La
HBO non sbaglia mai. Spara e, a colpo sicuro, centra il bersaglio.
Quei rari film all'anno che produce sono eventi. Fanno parlare, si
lasciano amare, si fanno guardare. L'anno scorso, Behind
The Candelabra
aveva superato i confini del piccolo schermo: era arrivato nei
cinema. Spero, in tutta sincerità, cheThe
Normal Heart abbia
la stessa sorte. Lo meriterebbe. Dopo delusioni (in)dimenticabili,
Ryan Murphy torna a posizionarsi dove sta meglio. Nelle preziose
retrovie della macchina da presa. Ci racconta l'avvento dell'Aids,
all'ombra della rivoluzione sessuale: una parata, sguaita e volgare
sulle note dei Village People, che ha il fervore e la follia che
caratterizza tutte le cose che si fanno in segreto e poi esplodono
per far baccano. Ogni giorno è festa. Senza freni, senza limiti,
senza protezioni. I protagonisti vivono al centro di una parentesi
color arcobaleno che non conosce scadenza. Lontani da genitori che
ignorano le loro tendenze, dai pregiudizi, rintanati in doppie vite
indegne e in lussuriose isole a tema. Il pericolo arriva come in un
film dell'orrore. Un contagio che trasforma tutti in zombie, i cuori
in poltiglia, i corpi in scheletri. Si muore in ospedali che, da un
giorno all'altro, diventano troppo pieni. Di uomi in frantumi che si
tengono per mano. Di mascherine per prevenire la diffusione, e vassoi
che nessuno consegna, e cibo che nessuno mangia. Mentre l'America si
volta dall'altra parte per non guardare, ha inizio una battaglia che
prende di mira il mondo della politica; la sanità, la scienza. A
capitanarla, uno scrittore che ha la sfortuna e la fortuna di trovare
la persona della sua vita in un mondo di sangue infetto. Al centro di
un pandemonio in cui tutti spingono, piangono, si lasciano morire.
Quando Ned s'innamora di Felix la battaglia diventa guerra. Trovare
un vaccino per il virus diventa questione di vita e di morte. Un
fatto personale. Perché non può lasciarlo andare: non adesso.
Crudo, coraggioso, emozionante, di televisivo non ha nulla. Completo.
Alla base, una pièce teatrale che, ormai, ha lunga vita: dialoghi
lunghi e inattaccabili, script soldissimo, attori – dal più
piccolo al più grande – destinati a momenti di virtuosismo
formidabili. La storia cattura più di quanto facesse quella del
troppo lucido Dallas
Buyers Club.
Qui si gioca con la commozione, si ci intrattiene con personaggi di
un'umanità immensa e calati in uno scenario tristemente realistico,
si parla del tentativo di costruire una relazione sana in un campo di
granate inesplose. Moralmente impegnato, politicamente schierato, il
film a volte è come il suo protagonista. Scontroso, senza mezze
misure. Un filo dell'alta tensione. Il successo è nel cast. Una
Julia Roberts combattiva e feroce, bloccata su una sedia a rotelle e
sulla soglia di cinquant'anni che mettono in mostra tutte le sue
fantastiche rughe d'espressione; un Mark Ruffalo – protagonista
eccelso – da applausi, e destinato ad exploit terrificanti.
