Il
cinema, la sessualità, le mamme. Alla luce del mio recente
recupero, impossibile non pensare alla poetica di Pedro Almodòvar:
uno dei pochi registi stranieri a non avere mai ceduto alle sirene
delle major. Nell'errore, al contrario, è incappato l'adoratissimo
Xavier Dolan: il ragazzo prodigio, ormai cresciuto, sognava Hollywood
sin dall'infanzia. Il suo sogno americano, non a caso, contiene
tracce innumerevoli di lui. Attore bambino con la cameretta
tappezzata di poster, tormentato a scuola al suon di insulti
omofobici, fa dell'ambizioso Jacob Tremblay il suo alter-ego; trova
rifugio, per fortuna, nell'intrattenimento – vengono citati Jumanji,
Il giardino segreto, la saga di Harry Potter – e
nella venerazione di un teen idol sulla cresta dell'onda. Come starà
vivendo il suo mito i giorni di gloria?
Partito per l'estero ma sempre nella sua comfort zone, Dolan cerca
compromessi che non lo accontentano fino in fondo. Ma la stessa
frustrazione, diciamolo subito, non è vissuta anche dagli spettatori.
Lontano dal disastro descritto dagli statunitensi, La mia vita con
John F. Donovan non è forse
l'opera della maturità che si domandava a un regista trentenne ma,
benché mainstream, mostra un Dolan che non si tradisce. A
differenza dei classici tranche de vie della
provincia canadese, il suo ultimo film è un triplice melodramma:
macchinoso giacché scrittissimo, scricchiola a causa di una
scrittura romanzesca che nel bene e nel male limita i colpi di testa
dell'autore. Rivestito di tutto punto, il regista in trasferta porta
con sé la coperta di Linus dei temi cari pur rivestendoli con la
patina attraente del cinema a stelle e strisce. Mentre la giornalista
Thandie Newton prende appunti, assistiamo alla biografia fittizia di
una stella emergente che vendette l'anima al successo.
Particolarmente coraggiosa, allora, appare la scelta di un Kit
Harington a un passo dall'implodere: la star della HBO polemizza con
il suo ruolo di mentore del piccolo schermo e, con amara ironia,
anticipa le dipendenze che di recente lo hanno condotto in rehab fra
un pettegolezzo all'altro. Omosessuale represso, si ritrova nelle
canzoni a squarciagola alla radio o nella vasca di mamma: una Saradon
invadente quanto la miglior Dorval, a cui si contrappone dall'altra
parte una Portman fredda e disattenta. La sceneggiatura è un taglia
e cuci a cui neanche il montaggio funambolico riesce a star dietro. Per
questioni di minutaggio sono stati tagliati personaggi e passaggi:
su tutti, imperdonabile, quello a proposito della nascita di una
scandalosa amicizia epistolare che nei fatti non c'è, quando
dovrebbe essere invece il cuore della storia. Ma restano
quel paio di scene madri da pelle d'oca; una colonna sonora che
spazia da Florence ad Adele, dai Verve ai Green Day; un cast
esageratamente assortito, con piani narrativi che combaciano purtroppo a
fatica con il resto. Il regista canadese fa i conti con le
aspettative altrui, la fama precoce e il bullismo subito, in un'altra
questione privata che somiglia tanto a una seduta psicoanalitica. In
poltrona, emozionati, vogliamo bene alla perseveranza e alla
schiettezza mostrate. Peccato che a rendergliene merito, al cinema,
fossimo appena in tre. Somigliassero tutti a questo Dolan fuori fuoco, i flop
annunciati. (7)
Cosa
significa essere il genitore di un tossicodipendente che non vuole
lasciarsi salvare? Ispirato alle memorie del giornalista
David Sheff, Beautiful Boy racconta
la sua coraggiosa odissea accanto al figlio Nic: accettato da sei
college alla fine del liceo, in cerca dello svago meritato, il diciassettenne ricade
