A
Stoccolma, in una camera di lusso, si consumano i
retroscena del Nobel. La premiazione e
le domande della stampa hanno risvegliato rancori nel mezzo dei festeggiamenti. I contendenti sono due coniugi
già in là con gli anni: lui, con il pallino dei grassi saturi e
delle belle donne, scrittore vanaglorioso che sin da ragazzo si sognava Philip Roth; lei, prima
allieva prediletta e in seguito moglie trofeo, donna che in segreto
ha sempre mosso i fili del suo successo. Non serviva il sopraggiungere di
flashback quanto mai superflui per illuminarci sulle bugie e i ruoli
di potere della coppia: un matrimonio nato da un tradimento, che di
tradimenti a lungo ha vissuto, in cui un'ereditiera desiderosa di
indispettire la ricca famiglia aveva regalato l'anima e il corpo –
soprattutto, il proprio talento – a uno scrittore ora da pulire, ora da
imboccare, ora da perdonare. L'uno ha le idee, l'altra lo stile.
Tutti i meriti, anche agli occhi del figlio (d'arte) Max Irons,
spettano però all'istrione Jonathan Pryce. L'occhialuto biografo Christian
Slater, al contrario, fiuta qualcosa nei gesti di una Glenn Close in
odore di nomination: i sorrisi tirati, gli occhi bassi, il tormento
delle mani e un animo che ribolle per quel desiderio di rivalsa
svegliatosi all'improvviso. Si può voltare pagina a settant'anni? Si
può trovare nella totale disfatta la voglia di fare l'amore
o di saltare sul letto per celebrare un immeritato trionfo? Storia di
rinascita affatto sorprendente in questi tempi di ritorno al
femminismo, la lenta rimonta di The Wife
ricorda troppo Big Eyes:
palcoscenico austero ed elegante su cui non va in scena
niente che meriti il bis. Classico dramma di attori in cui la
scontata bravura della protagonista si rivela un'arma a doppio taglio. È infatti la stessa donna del titolo, a
suon di dialoghi teatrali e di segnanti primi pianti, a mettere in
ombra l'intero film. (6)
Se
sei un criminale in una Chicago che non perdona, nemmeno un'onorata
carriera nel malaffare può salvarti. La vita di
quattro ladri si conclude in una retata che non lascia scampo. Ognuno aveva debiti, un'idea per cambiare vita,
una moglie. Questa è la storia di tre delle quattro vedove: donne agli antipodi – un'ereditiera affranta con
ridicolo cagnetto bianco al seguito, una giovane maltrattata che si
reinventa escort, una mamma latinoamericana con un negozio pignorato
– che, sotto l'egida di una Viola Davis tanto bad-ass quanto
svogliata, collaborano per riscattarsi. Mentre in città si fanno lo
sgambetto gli aspiranti sindaci – Farrell appoggiato dall'arcigno Duvall, l'altro dal tirapiedi
Kaluuya –, le protagoniste lavorano a far della propria
inadeguatezza un'arma a doppio taglio. E secondo lo stesso principio, in un cast di premi Oscar, a sorprendere sono le attrici
all'apparenza fuori posto: Michelle Rodriguez, per la prima volta in
un film d'autore, e un'irresistibile Elizabeth Debicki. Peccato che i pregi,
le cose da scrivere, finiscano presto con un film che
resterà la peggiore delusione dell'anno. Widows su
carta non ispirava, infatti, ma recensioni positive e grandi nomi lasciavano
intuire il colpo di teatro: Steve McQueen, reduce dai fasti
del potente e arraffone 12
anni schiavo,
non poteva riadattare una soap degli anni Ottanta senza
metterci del genio; non poteva cedere all'heist movie come un
qualsiasi Soderbergh e giocare ancora l'irritante carta del
politicamente corretto con un cast all
women (o
quasi), all
black (o
quasi), con tanto di stucchevole cenno al braccio violento (e
razzista) della legge. Non ne faccio mistero, di Widows mi
hanno infastidito le scenografie da rivista patinata, la scrittura
televisiva della Flynn, colpi di scena che
insultano l'intelligenza di chi si aspettava un'americanata sì, ma
di classe. Freddo e poco coinvolgente, in equilibrio precario fra il
noir e il melodramma, il regista del
chiacchierato Shame finisce
questa volta per lasciare a bocca asciutta per il desiderio di
accontentare tutti in una seriosa varazione sul tema del dimenticato Ocean's
8.
Torna e fa cilecca. Con la morte nel cuore per questo colpo
clamorosamente fallito, noi fan ci vestiamo già a lutto. (5,5)
I
sorrisi ai neonati sul treno ci dicono che non ha avuto figli. Parte
lesa in un matrimonio senza sesso, continuamente sul piede di guerra,
il giudice Emma Thompson ha un'aria rispettabile, un guardaroba
severo, ma piccoli dettagli ne rivelano l'altruismo e
l'istinto materno. Esperta in autentici casi di coscienza, chiama a
deporre la famiglia di un adolescente morente: in quanto testimone di
Geova, il ragazzo rifiuta la trasfusione.
Avvincente e umano, The Children Act è
nella prima parte un dramma giudiziario convenzionale ma solidissimo.
La seconda, più incerta ma senz'altro toccante, segue invece il
dipanarsi di un candido colpo di fulmine, di una subitanea affinità
elettiva, il cui significato si evince più in pratica che in teoria.
