia che ho trovato. E perfino il ginnasio – palestra della mente o emerita ruttura di coglioni? - non mi è sembrato così infernale vissuto al vostro fianco. Noi, giovani condannati senza colpe: schiacciati dal peso del Gi, braccati dalle mille difficoltà del greco. Ricordo la prima gita, in Gregia, e quelle che sono venute dopo: bagnati fradici a Mirabiliandia dopo un acquazzone improvviso, sotto il sole caldo delle Isole Tremiti, a sorridere tutti insieme in una foto di gruppo scattata sulle scalinate del Parco Guell. Mi avete tutti lasciato qualcosa e quello che sono lo devo anche a voi. Cinque anni non li ho mai passati con nessuna classe, a pensarci bene: tre anni di elementari fatti a Palermo, gli ultimi due qui, il periodo delle medie da mettere al rogo, poi è arrivato il Liceo. Tutti dicevano sarebbero stati gli anni più belli di sempre, e lo sono stati. Ci siamo urlati addosso, sporcati le magliette con lacrime versate per un brutto voto o per una fragilità incrinata da una cattiva parola, ci siamo odiati e voluti bene, sopportati, sparlati a vicenda, confortati, irreversibilmente cambiati. Nell'ultimo periodo, con una tensione psicologica alle stelle, voi – III A – avete risvegliato la furia omicida che è in me. Mi è venuta, di tanto in tanto, la voglia idiota di trucidarvi dopo un'interrogazione rimandata, un'assenza strategica, una lite senza senso, ma adesso, sebbene voglia ancora stritolarvi, è solo per abbracciarvi tutti. Lo giuro. Per stringervi un'altra volta, sperando con tutto il cuore che non sia l'ultima. La verità è una sola: se la vita fosse un eterno ritorno e quello psicopatico di Nietzsche avesse ragione, be', io rifarei tutto da capo. Rivivrei tutto di nuovo. Uragano “Concetta” compreso. La campanella – alle 10:00 di oggi, 11 Giugno – è suonata una volta ancora. E' stata l'ultima per noi maturandi, che, tante volte, quel suono l'abbiamo atteso e desiderato come l'acqua in un deserto. Per sfuggire alla noia e alla interrogazioni, per tornare a casa attraverso una strada percorsa ogni mattina per tanti anni. Ci sono stati un paio di occhi lucidi, lunghi e familiari abbracci, ma nessun conto alla rovescia. Uno spumante stappato più per tradizione che per festeggiare qualcosa. Pensavamo che la fine della scuola ci avrebbe reso liberi – nel caso di noi maturandi, liberi soltanto di studiare per gli esami, eh – ma, invece, eravamo tutti prigionieri della malinconia. Tutti proiettati a quel giorno di pioggia di cinque anni prima.
Il mio ultimo giorno di scuola non è stato innaffiato da lacrime, ma da tanti sorrisi venati di leggera tristezza, mentre, in sottofondo, una chitarra suonava La canzone del sole, L'essenziale, 50 Special e noi ci univamo in un coro stonato, ma ugualmente bellissimo. Come noi, infiniti come il titolo di quel bel film. Perché quando sono con voi, infondo, sono felice. Voi mi fate stare bene. Ed è per questo che mi auguro che non ci perderemo mai. Adesso, su, tutti a studiare!  
Vi voglio bene, Michele.

lunedì 10 giugno 2013

Recensione: Un'amicizia pericolosa, di Suzanne Rindell

Ciao a tutti, amici, e buon inizio di settimana! Tutto bene? Dopo qualche giorno di assenza, colgo l'occasione per condividere con voi la recensione di un romanzo di recente uscita, edito dalla Nord, che ringrazio tanto per avermi gentilmente dato modo di leggerlo. Parlo di Un'amicizia pericolosa, un raffinato e seducente noir ambientato negli anni '20 e caratterizzato, nell'edizione italiana, da una copertina elegantissima e semplicemente meravigliosa: perfetta, davvero. La fotografia – che ha in primo piano una bellissima modella che mi ricorda vagamente Emma Stone – è di Natalia Ilina e, nella recensione, troverete altre due foto tratte da un suo set fotografico. Abbracciandovi dal primo all'ultimo, vi auguro una buona lettura. 