Negargli una statuetta, un crimine contro l'umanità. L'elemento più
debole, il Jim Parson di Big
Bang Theory:
forzato, innaturale. Illuminante Matt Bomer: struggente nella seconda
parte, insieme a un generoso Ruffalo che gli infonde un po' della sua
luce. Lo travolge con il suo talento; lo bersaglia di buste di latte,
frutti, pane integrale, pasticche, per convincerlo a mangiare. Fino a
questo momento, della star di White
Collar
avevo colto solo una cosa. La più lampante. Matt Bomer è bello, e
di quella bellezza che distrae e mette in imbarazzo. Gli altri e sé
stessi. Sulla scia di Jared Leto, abbandona quello che più lo
limita: il suo corpo. Ho capito quanto bravo fosse quando ha fatto
sua la sofferenza di Felix. Con venti chili di meno, la pelle che
cadeva a scaglie, una fisicità - un tempo perfetta - alla deriva. Le
trasformazioni impressionano, la sua non fa eccezione. Saperlo
omosessuale, sposato, padre di due bambini, rende la finzione meno
fasulla: la sua prova più viscerale ancora. Ci sono due scene di
nudo che lo vedono coinvolto. Nella prima, sembra una statua; nella
seconda, con la pelle ricoperta di macchie e il corpo che si
accartoccia sotto l'acqua della doccia, mentre Ned tenta di tirarlo
su, dopo aver ripulito il suo corpo rachitico dai liquidi corporei
che non riesce più a trattenere, viene naturarle distogliere lo
sguardo. Le due immagini – simmetricamente opposte – spiegano più
delle parole cosa voleva dire ammalarsi. The
Normal Heart,
schietto, racconta
cos'era l'hiv e chi era a venirne ammazzato. Ma non come farebbe un
impersonale servizio giornalistico; semplicemente, come farebbe un
bel film, con la scrittura dinamica e i momenti drammatici di un
romanzo che annichilisce tanto che è intenso. Vedi le facce e
conosci le piaghe di personaggi che diventano il paradigma di una
generazione. Il sipario, puntuale, arriva dopo centoventi minuti e si
chiude su una scena toccante e significativa come poche: una promessa
senza preti, carte, avvocati. Same Love. Ai prossimi Golden Globe, immagino di
conoscere già in anticipo uno dei grandiosi titoli che saranno in
lizza. (8,5)
Dramma
in salsa adolescenziale poco malvagio. Lei ricca, lui povero.
Insieme, belli come il sole ad agosto. Prima dei vari Moccia, c'era Un amore senza
fine. L'adolescenza si ballava e si cantava, gli amori
impossibili erano il top, i padri che si opponevano agli appuntamenti
con i “bad boys” erano all'ordine del giorno. L'etichetta new
adult non esisteva. L'Endless Love di Zeffirelli doveva essere
bruttissimo! Questo, arrivato la bellezza di 33 anni dopo, non lo è
poi tanto. La prima parte del remake di Endless Love è la più
carina. La seconda vira spesso verso il melodramma, facendo
aggrottare fronti e storcere nasi. Questo 2014, orfano di uno dei
film sentimentali targati Nicholas Sparks, ci prova ugualmente, e a
colpo sicuro, con Shana Feste alla regia. Con uno script poco
impegnativo per le mani, lei lavora con quel che ha. Convincono due
vecchie stelle nel ruolo dei genitori di lei e, per il resto, si
punta sui protagonisti. Alex Pettyfer è sicuro, padrone della scena,
a suo agio. Guida, tenendola per mano, la collega Gabriella Wilde:
altissima e magrissima. Una ragazza elfo troppo adulta per il ruolo e
troppo bella per essere invisibile, ma con un fisico acerbo e un
visino innocente che ingannano. La perdita della sua innocenza
coinvolge anche la sua famiglia, con quell'amore avventato e giovane
che contagia gli adulti, scongela gli animi, lotta contro la perdita.
Capostipite di un genere ora in voga, è un intrattenimento
gradevole, romantico, che funziona discretamente. Tre decadi dopo,
scommetto che sa far ancora sospirare più di qualche spettatrice
intenerita. Ci sono state debite migliorie alla sceneggiatura. E il
cast e gli scenari convincenti combattono, poi, quell'aria perenne da
fotoromanzo. (5,5)
Sono
andato a vederlo più per il brivido di pagare il biglietto tre euro
che per il film in sé, che mi era indifferente e mi è rimasto
indifferente. Caciarone, vagamente divertente, dozzinale. Senza
cattiveria, senza tensione emotiva. Un blockbuster come mille altri.
Peccato che l'8.3 su Imdb mi suggerisse altro. Visivamente
impeccabile, con bagni di effetti speciali a coprire la pochezza del
resto. Salti spaziali, salti temporali, sprazzi vari di Giappone, Las
Vegas, Filippine. Ottimi, anche se in ruoli minuscoli, Cranston, la
Binoche, Sally Hawkins. Spenta la Olsen e, accanto a lei, un Aaron
Johnson che sfoggia muscoli e una serie di facce ebeti che, dopo la
prova nell'istantaneo cult Kick Ass, non ci aspetteremmo da lui.
