Ho iniziato a leggerlo ad agosto, su un treno per il Salento. Quel tomo ingombrante, dalla copertina avorio, aveva attirato le attenzioni di più di qualcuno – compreso il controllore che, stupito per la mia buona volontà, si era complimentato per la scelta. Era un grande fan di Donna Tartt. Avevo letto altro dell'autrice Premio Pulitzer? Sì, avevo risposto, Dio di illusioni: affascinantissimo, mi aveva irretito nella prima metà e deluso nell'ultima. A distanza di anni ricordavo una penna di sconfinata classe, atmosfere torbide e affascinanti, ma un mistero dalla gestione un po' goffa. Potrei scrivere lo stesso del Cardellino: straordinario all'inizio, ma destinato a una parabola discendente – rocambolesca, delirante, retorica – mai completamente metabolizzata. Arrabbiato, a fine lettura avevo richiesto confronti con alcuni lettori. Cercavo il romanzo dell'estate, infatti, ma la frustrazione del momento lo aveva trasformato nella mia memoria in qualcosa di ben peggiore di un'esperienza mediocre: una lettura – di quasi 900 pagine, per di più – destinata a scontentare proprio sul più bello. Come aveva potuto Tartt fidelizzarmi per poi lasciarmi in balia di un epilogo febbricitante, dove l'azione avviene fuori scena e la morale della storia è condensata in uno spiegone grossolano? All'epoca del viaggio, però, non potevo saperlo. E con il controllore avevo scambiato impressioni entusiastiche sulle disavventure d'altri tempi di Theo Decker: un orfanello di dickensiana memoria che, dopo la morte della madre amatissima durante un attentato terroristico, si muove tra benefattori e carcerieri, tragedie e fortune esagerate, in città piene di bellezze insidiose.
Tutto ciò che sopravvivere alla Storia dovrebbe essere considerato un miracolo.
Prima ospite della famiglia Barbour nella signorile New York, poi affidato al padre e alla nuova compagna in una Las Vegas indimenticabile nella sua dissolutezza, Theo potrò contare su una manciata di costanti in un'esistenza per il resto raminga: il negozio di antiquariato di Hobie, sua guida e maestro; l'amore platonico per Pippa e l'amicizia autodistruttiva con Boris, adorabile “lucignolo” dall'inconfondibile accento russo; soprattutto, il dipinto-feticcio di Carel Fabritius, rubato e mai restituito nella confusione dell'attentato terroristico iniziale. Conoscerà la ricchezza e la misera più sfrenate, sperimenterà droghe leggere e pesanti per fuggire al disturbo post-traumatico da stress, diventerà genio e criminale per mezzo delle sue naturali capacità seduttive. Soprannominato Potter per via degli occhiali a fondo di bottiglia e della frangia impettinabile, si fa voler bene proprio come il personaggio di J.K. Rowling: eroe di un'epopea varia, coinvolgente, totalizzante, in cui l'assoluta libertà del protagonista diventa anche specchio della sua struggente solitudine. Come l'uccellino immortalato dal pittore fiammingo, Theo trasmette insieme energia e inquietudine: benché il suo petto sembri continuamente pulsare di vita, è prigioniero del proprio trespolo. Esiste, per lui, via di fuga? Bisogna forse ricercarla nella bellezza, nell'arte, nell'amore? Il cardellino fallisce quando prova ad abbozzare risposte, a cercare un senso al girotondo del suo primattore, ad arginare il suo caos – cosmico e narrativo – in una struttura da thriller americano. La scrittura di Donna Tartt è sconvolgente: l'esplosione di una bomba. Ma quando prova a mettere ordine, a trarre una morale di fondo, compie il medesimo errore di Fabritius. E mette un capolavoro in una cornice laccata; una catena d'argento alla zampa della sua creaturina piumata, condannandola, infine, alla cattività.
Il mio consiglio musicale: Radiohead – Karma Police