| I leoni di Sicilia, di Stefania Auci. Nord, € 18, pp. 436 |
Restano
la famiglia sulla bocca di tutti, i Florio. Ne è passata di acqua
sotto i ponti, si sono avvicendati inesorabilmente gli anni e i
secoli, ma la loro buona stella non si è mai spenta. Non del tutto.
Se qualcuno non conosceva la storia della loro ascesa
folgorante – nell’Ottocento, partiti in povertà, divennero
una leggenda –, a rinfrescarci la memoria in libreria è il
romanzo più popolare del momento. Conteso dagli editori
internazionali, ai vertici delle classifiche di vendita, già
opzionato per una serie televisiva, I leoni di Sicilia è
stato benedetto dallo stesso successo della stirpe che descrive. Sui
Florio, così, ci si documenta ancora: l’attenzione è verso le
loro origini, i loro commerci altalenanti, le loro passioni. E
dell’autrice che ne ha rispolverato il ricordo, Stefania Auci, si
parla con termini entusiastici scomodando spesso un insuperabile
metro di paragone: Elena Ferrante. Siamo al cospetto di un’altra
saga familiare, di una nuova serie di romanzi corteggiata dai lettori
stranieri e dal piccolo schermo, ma le analogie finiscono presto.
Incrociata in passato fra le firme del blog Diario di pensieri persi,
scrittrice tanto di urban fantasy quanto di romanzi rosa, la Auci ha
scoperto una miniera d’oro alla fine di cotanta gavetta, nella
sabbia della sua Sicilia. Ma se da un lato la lettura ha
confermato la sua abilità narrativa, dall’altro ha dato fondamento
a un pensiero ricorrente: benché ci provi questo genere non mi si addice.
Si parte da lontano, lontanissimo, con un terremoto che spinge i protagonisti a scappare: da Bagnara Calabra a
Palermo con un imbarcazione modesta, senza il biglietto del ritorno,
due fratelli carichi d’ambizione decidono di avviare un’attività
da zero.
Oltre quelle mura,
oltre il cortile della Zecca Regia, c’è Palermo. Anche lei è
un’amante possessiva, e Vincenzo lo sa: gelosa, volubile e
capricciosa, capace di rifiorire o di annichilirsi in una notte. Ma,
dietro le apparenze, nasconde un’anima d’ombra. […] In quel
periodo, la città vive un misterioso stato di grazia: si ricopre di
colori, si riempie di cantieri e nuovi edifici. E, dei suoi soldi,
dei soldi di Casa Florio, Palermo ha bisogno.
Lavoratori
indefessi, all’inizio poco più che semplici scaricatori di porto,
Paolo e Ignazio prendono le redini di una putiedda. Dalle spezie d’importazione
all’invenzione del tonno sott’olio – passando per commerci di
polvere di china, medicinali, vini destinati alle tavole reali – il
passo è nient'affatto breve. Include ben tre generazioni di uomini,
e va a toccare un’isola contesa da Napoleone e dai Borbone. Il
mondo dorato dei commercianti può forse resistere senza mostrare i
segni dello scompiglio? C’è un’epidemia di colera, foriera di
un’isteria generale. Ci sono rivolte e barricate in strada, mirate
a rovesciare i regnanti. Il sogno: creare una nuova Sicilia,
finalmente libera dai soprusi di Ferdinando, per sottrarsi a
un’estenuante sudditanza. Costretto a finanziare suo malgrado il
governo rivoluzionario, a prendere le redini della famiglia è
Vincenzo: figlio di Paolo, nipote di Ignazio, è uno squalo solitario
e dotato di un pessimo carattere.
L’accesa rivalità con i Canzonieri, una famiglia che lo
taccia di essere un parvenu, gli instilla il dubbio di non essere
abbastanza. In risposta, così, lui studia in Gran Bretagna, presta soldi a
usura ai nobili decaduti, impone un prezzo a tutto: anche all’amore
verso la sua scandalosa amante, di lì a poco madre dei suoi figli.
