Jennifer Lawrence e Bradley Cooper, stavolta strizzati in abiti demodè, hanno girato tre film insieme. Sono bravi; si portano fortuna. Ma le loro storie non filano sempre liscie, come nel caso di Leo e Kate, ma guai a paragonarmeli: in Una folle passione non si sa bene cosa capiti loro, ma comunque non se la passano benissimo. Lui le ha promesso fedeltà eterna; ma cosa succede però quando una donna perde ciò che la rende donna e sulla coppia cala la gelosia? I critici già mi avevano messo in guarda, e non posso che concordare coi loro giudizi su questo melodrammone evitabile, scolastico, che non ha un vero perché. Guardarlo non è una sofferenza, ma dove lo colloco? Non di certo nella filmografia di Susanne Bier, che lascia la sua Danimarca per un'avventura che non soddisfa. Dal suo nuovo viaggio a Hollywood ci manda una suggestiva cartolina, con un pensierino elementare scritto dietro. Una trama con svolte quasi illogiche, una storia di pazzia che lascia indifferenti. La Lawrence, eroina tragica, è intensa, ma ricicla qualche scenata della Tiffany che le valse un'immeritata statuetta e con il caschetto biondo perde fascino. La macchina da presa la adora e i primi piani dei suoi occhi disperati ipnotizzano. Bradley Cooper è credibile, ma lontano dal suo meglio. Pensavo di guardare l'ultimo film della Bier e mi sono imbattuto in un incrocio discutibile tra Il segreto e una fiction Rai. Ho sentito per tutto il tempo la mancanza di Beppe Fiorello e di Vittoria Puccini: dove stanno quando servono? (4,5)
Non mi è mai capitato di essere in attesa di un film italiano. Però con Noi e la Giulia è stato diverso. Avevo letto il romanzo e sapevo che la storia di Bartolomei meritava: l'avventura dei quattro perdenti che sfidavano la camorra sarebbe diventata una semplice barzelletta? Il sospetto che potessero semplificare tutto, in una trasposizione frettolosa e godereccia, in realtà non lo nutrivo: mi fidavo di Leo e sapevo che, sveglio, non avrebbe toppato. Ho notato che la sua regia si è affinata e che circondato da un manipolo nutrito di attori – sempre i soliti, ma sono convincenti: accontentiamoci – fa bene. Mette a punto qualche modifica, guida l'intera squadra con polso fermo e interpreta il coatto Fausto. A volte, sono vere e proprie migliorie quelle che apporta: il personaggio di Elisa, interpretato da Anna Foglieta, mi è piaciuto di più. Perché la Foglietta ha portato il suo pancione sul set e ha caratterizzato a modo suo un comprimario irrisolto; misterioso, forse, come sono le donne. Divertenti Fresi e Amendola; magnifico Buccirosso; buon padrone di casa un Luca Argentero mai impreparato. Il mio punto di vista, quindi, è quello del lettore che ha trovato una prima parte fedelissima e una seconda alleggerita dei temi che mi avevano scosso: eppure si riempiono così due ore, senza annoiare, ma senza esplorare gli aspetti più necessari. Qualcosa di importante manca, ma non avrei saputo come farle spazio, senza appesantire una produzione che risente di qualche dilungaggine. Si ride con leggerezza, ma è onnipresente il retrogusto amaro; e si pensa, soprattutto, in quell'epilogo emozionante e aperto, che è esattamente come lo avevo immaginato. Insomma: la mia preoccupazione è che questa commedia come tante e come nessuna – il "canovaccio" esisteva ben prima dei più spigliati Smetto quando voglio e Song'e Napule - in realtà, possa risultare più ricca e raffinata del previsto: la ciccia al fuoco è tanta, e sarà carne, pesce o nessuna delle due? (6,5)
Nonostante il sangue non mi turbi, cresciuto da un papà che ama Fulci, Argento e gli horror vintage, la visione di Big Bad Wolves l'avevo rimanda più volte. Mi fidavo di Tarantino, ma piuttosto non mi fidavo dei miei nervi. Se da una parte l'idea della vendetta non mi rovina il sonno, dall'altra il tema della pedofilia sì che dà gli incubi. Brutto pensarci, brutto assistervi, soprattutto se quel crimine contro l'umanità è mostrato nella maniera più cruda: certe cose non andrebbero indagate a fondo, tanto mostruose sono. Conoscendo la trama, temevo che quello che avrei visto mi avrebbe roso il fegato. Un genitore e un poliziotto che, in un sottoscala, in piena campagna, torturano un maestro di scuola. Un sospettato omicida di bambine. La partentesi delle torture occupa in realtà solo l'ultima mezz'ora. Per il resto, è una sorpresa. A parte che l'inizio, memorabile, ha del miracoloso, ma poi – tra il ritrovamento del cadavere straziato e il rapimento del presunto killer – si snoda un'indagine sui generis, grottesca e arguta, che ha l'umorismo assurdo degli horror importati dalla sperduta Nuova Zelanda o da quella Spagna famosa giusto per la sangria, unito al ritmo ballerino dei polizieschi d'oltralpe. Tutt'altro che oscuro e ermetico, Big Bad Wolves ha una fotografia precisa e scenette indecorosamente comiche, insieme a una violenza copiosa ma intelligente e a una resa che fa invidia agli americani. Internazionale ma con un'impronta solo sua, la commedia istraeliana nero petrolio che ha conquistato anche Hollywood si sottrae alle definizioni nette, coinvolge e sconvolge, sapendo saggiamente quando fermarsi, per lasciare che i tagli del montaggio glissino sull'abuso e per far sì che una fantasia assassina galoppi per conto proprio, nei terreni dell'anarchia, fantasticando su delitti e castighi. Spietato, cattivo, spassoso, è una punizione perfetta che lascia lo spettatore soddisfatto e gli aguzzini della pellicola in preda al dubbio. (7,5)