nel tunnel delle dipendenze. Se un dolcissimo Carrell regala ormai più
soddisfazioni come attore serio che nei passati ruoli comici, il
coprotagonista Chalamet sfoggia lacrime di coccodrillo che vengono
presto a noia. Gli ambienti luminosi e confortevoli delle ville
alto-borghesi, distanti dai ghetti malfamati dell'immaginario
collettivo, incorniciano le levatacce del primo e le notti in bianco
del secondo; le ansie, i sospetti innumerevoli e le bugie impenitenti
di un adolescente carismatico ma difficile da amare. L'amore di un
padre, così, ispira una ricerca sul campo in una tragedia comune a tante,
troppe famiglie, con un epilogo per una volta eccezionalmente
fortunato. Ma la guarigione, scontata e didascalica, passa attraverso
lunghi abbracci, discorsi motivazionali e ricadute snervanti in quanto continue. Depotenziando un dramma familiare già compassato,
nonostante i duetti da Actor's Studio, la cui maggiore delusione è
attribuibile al lavoro del regista. Dopo il meraviglioso Alabama Monroe, Felix Van Groening usa
il marchio di fabbrica di un montaggio frammentario – nel film
precedente una poesia contemporanea, qui fonte perenne di
sconcentrazione – per girare senza un piano costruttore, al suon
dell'invadente colonna sonora indie, un brutto episodio di This
is us. In quale vicolo sudicio
ripescare Nic; in quale clinica ricoverarlo? Molto meno affannosa, al
contrario, la domanda che ci ponevamo all'inizio, sapendo Beautiful
Boy tagliato fuori dalla
stagione dei premi: perché il cuore freddo di critici e giurati,
davanti a un caso di coscienza che – a torto, su carta – ci sembrava
struggente? (5,5)
Lui
è un lupo di mare con un'amante focosa in ogni porto. Lei, femme
fatale poco convincente sin dalla tinta bionda, è una ex in cerca di
aiuto contro il marito manesco. Potrebbe sembrare un giallo
hitchcockiano, se non fosse per la presenza di un personaggio
secondario che proprio non ci si spiega: un omino occhialuto e bizzarro, così
fuori posto e dal ruolo così imprevedibile. Su una bellissima
isola che non c'è, dove tutti sanno tutto di tutti, si muovono con
il pilota automatico personaggi in crisi: irrisolti, incompresi, si
consolano ora con il rum a fiumi, ora con i tuffi spericolati dalle scogliere a picco.
Nel mentre, pianificano il delitto perfetto o aspettano l'arrivo delle
mareggiate. Se la collega Anne Hathaway, qui al suo peggio, è un
pesce fuor d'acqua, Matthew McConaughey ha sprezzo dei suoi
cinquant'anni portati alla grande: fuma e trinca, praticando l'amore libero,
e concede più del solito a favor di telecamera un lato B estraneo
alla forza di gravità. La fotografia assolata e il sex appeal dei
protagonisti, comunque, non distraggono: il bastonatissimo
Serenity, altro film
sabotato dalla critica, a volte incappa in scivoloni grossolani o
buchi di sceneggiatura grandi quanto voragini; altre nella stranezza
di colpi di scena talmente campati in aria da risultare quasi degni
di stupore. Alla deriva, senza una meta condivisibile, Steve Knight –
altro che ha perso la bussola, dopo il successo di Locke –
si dà a una risoluzione tanto inattesa quanto surreale, incoerente
con il resto ma toccante a modo suo, in cui il McConaughey nudista
sembra tornare a indossare la tuta spaziale del padre di Intestellar.
Un po' thriller erotico anni Ottanta, un po' videogioco avventuroso,
Serenity finisce per
essere un divertente nulla di fatto. Un incrocio bizzarro, difficile
da incasellare nel cinema dello sceneggiatore americano e,
soprattutto, nella carriera di due premi Oscar. Come hanno potuto
abboccare? (5)