La protagonista, infatti, va al capezzale di Fionn Whitehead: per lui, intelligente e sfacciato, canta e recita Yates. Il giovane –
senza più famiglia, senza più Dio – si affida anima e corpo alla donna,
che ligia al dovere non vuole tuttavia portarsi il lavoro a casa. È già
troppo tardi: in seguito a un imprinting misterioso e immediato, lei gli è entrata sin nel sangue. Se l'ultima mezz'ora non basta
ad approfondire debitamente il rapporto tra il malato ribelle e il
giudice – “My Lady”, come la chiama Whitehead venerandola per
tutto il tempo –, ambiguità e svolte annunciate sono appianate dal monologo finale di un'attrice forse al suo meglio che, piangendo in
abito da sera, si confessa all'infedele Tucci. Ci sono ballate che
vanno cantate: al diavolo le scalette predefinite. Ci sono storie che
vanno raccontate anche se, grandi interpreti a parte, sortiranno
maggiore clamore nei romanzi di Ian McEwan. Ci sono casi straordinari – giudiziari e
non solo – davanti ai quali perfino la legge solleva bandiera
bianca. Abbandonandosi a un ritornello, lasciando andare chi
aveva le smania di farsi libero martire. (7)
C'è
qualcosa di marcio in Danimarca. C'è qualcosa di bello però in un
cinema che quel marcio sa raccontarcelo con l'acume e la sensibilità
che lusingherebbero anche il buon Shakespeare. Vedasi i nervi a fiori
di pelle per Il sospetto di Thomas Vinterberg o, ancora, le
lacrime per la scabrosa Susan Bier di Second Chance.
Alla completezza dei gialli europei mancava un tassello. L'ho
scoperto per caso – non sapendo del successo al Festival di Torino
né che avrebbe rappresentato la Danimarca agli Oscar –, in
un'appassionante chiamata lunga un film. Il telefono squilla. Siamo
in una stazione di polizia e, in seguito a una bruciante
retrocessione, al pronto intervento troviamo un bravissimo Jakob
Cedergren. L'agente paga il fio per i propri metodi poco ortodossi, per
la tendenza a far di tutto un caso personale. Alla cornetta lo
aspettano gli sbadigli per qualche tentata rapina, incidenti stradali
da poco, giornalisti incuriositi da uno scandalo che l'ha reso
protagonista. Fino a quando non intercetta una chiamata diversa:
quella di una donna – e della sua bambina in lacrime, intanto a casa con il
fratellino neonato – rapita dall'ex marito. Lo spettatore è messo al corrente di ogni trillo, vibrazione o messaggio in
segreteria. L'azione vera, un'ordinaria storia di violenza domestica, si consuma però fuori dalle scene.
Come in Locke, la sceneggiatura si crea da sé, alla cornetta,
e sempre alla cornetta prende vita un piccolo giallo dalla grande
emotività. Grazie alla regia attenta e a un interprete dagli occhi
empatici, The Guilty è un
esperimento che funziona alla perfezione: tutti sono colpevoli di
qualcosa, tutti vogliono confessare per alleggerirsi l'anima e tutti,
a fine visione, vorranno comporre un numero dal nuovo (questa volta della persona giusta). La solidarietà, così, scatta tanto verso le
vittime quanto verso un assassino feroce. Non lasciatevi scoraggiare dall'interlocutore sconosciuto; dal pesante accento straniero. Prendete
all'istante questa chiamata. E in certe notti vi sentirete più al sicuro, meno
soli. (7,5)
C'era
una volta un bambino che sperava di non diventare grande. Gli facevano compagnia gli amici animali – un orso, una tigre, un asino e un canguro –, con cui
dividere fantastiche avventure in una radura ai confini della realtà.
Il bambino mentiva, alla fine è cresciuto: diventando un uomo segnato dalle
esplosioni della Seconda guerra mondiale, un marito assente, un padre
poco amorevole. I suoi compagni d'infanzia, inevitabilmente, sono stati
dimenticati in nome delle responsabilità. C'era una volta la Disney,
storica fabbrica dei sogni, che voleva parlare a grandi e piccini.
Continua a farlo tutt'oggi, sì, non inventandosi più niente dal nuovo: i
cartoni che prendono vita abbondano, sequel e reboot spettano anche alle
vecchie fiabe. Anche il bambino di Winnie the Pooh, dunque, cresce
per ragioni di copione. Ha il volto del sempre in parte Ewan McGregor
e veste gli abiti di un noiosissimo impiegato che ha rinnegato il
passato. L'orso ghiotto di miele si smarrisce a Londra e si mette
sulle tracce di lui, a cui spetta il compito di riportarlo dove tutto
ha avuto inizio. Favola bucolica nello spirito delle
Cronache di Narnia, Ritorno al bosco dei 100 acri racconta pochissimo che non sapessimo già. Chi come me si si
aspettava i segreti struggenti di Neverland
e Saving Mr. Banks,
autentici backstage sulle difficoltà del processo creativo e
sull'urgenza della scrittura, probabilmente avrebbe dovuto prima dare
un'occhiata al biopic su Alan Milne. Ode spensierata alla
leggerezza, agli affetti, al ritorno ai buoni sentimenti, la commedia
per famiglie del capace Marc Forster è piuttosto una classica
riflessione generazionale che colpisce più gli occhi che il cuore e che qui e lì attinge alla comicità
slapstick del meglio riuscito Paddington.
Malinconico andirivieni fatto di ritorni alla base e morali risapute,
senza buone idee all'interno ma con quel pizzico di magia che sotto Natale non guasta. (6,5)