Entrò a passi lenti, con estrema calma, ma io capii subito di avere davanti l'occhio del ciclone. Quella donna era il cupo epicentro di un evento che ancora ci era oscuro, il rovinoso luogo in cui il caldo e il freddo si fondono. In quell'istante capii che tutto, attorno a lei, sarebbe cambiato.

Titolo: Un'amicizia pericolosa
Autore: Suzanne Rindell
Editore: Nord
Numero di pagine: 358
Prezzo: € 17,60
Data di pubblicazione: 6 Giugno 2013
Sinossi: Odalie... Quella mattina del 1924, quando si è seduta alla scrivania accanto alla mia, avrei dovuto capire che avrebbe sconvolto la mia vita. Già da due anni lavoravo come dattilografa alla centrale di polizia di Manhattan e conducevo una vita tranquilla, ordinaria. Ero una ragazza all'antica: sebbene intorno a me il mondo stesse cambiando, non avevo mai nemmeno pensato di tagliarmi i capelli o d'iniziare a fumare. Poi è arrivata Odalie. Il suo caschetto nero, i suoi vestiti eleganti, la disinvoltura con cui teneva la sigaretta... Odalie era così spregiudicata, così sicura, così moderna. In quei giorni, mi sono resa conto che volevo essere come lei e che avrei fatto qualsiasi cosa per riuscirci. Per questo ho accettato di trasferirmi nel suo lussuoso appartamento e l'ho accompagnata alle feste dove si beveva champagne e si ballava fino all'alba al ritmo della musica jazz. E per questo non ho detto nulla quando mi sono accorta che aveva falsificato alcuni rapporti di polizia. Volevo proteggerla. Non potevo immaginare che mi stesse semplicemente usando. Che mi stesse mentendo. Come avrei potuto? Odalie era più di un'amica per me. Era il mio ideale di donna. E invece lei stava architettando la mia rovina...
                                                    La recensione
E' in una stazione di polizia, tra fumi di sigaretta, scaroffie disordinate e il rumore sincopato dei tasti di una macchina da scrivere, che ha inizio questa storia. Una storia di donne che comincia in un ambiente di soli uomini, un tango in cui a condurre – in una sala da ballo che ha i mille specchi di una stanza degli interrogatori – è una lei. Odalie. Un'amicizia pericolosa è la storia di un'ossessione che brucia l'anima, che distrugge senza costruire. Un gioco letale che - tra intrighi di collane e nastri, tra ombre di rossetto, sangue che ricorda vino rosso e vino rosso che ricorda sangue - solo una donna avrebbe potuto condurre. La prima volta in cui mette piede sul suo nuovo posto di lavoro, una fiumana umana di sguardi invidiosi, esterreffatti o incantati si tende verso Odalie. E' bella come un miraggio. Occhi azzurri da gatta, labbra scarlatte, una sigaretta tra le unghia smaltate, gioielli costosi, capelli corvini e un taglio che subito fa discutere: un caschetto netto, affilato come lo sono il suo sguardo audace e il suo umorismo pungente. Sfrontata. Moderna. Femmina. La sua risata è musica, l'incedere sinuoso dei suoi tacchi alti non è adatto ai deboli di cuore. Ha il potere di farti sentire un miracolato, se ricambia il tuo sorriso. Scambiando futili chiacchiere, pettegolezzi, presunti ricordi, ti fa sognare e struggere: vorresti vivere la sua vita eccitante ed ebbra, vedere New York attraverso la cortina vellutata delle sue lunghe ciglia scure. Prima di incontrarla, Rose era una persona buona. Lavorava come stenografa per la polizia, tutt'uno con la sua moderna macchina da scrivere e con i casi di omicidio e frode che, per un dignitoso stipendio, era tenuta ad annotare con gesti meticolosi e ripetuti. 
Orfana e cresciuta dalla religiosità asfissiante di suore arcigne e normative, vive un'infatuazione segreta e un po' infantile per il suo datore di lavoro e, cinica sognatrice, confida nell'arrivo di un elettrizzante terremoto emotivo che le spazzi via la polvera da una vita che, come il suo look démodé, sa già di vecchio. Ma, da quando Odalie le ha concesso il primo occhiolino complice, nulla è stato più come prima. Rose ha abbandonato su due piedi la sua squallida stanza in affitto per un appartamento dalla vista mozzafiato e dagli armadi forniti come quelli di una boutique di grandi marche. Ha trascurato il suo lavoro per imbucarsi a festini clandestini e a brunch che durano fino all'alba del giorno dopo. Ha perso la lucidità in calici di raffinato champagne. 
