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Il tatuatore di Auschwitz, di Heather Morris. Garzanti, €
17,90, pp. 208 |
Preferisco
ricordare a modo mio e, in previsione della Giornata della Memoria, mi
tengo lontano anno dopo anno da letture e film sull'argomento.
Soprattutto se si parla di ultime uscite: quelle sempre e da sempre
guardate con fondato sospetto. Diffido per natura da chi ricorda, e
scrive, a tavolino. Salto a pie' pari quei titoli tutti uguali su
stelle a cinque punte, treni della disperazione, pigiami a righe, e
per ovvie ragioni, ragioni umane, non si tratta da parte mia di
disinteresse o insensibilità verso l'importanza del tema. Il mio
problema sono gli appuntamenti editoriali da spuntare come voci della
lista della spesa. Storia rispolverate e riproposte, a fine gennaio,
più per amor di puntualità che di verità. Quando le ricorrenze
diventano best-seller, apprezzabili più per il contenuto che per la
forma, e ricordare assume un altro significato – promemoria sui
taccuini, scadenze in redazione, in cerca a cadenza fissa di un altro
La vita è bella. Il perché non lo so, ora non lo ricordo più,
ma qualcosa – forse i pareri positivi all'unisono, un film in
produzione, una storia d'amore memorabile perché difficile – mi
diceva che Il tatuatore di Auschwitz, uscito immancabilmente
il primo mese dell'anno ma recuperato in seguito per precisa
volontà, potesse fare eccezione. Si parla di campi di concentramento
inediti, ancora in costruzione. Si parla di un uomo che per
sopravvivere fu costretto a lavorare per il nemico tedesco, con il
rischio di essere accusato di collaborazionismo.
Salvare
un essere umano è salvare il mondo.
Lale,
prigioniero per tre anni, lascia la Slovacchia su un treno che lo
porta volontariamente all'inferno, per risparmiare la stessa sorte a
qualcuno della sua famiglia. Così fuori posto in giacca e cravatta,
vestito come per un colloquio di lavoro, il ventiduenne – in
un'altra vita, elegante commesso presso un grande magazzino – porta
suoi luoghi dello sterminio l'incorruttibile sfrontatezza da viveur,
la forza di chi è giovane e
speranzoso, una fiduciosa ottusa che si scontra presto con la
crudeltà della prigionia. I soldati delle SS, si promette
fermamente, non vinceranno. Lale non piange, dà vita con scaltrezza
a un piccolo giro di contrabbandono – introdurre dall'esterno cibo
e medicinali, grazie al furto di gemme e monete dalle tasche dei
giustiziati – e lavora fianco a fianco a chi perseguita la sua
gente, sperando di fargliela sotto il naso. Scampato ai lavori più
pesanti, il giovane ha infatti l'ingrato compito di marchiare gli
ultimi arrivati. La mano delicata ma che trema, numeri d'ago e
inchiostro per cancellare con gesti implacabili l'identità di
zingari ed ebrei. Impossibile cancellare quella di Gita però: la
bellezza della prigioniera, semplicemente il suo esistere, gli
insegnano che l'amore è via di fuga, anche quando le ronde fra
Auschwitz e Birkenau ti strappano la fede e i capelli dalla testa.
Vissuta fugacemente in prima persona, nelle domeniche in cui alla
luce del sole è possibile incontrarsi o sfidare a calcetto i
tedeschi, la loro relazione inganna la tristezza e rallegra compagni
di sventura che riescono a sorridere e scherzare anche sotto la
cenere. Si descrivono con dovizia di particolari le mansioni e la
quotidianità, in una catena di montaggio in combutta con la morte –
gli esperimenti di medici sadici, i corpi sfruttati delle donne
avvenenti, la costruzione dei rovi di filo spianto e dei forni
crematori, l'ingresso all'inferno perfino di anziani e bambini.
Sono
soltanto un numero, dovresti saperlo. Me l'hai dato tu.
Il
tatuatore di Auschwitz ti fa tuttavia l'imperdonabile affronto di non emozionare nemmeno un po'.
Mancano la passione di Lale e Gita; la disperazione di due amanti che
ogni volta non sanno se e quando si rivedranno. Manca l'angoscia dei
soprusi, dei tormenti della carne e dello spirito: manca il romanzo,
se Heather Morris – che eppure lavora come sceneggiatrice, che
eppure nella nota finale racconta di aver ascoltato per anni le
testimonianze di un Lale realmente esistito – ha una storia
potenzialmente vincente ma uno stile piuttosto mediocre. Al dolore, a
ciò che davvero è stato, non sa dare peso. Alle articolate
vicessitudini di Lale, fortunato e longevo come un gatto, non sa dare
fondamento alcuno. Si fa semplicemente fatica, a tratti, a credere
che sia andata così. Potreste dirmi che sono certe esistenze, certe
epoche buie, ad essere incredibili nel bene o nel male. Fra le pagine
del Tatuatore di Auschwitz
però c'è sin dall'inizio qualcosa che non va: snodi frettolosi,
comprimari appena abbozzati che all'improvviso salvano una situazione
catastrofica, un protagonista – doppiogiochista per salvare sé e
gli altri, sì, e chi oserebbe condannarlo – che non prendiamo mai
a cuore. Colpa di una scrittura consequenziale, piatta e quasi
sprovvista di dialoghi, con fatti nudi e crudi che non si curano
minimamente della forma. Quella di chi vorrebbe parlare della verità non
sapendo darle voce.
Il
mio voto: ★★½
Il
mio consiglio musicale: Adele - Love in the Dark