Un
sicario su commissione che rovinava i gelati alle bambine e la
detective urlante al risveglio per via dell'insopportabile formicolio al braccio, dicevamo qualche post fa, si intrigavano
reciprocamente sin dall'inizio. Il bene e il male, il gatto e il
topo, si inseguivano come ogni caccia all'uomo – anzi, alla donna –
prevede. Già allora, ricordo, di Killing Eve sorprendevano
la freschezza e la semplicità. Pochi drammi, tanta violenza
e un gioco al femminile che viveva di intelligenza, civetteria e una
vaga insofferenza verso gli stilemi del cinema d'azione. L'intreccio,
per quanto già visto, osava proprio grazie a loro: due personaggi
bizzarri, umani, tratti dai romanzi di Luke Jennings ma rivisti e
corretti dalla penna riconoscibilissima di Phoebe Waller-Bridge.
Entrambe, infatti, cercano la normalità che non possono permettersi.
Non hanno il physique du rôle e
sono straniere in città straniere. Sandra Oh è una americana a
Londra dagli occhi da orientale: sbirra non così ferma nelle proprie
posizioni, segue le direttive di una sempre superba Fiona Shaw.
L'adorabile Jodie Comer, stella in ascesa e mia nuova cotta, è
invece per copione una assassina poliglotta a Parigi, bella e
inquietante come una bambolina dell'Est. Nessuna capitale europea
sembra abbastanza grande per non pestarsi i piedi a vicenda; inviarsi
minacce di morte o abiti firmati. In Russia, infine, si scopre che in
ballo ci sono cospirazioni, giovani galeotte educate alla violenza e
i Dodici, organizzazione internazionale di cui al momento poco
sappiamo. Forse Villanelle cerca una via d'uscita per cambiare vita?
Forse segue ogni mossa della poliziotta non come farebbe una stalker,
ma per avanzare una richiesta d'aiuto? Intanto Eve realizza un
ritratto dell'avversaria come i profiler del piccolo schermo
insegnano, e il pensiero di lei diventa pian piano un'ossessione
sentimentale che di morboso, di saffico, in verità ha poco. Killing
Eve gioca, sì, ma non alla
guerra fredda. Produzione BBC affatto ingessata, ti corteggia con
l'ironia e gli sguardi giusti prendendosi nel mentre
straordinariamente poco sul serio. Introduce, costruisce e disfa,
confonde con la musicalità degli accenti, la colonna sonora elegante
e gli strani languori di queste amiche-nemiche. Cosa c'è in
ballo, con una seconda stagione già annunciata? Il rischio è che arrivati
alla meta, raggiunta la signora Polastri, potrebbe esserci poco
altro con cui riempire una nuova missione (im)possibile. Se in un
thriller scoppiettante in cui le donne fan da padrone, e
per di più senza mai cadere nella pesantezza fine a sé stessa del
femminismo imperante, potremmo confidare nei trucchi che nascondono
in borsetta – oggetti contundenti, non soltando rossetti e rimmel.
Nei prendo e parto, nei non detti e nel proverbiale
multitasking di menti, all'occorrenza, criminali. (7+)
Sono
stato benissimo in loro compagnia nella prima sessione estiva della
mia carriera di studente. Mi hanno fatto sentire uno di
casa. Sognavo il loro appartamento coi mattoni a vista, con tanto di
gatto e armadio da cui attingere magliette a fantasia e camicie a
quadri. Eravamo psicologicamente pronti a lasciare New Girl
già un anno fa. E quel bacio
sospeso, quel finale lieto ma non troppo con Green Light di Lorde in stereo, si
faceva apprezzare. La settima stagione arriva dal niente a mettere i
puntini sulle i. Sui misura dai
fan, è proprio dai fan che sembra scritta. Ecco così due bambini,
un matrimonio e un funerale, gli ultimi scherzi. Schmidt e Cece sono
genitori di Ruth, tre anni; Winston e consorte sono in dolce attesa;
Nick e Jess appaiono invece indecisi sull'adottare un cucciolo o
meno, sul dirsi di sì. Non avevo chiesto che fosse ufficializzato questo addio, eppure
quando sul solito sito di streaming è arrivato il finale di serie mi
sono detto: come, di già? A parlare non era il crepacuore degli addii, ma la confusione. Davanti a una stagione di soli
otto episodi che si apre e si conclude passando inosservata. Davanti
a comedy, già sottotono da qualche stagione a questa parte, che
sfidano la cancellazione, scelgono a tavolino il tempo migliore per
congedarsi, ma non approfittano dell'ultima opportunità. Quando il
sipario si cala, New Girl
appare inutile, autoreferenziale, simpaticissimo. Non brutto, ma di
dubbia utilità. Troppo corto per essere un riempitivo vero e
proprio. Troppo scontato – stucchevole perfino, vedasi il
flashforward conclusivo – per sorprenderti con il luccichio di una
lacrima. (5,5)
A
proposito di guilty pleasure degni di questo nome. Di prodotti che
all'inizio ti vergognavi quasi di seguire con la passione del fan,
poi diventati negli anni una promessa di leggerezza. Qualcosa,
qualcuno, su cui fare sinceramente affidamento. Ecco la serie a prova
di scettico che inviterei a riprendere o a sperimentare. Perché
no, croce sul cuore: Jane The Virgin non è una di quelle
candide porcherie tanto bruttine da diventare, dopo quattro anni, un
appuntamento immancabile. Cresce. Come le grosse grasse famiglie
latine (nonna Alba studia per ottenere il permesso di soggiorno,
mamma Xiomara fa i conti con una diagnosi preoccupante, papà Rogelio
tenta la conquista delle casalinghe americane accanto all'autoironica
Brooke Shields). Come le coppie che si formano loro malgrado (Petra,
la ex accusata dell'omicidio della gemella, è attratta dalle forme prosperose dell'avvocato
Rosario Dawson; Rafael, alias l'inseminatore fortuito, è finalmente riamato da una Jane in cerca della
giusta storia d'amore). Come quel figlio del miracolo. Vuoi bene
a tutti loro, dal primo all'ultimo, e ti senti di chiamarli amici;
per nome. Esempio di garbo e intelligenza, tenera ma piena di
suspance, l'immacolata concezione al tempo della CW può vantare la
presenza della deliziosa Gina Rodriguez, un narratore che è a mani
basse il migliore dei comprimari e un twist clamoroso, messo in
chiusura di una stagione talmente matura, talmente in pace con sé
stessa, da sembrare l'ultima. Jane The Virgin, successo a
prova di cancellazione, continua così la sua parodia di svolte impossibili
e buonumore. Lo aspetti, e non è domenica se non va in onda. Se, soprattutto, al giro di boa, si rivela essere molto più che un altro stupido guilty
pleasure latino-americano. (7)