Jason Reitman ci aveva abituati a commedie col dente avvelenato, ma già col malinconico Labor Day sembra volere indagare nuove tematiche. Ha una bella sensibilità, davvero. Perciò mi fa strano sapere che il suo Men Women & Children, non totalmente riuscito, ma notevole, arriverà da noi in homevideo. Passando inosservato. Dura due ore che scorrono senza mai pesarti addosso e l'abilità di coinvolgerti con storie che si incontrano senza mai incastrarsi. Il poster originale rende bene l'idea. Un marito e una moglie che colmano con amanti occasionali la loro infelicità; un adolescente che, abituato agli standard del porno, non riesce ad eccitarsi con una ragazza vera; la quindicenne che non mangia, quella che mangia gli uomini, la mamma che è andata via e quella che mette online le foto sexy della figlia. Poi, al centro, nell'indifferenza della folla, due ragazzini che si abbracciano: un rapporto finalmente sano che l'anonimato di internet tenterà di corrompere. Sono gli adulti che sbagliano e i ragazzi a darci lezioni di vita; quelle con il famoso istinto materno ad abbandonarti e i giochi di ruolo ad alienarti. Riflessioni sparse, dunque: le solite ma necessarie al solito; un'ottima squadra di protagonisti, tra i quali spiccanno un serio Adam Sandler; Judy Greer e Jennifer Garner, nei panni di due donne agli antipodi ma spregevoli ugualmente; l'intenso Ansel Elgort di Colpa delle stelle, che vi avevo detto nel mio "classificone" di fine anno fosse da tenere d'occhio e così è. I personaggi non riescono ad andare oltre il proprio naso o al di là dello schermo dei loro cellulari: chiusi in una solitudine che gela, camminano nello spazio di mondo che riescono ad illuminare – non con i lanternini di Pirandello, ma con le applicazioni per iPhone – inconsapevoli che, accanto, ci sia l'altro: alle prese con la stessa ricerca, a un passo da loro. Se non piace del tutto, forse è perché qualche tematica risulta superflua e perché qualcosa di assai simile ci era stato raccontato in Disconnect, ma colori più accesi e vicende comuni giovano, insieme a un cast ricco e a una voce narrante aliena che ci parla dallo spazio di noi, delle nostre mancanze, delle nostre dipendenze irrinunciabili d'affetto. (7)
Ben e George vivono insieme da quarant'anni e si amano come due ragazzini. Anziani, decidono di convolare a nozze. Ricorderanno quello come uno dei giorni più felici: i parenti, il fiore all'occhiello, un candore che stringe il cuore, soprattutto in un Paese – il nostro – che va allo sfascio, ma il pensiero continua a ruotare intorno al superfluo. Ci si domanda a voce alta cosa rende una famiglia normale e cosa no, quando invece la risposta è semplice. Al contario di ciò che dice il titolo, l'amore tra questi uomini in là con gli anni è tante cose, ma strano mai. Uno è un artista, l'altro è insegnante di musica in una scuola cattolica: la religione si mette in mezzo e anche se tutti, alunni e docenti, conoscono da sempre il legame tra Ben e George, quel matrimonio sfacciato appare troppo. Licenziato su due piedi, a sessant'anni si deve reinventare dal niente; rinunciare alla casa condivisa col marito e andare in cerca di un piano b. Nel frattempo, ospiti chi da un nipote e chi da una giovane coppia, i due vivono con malinconia e sofferenza i giorni della loro lontananza. Ira Sachs crea una perla che diverte e intenerisce; mai superflua. Una metropoli dai tratti alleniani, coi taxi gialli e la vita sbirciata da un tetto, fa da pulsante sfondo a una luna di miele mancata, in cui il miracolo dell'accettazione dell'altro si unisce a una scrittura dalla grazia emozionante che mette sul piatto della bilancia una famiglia tradizionale e una un po' meno, per vedere che quei cuori e quelle storie hanno lo stesso peso specifico. Il pianoforte ci accompagna per tutto il tempo, insieme all'idea che una coppia omosessuale che convive con la crisi economica, i cuori fragili e i corpi cascanti, raramente – mi viene in mente giusto Vicious – ci è stata mostrata, come se costanza e fedeltà non fossero contemplate in un rapporto forse diverso, ma profondissimo. Applausi per John Lithgow e Alfred Molina, familiari come due nonnini; puliti e dolci come Neil Patrick Harris e consorte che, sul Red Carpet, si sistemavano il papillon a vicenda. E l'amore è pure questo. E per fortuna ci viene mostrato come si deve, con garbo, leggerezza e un finale un po' poetico. (7)