Cagionevoli e malinconici, i maschi della famiglia si dedicano troppo
agli affari e poco ai sentimenti e, pensando al portafogli,
rinunciano alla bellezza del mare: eccolo relegato sullo sfondo,
nell’anonimato, mentre loro si danno a testa bassa al lavoro
d’ufficio. Quel cognome importante è un’opportunità o una
prigione? A ricondurli sulla retta via potrebbero essere due
personaggi femminili, Giuseppina e Giulia: rispettivamente suocera e
nuora – la prima sposata con il fratello sbagliato, l’altra
disonorata da una relazione clandestina –, le donne ai ferri corti
s’impuntano per parlare di politica ed economia, per farsi sposare
legalmente, per salvare i discendenti dalle sorti dei matrimoni
combinati.
«Quando
si diventa vecchi, si vuole rallentare il tempo, ma il tempo non si
ferma. E allora tieni strette le cose. Se loro ci sono, tu ci sei
ancora. Non la vedi, non la vuoi vedere, la vita che sgocciola via.»
Giuseppina si siede sulla sponda del letto, stringe l’indumento al
petto. C’è un rimpianto che le causa una stretta allo stomaco.
«Noi li chiamiamo ricordi, ma siamo bugiardi», continua con un filo
di voce. «Cose come questo scialle o il tuo anello» - indica la
fede di oro battuto appartenuta a Ignazio - «sono ancore per una
vita che se ne va».
Se
i protagonisti incarnano caratteristiche che potrebbero subito
renderceli memorabili, a non interessarmi è stato
purtroppo il contesto. Quelle contrattazioni fitte, dense, per
addetti ai lavori, che hanno reso i Florio sì un’istituzione, ma
anche una compagnia – fra le pagine – con cui a prima
impressione si fa fatica. Lo so, questa volta sono io a
essere dalla parte del torto. Senza politica e commerci avrei potuto
apprezzarli molto di più. Ma senza, immagino, sarebbe stata
un’altra cosa. Non di certo una storia vera, frutto di ricerche
certosine e di una rielaborazione misuratissima, che ribadisce nel
male il mio scarso feeling verso le ricostruzioni storiche: più sono
impeccabili, più rischiano di annoiarmi.
All’ombra del monte Pellegrino, nella terra che ha ispirato classici da antologia come I Malavoglia, Il Gattopardo e I Viceré, I leoni di Sicilia racconta di amori travagliati, intuizioni folgoranti e investimenti frettolosi: formula intelligente per un passaparola istantaneo. La lettura è densa e scorrevole, perfino incalzante immergendocisi meglio, ma mentirei se dicessi che queste quattrocento pagine fitte di date e avvenimenti qui e lì non mi siano parse troppe. Colpa un po’ di uno sfondo socio-politico dei più turbolenti, un po’ delle leggi difficili del mondo mercantile, un po’ di un genere letterario che – ammetto i miei limiti e i miei pregiudizi – personalmente trovo furbo, lezioso. Romanzo dell’estate per molti, insomma, tale non è stato per me. La prossima volta, senza rancore né curiosità, potrei farmi trovare sordo al suo ruggito.
All’ombra del monte Pellegrino, nella terra che ha ispirato classici da antologia come I Malavoglia, Il Gattopardo e I Viceré, I leoni di Sicilia racconta di amori travagliati, intuizioni folgoranti e investimenti frettolosi: formula intelligente per un passaparola istantaneo. La lettura è densa e scorrevole, perfino incalzante immergendocisi meglio, ma mentirei se dicessi che queste quattrocento pagine fitte di date e avvenimenti qui e lì non mi siano parse troppe. Colpa un po’ di uno sfondo socio-politico dei più turbolenti, un po’ delle leggi difficili del mondo mercantile, un po’ di un genere letterario che – ammetto i miei limiti e i miei pregiudizi – personalmente trovo furbo, lezioso. Romanzo dell’estate per molti, insomma, tale non è stato per me. La prossima volta, senza rancore né curiosità, potrei farmi trovare sordo al suo ruggito.
Il
mio voto: ★★★
Il
mio consiglio musicale: Enya – Caribbean Blue