E la testa nell'arte di essere come Odalie, forse solo per comprenderla di più. Lei, che è il suo più grande tormento. Il suo finale triste. La sua migliore amica: l'unica che abbia mai avuto. Batto sui tasti del portatile e, contagiato dallo splendore sfiorito degli anni ruggenti, immagino di avere davanti a me una macchina da scrivere d'altri tempi. I più grandi scrittori hanno affidato ad esse i loro capolavori e gli scandali più torbidi sono stati custoditi lì, poi sputati sulla carta, poi dati in pasto alla stampa. A romanzo ultimato, immagino di raccogliere la deposizione di Rose al banco degli imputati. Tutti ascoltano affascinati e curiosi, tutti fumano, tutti aguzzano le orecchie per avere i dettagli di una relazione considerata scandalosa. Nel suo racconto c'è gelosia, ambiguità, mania. In quegli stessi anni, in Italia, Italo Svevo pubblicava La coscienza di Zeno. Questa storia, invece, dovrebbe intitolarsi L'incoscienza di Rose. Il primo era il diario interiore di un bugiardo patologico, questa è la ricostruzione, invece, di una narratrice inaffidabile che parla dell'amicizia assassina che l'ha resa dipendente di una droga chiamata Odalie. Cieca davanti all'evidenza. In maniera superba, rievoca il meglio e il peggio di quegli ipocriti anni che eppure adoro così tanto e, attraverso un drappo di mistero e luci che sfavillano in mezzo ad intere cortine di fumo, ritaglia la figura di una femme fatale che sorride amabilmente, balla il charleston, manipola, uccide, conquista. La sua inseparabile Odalie è un dubbio ossessionante che seduce lei e il lettore dall'inizio alla fine. Come Salomè, sarebbe in grado di chiedere il mondo su un piatto d'argento. O la testa di un suo rivale. E, puntualmente, sarebbe in grado di riceverli. La sua femminilità è potere e il suo sguardo penetrante è la chiave che apre tutte le porte. Di Paradiso o Inferno. Rose è Nick Carraway, in viaggio nel lato selvaggio. Odalie – che è uno, nessuno e centomila – è Jay Gatsby: l'incarnazione al femminile degli anni '20. 
Un bellissimo falso d'autore. Il suo mondo luccica di diamanti e stelle, scivola sul pavimento di una balera e sul fondo di un liquore di contrabbando, sorride nascondendo abilmente una carie grande quanto una voragine, si finge spensierato e felice quando una crisi economica peggiore della nostra è in agguato a Wall Street. Confessa la verità e ritratta. Smentisce e si contraddice. Era come se fossimo usciti dalla guerra stanchi di vivere, ma nel contempo avessimo fatto un salto di generazione, simulando una gioventù virginale. In breve, giunsi alla conclusione che eravamo un mucchio d'impostori. Suzanne Rindell, autrice eccellente e padrona delle regole del gioco, firma un esordio impeccabile, che può vantare due protagoniste uniche e uno stile pieno, curato, che odora di vero, gin e menzogne. Ha poche carte, quasi sempre le stesse, ma conosce l'arte di dissimulare e i segreti oscuri della persuasione. Il suo modo di fotografare quegli anni è sublime e personalissimo. Le sue frasi sono fotografie in bianco e nero che provengono direttamente da quegli anni lontani; la sua storia è una lenta e torrida escalation che, al ritmo del jazz di Chicago, danza dietro le sbarre, tra lo charme immortale dei classici di Hitchcock e l'erotismo evanescente e malsano dei conturbanti noir di Brian De Palma. Quelle atmosfere splendidamente descritte e i misteri foschi e sfrenati creano un labirinto d'inganni e doppi giochi. Un reticolo prezioso che, ai polsi, ti fa trovare manette tempestate di diamanti e, al collo, collier tanto stratti da metterti a tacere per ora e per sempre. Un'amicizia pericolosa è la menzogna divenuta arte. 
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Death in Vegas - Dirge