Scarsi sentimenti, per un film che eppure pullula di bambini, padri e
figli, relazioni familiari: confrontate le scene finali, poi, con
quelle di The Impossible e scovate le differenze. Star del film,
accompagnata da due mostruose damigelle d'onore, un Godzilla
colossale ed epico, espressivo ed umano. Un'isola in movimento. La
sua uscita dalle acque potrebbe ambire a diventare più nota di
quella di Ursula Andress, in Licenza d'uccidere. O della Venere di
Botticelli. Peccato che il Re sia coinvolto in una serie di scontri e
d'intrecci che hanno l'acuta intelligenza artificiale del videogame
"War of the
Monsters", ve lo
ricordate? Se volete un monster movie come si deve, recuperate il
bellissimo The Host, dalla Corea con furore. Su questo reboot dico:
mah. Così, sintentico. (5)
Film
belli e mai arrivati da noi. Una Julianne Moore, fresca di Palma
d'oro, magistrale come al solito: la sua, una naturalezza disarmante.
Quella di una mamma rock-star, mai grottesca, che ci prova davvero a
fare tutto. Un Alexander Skargard schivo, allampanato, paterno:
intimidito, curvo, innamorato pazzo di quella principessina con la
frangetta e i vestiti cordinati. Come un padre, come un pellegrino.
Una protagonista piccolissima e straordinaria, Onata Aprile, che ti
porta alla sua altezza, per vedere - dal basso della sua statura - il
mondo come lo vede lei. Una faida familiare, genitori nomadi, due
sconosciuti da amare come fossero una mamma e un padre. Un gigante
biondo che fa il barista per sbarcare il lunario, una ex baby sitter
che il ruolo imprevisto di matrigna non ha incattivito per nulla.
Sposati, entrambi, con persone che non si amavano e che non le amano.
Soli. Loro e Maisie. Abbandonati nel mondo. Incompresi. Tra la
piccola e Alexander, una specie di miracoloso imprinting. Riprese
frequenti ad altezza bambino. Plongèe che schiacciano gli attori, li
comprimono, rendendoli alti quanto gli adulti o bassi, a seconda dei
casi, quanto bimbi: pari. I registi potevano fare una riuscita
operazione strappalacrime, con una storia simile. Magari avrei anche
gradito di più, chissà. L'emozione, in casi come questi, mi
potrebbe anche vincere: avrebbe avuto gioco facile. Invece, con classe e
esperienza, gli autori fanno di What Maisie Knew un film
contenuto, delicato, tenerissimo. Realistico, attuale, quotidiano,
pieno di pace. Su quello che Maisie sa. Su quello che Maisie guarda.
Su quello che Maisie sente. Una variante della storia della "mitica"
Matilda Wormwood, senza il bollino di favola per l'infanzia,
e perfettamente calata nella freddezza grigiastra del mondo
contemporaneo. Eppure la scriveva Henry James, qualcosa come un
secolo fa. La lungimiranza dei geni. (7)
Roberto
e Beatrice sono uniti da un filo rosso follia. Il loro amore nasce da
una condivisa e manifesta stranezza. Entrambi vivono fuori dal mondo.
Lui cleptomane, lei narcolettica: potrebbe mai funzionare? Eppure
s'innamorano. Ma l'amore è costanza e i ricordi di Beatrice non ne
hanno: emozioni forti, shock, sorprese impreviste minacciano di
resettare completamente la sua memoria. La sua memoria, e il ricordo
di quel ladruncolo che le ha rubato pure il cuore. Ti ricordi di
me? è una commedia italiana che ricorda il cinema francese.
Quello lieve, romantico, ironico, pieno di grazia e d'incanto. Ha
personaggi bizzarri, passaggi che fanno sorridere il cuore, intrecci
semplici, ma funzionali e ben scritti. I convincenti e simpatici
Ambra Angiolini ed Edoardo Leo vivono in un mondo moderno, ma
scintillante di magia. Curioso, affascinante, pazzo. In una di quelle
sfere che giri per vedere la neve e i brillantini cadere. L'epilogo lo immagini già, ma viene naturale confidare nel lieto fine. Perché se
lo merita quello scrittore di grottesche fiabe per bambini, con le
camicie che sembrano tovaglie da pic-nic e i brutti capelli a
scodella, e se lo merita quella maestra di scuola elementare, che
indossa gonne lunghe e vestiti a fiori e che, con un librone rosso
sotto il braccio, saltella da una striscia pedonale all'altra, in
attesa di scorgere una faccia amica, in una folla pericolosa. Ci sono
gli imbarazzi di 50 volte il primo bacio, le panchine di Woody
Allen, gli sguardi timidi, le spalle basse e le ginocchia strette al
petto di Adam. Le polaroid di Amelie, i toni surreali di Emotivi
anonimi. Niente di originale, niente di memorabile, ma piacevole
per gli occhi e per la testa. Una delizia dai colori pastello. (6)