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Insegnami la tempesta, di Emanuela Canepa. Einaudi, € 17,50,
pp. 240 |
Basta
un esordio bellissimo per trasformare il ritorno in libreria di un
autore in una festa grande. Dopo la folgorazione che fu L’animale femmina, opera prima ambigua e seducente con un punto di vista
spiazzante sui ruoli di potere e le rivalse post metoo, di
Emanuela Canepa avrei letto tutto e subito. A scatola chiusa.
Attratto dal titolo e dalla copertina, ma soprattutto dal suo nome
scritto in cima in grassetto, mi sono buttato su Insegnami la
tempesta senza informarmi. Quella storia senz’altro più
convenzionale – di madri e figlie, di amicizie tramontante, di
amori e dissapori: con il senno di poi ho pensato a Simona Sparaco e
Sara Rattaro – avrebbe avuto la mia attenzione altrimenti? Non
credo. E onestamente non ne avrei sentito la mancanza, aspettandomi
da questo ritorno attesissimo qualcos’altro; qualcosa di più.
Diversa dal previsto, è una lettura che saprei bene a chi
consigliare ma che personalmente non mi ha mai coinvolto. Si può
parlare di delusione – la prima dell’anno –, o forse sono io in
difetto, dal momento che in duecento pagine non mi sono abituato al
cambiamento di tono dell’autrice?
Lo
so che è un’adolescente, ma lo è anche per te, invece vi vedo
sempre insieme. O l’adolescenza è una condanna che devono scontare
solo le madri?
Le
incandescenti atmosfere teatrali dell’esordio lasciano spazio alle
incomprensioni di una casa medio-borghese al centro di Roma.
Palcoscenico di litigi e musi lunghi, l’appartamento sembra
all’improvviso troppo piccolo per una coppia consolidata e una
figlia adolescente. Come ripararsi dall’ostilità di una
diciottenne altera e indipendente, che già si sente troppo adulta
per avere bisogno di mamma? Se lo chiede Emma, che per la figlia
Matilde – avuta prima di finire l’università – ha rinunciato a
tutto. Si tratta di piccoli screzi: un taglio di capelli fatto senza
avvisare, un Capodanno passato in montagna con i compagni di scuola,
l’annuncio di un viaggio in estate. Perché quell’irruenza nel
volere abbandonare tanto presto il nido? Perché la preferenza verso
il dolcissimo Fausto, che l’ha cresciuta con devozione ma in realtà
non è neppure il padre biologico? Istitutrice dal pugno di ferro più
che madre, Emma è un personaggio di rara antipatia. Sarà che sono
figlio, non genitore. Sarà che ho ben compreso (in parte) il gesto
di Matilde, che a un certo punto – in seguito a una rivelazione che
non vi svelo – scappa a gambe levate e si rifugia nella pace di un
convento. A fare da vice badessa, e da collante, in quell’ambiente
fatto di mantelli candidi e litanie sommesse c’è Irene: vecchia
conoscente di Emma, nota un tempo per il carattere ardimentoso, ha
scelto il chiostro con sommo disappunto dell’amica. Una forma di
libertà estrema, incomprensibile a molti, che somiglia a una forma
di prigionia. A questo punto lo svolgimento sembra chiaro: attendere
l’arrivo della protagonista in un ambiente quieto, in territorio
neutrale, per confrontarsi, ricordare, e magari accettare la crescita
e la sessualità di Matilde. L’amara constatazione che, volente o
nolente, il prossimo anno andrà lontano.
Può
esserci amore anche nella furia. Può esserci amore nella distanza.
Peccato
che quella in convento sarà una tappa fugace e che le tre donne non
interagiranno mai contemporaneamente. Giunta Emma, sua figlia prende
un treno per Cesena per visitare il campus universitario. Perché
allora rivolgersi brevemente a Irene, sconosciuta di cui ha sentito
parlare solo in un’isolata occasione, pochi giorni prima? Perché
ricercare le radici di un’amicizia interrotta – appena accennata
per altro – per poi costringere la genitrice all’ansia e il
lettore a un lungo andirivieni in treno? Perché fare di Irene una
suora di clausura, e non un’insegnante, una sarta, un’elettricista?
Se da un lato la donna è il motore della narrazione, a ben vedere un
po’ forzato, dall’altro la vicenda avrebbe avuto tranquillamente
lo stesso esito togliendola dal triangolo. A mio avviso, infatti, il
miracolo dell’eventuale riconciliazione non dipende da lei. Emma,
all’inizio così irritante, finisce allora per essere il
personaggio più umano e coerente.
Raffinata e minimalista, l’autrice conferma ancora una volta la sua abilità: fa parlare più i gesti che i dialoghi; ama gli scandagliamenti psicologici a tappeto e i personaggi asprigni, in lotta con sé stessi. Il problema è stato fare i conti con la mancata tempesta del titolo, bellissimo e fuorviante. Con la bonaccia di una storia che altrove già miete approvazioni – e sono felice per Emanuela – ma che non mi ha affatto appassionato. In fondo sono atti di fede: la clausura, l’amicizia, il matrimonio, i figli, e perfino secondi romanzi da cui non si sa mai bene cosa aspettarsi. Evidentemente scettico, questa volta non ci ho creduto.
Raffinata e minimalista, l’autrice conferma ancora una volta la sua abilità: fa parlare più i gesti che i dialoghi; ama gli scandagliamenti psicologici a tappeto e i personaggi asprigni, in lotta con sé stessi. Il problema è stato fare i conti con la mancata tempesta del titolo, bellissimo e fuorviante. Con la bonaccia di una storia che altrove già miete approvazioni – e sono felice per Emanuela – ma che non mi ha affatto appassionato. In fondo sono atti di fede: la clausura, l’amicizia, il matrimonio, i figli, e perfino secondi romanzi da cui non si sa mai bene cosa aspettarsi. Evidentemente scettico, questa volta non ci ho creduto.
Il
mio voto: ★★½
Il
mio consiglio musicale: Arisa – Controvento