La rete lo ha paragonato al romanzo di Hanya Yanagihara e per un po' l'impressione è stata la stessa. Non c'è New York, ma Chicago. E ci sono Yale e Charlie – il primo un ambizioso gallerista in erba, l'altro direttore di un giornale politicamente schierato –, all'apparenza felici e monogami, che si amano nel mezzo di una popolosa galleria di amici geniali: attori dongiovanni che affrontano la vita come se fosse un parco divertimento, avvocati dalla voce stentorea, fotografi e artisti destinati a essere studiati in futuro dagli addetti ai lavori. Ma questa non è la loro storia, o comunque non soltanto. I grandi sognatori racconta di una generazione perduta: anzi tre. Rebecca Makkai, infatti, intreccia traumi collettivi e personali in un dramma fatto di corsi e ricorsi storici, dove la paura cambia nome – prima guerra, poi Aids, infine terrorismo – ma la perseveranza dei superstiti, invece, resta immutata. È una fortuna o una tragedia sopravvivere? È un dono o una maledizione trovarsi a essere il custode di mille storie di fantasmi?
Abbiamo vissuto qualcosa che i nostri genitori non hanno vissuto. Ci ha reso più vecchi di loro. E quando sei più vecchio dei tuoi genitori, che fai? Chi ti insegna a campare?
Strutturato tra passato e presente, il romanzo ha il personaggio di Fiona per filo conduttore: sorella minore di un giovane omosessuale morto nel clou degli anni Ottanta, è diventata prima l'anima del gruppo degli amici del defunto e poi, anni dopo, una madre talmente assente da lasciare l'unica figlia in balia di una setta religiosa. C'è un limite massimo all'amore che possiamo garantire agli altri? Fiona lo ha forse superato, al punto da essere ormai un guscio vuoto? Ultracinquantenne, vola nella Parigi del Bataclan per fare ammenda, ma laggiù il passato è più vivo che mai: come non pensare agli aneddoti della prozia, musa dei maggiori pittori della Belle Epoque, o a Yale – il più grande tra i sognatori – che fino all'ultimo tentò di rendere giustizia all'anziana?
Non ci pensi mai, che so, a dove andiamo dopo la morte? […] Secondo me è come dormire, ma aiutando a sognare il mondo. Qualunque cosa accade sulla terra, tutti i fatti incredibili che capitano, l'eruzione di un vulcano, per dire, nasce dai sogni collettivi di chi ha vissuto.
C'è tanto materiale per un romanzo solo: troppo, perfino per queste 500 pagine. Avrebbero avuto bisogno di essere limate, asciugate dagli eccessi, sintetizzate. Si fatica in particolare nella prima parte, quando l'autrice si addentra nei dettagli delle opere da autenticare o nella disputa tra gli eredi. Per fortuna, però, appare altrettanto meticolosa quando si giunge al focus principale: l'epidemia di Aids. Makkai, alla maniera della serie TV It's a Sin, fa delle ultime pagine un manifesto umano e politico di attese snervanti in ospedale, diagnosi spaventose, slogan e striscioni contro il sistema sanitario americano, deleghe e lasciti. I migliori amici erediteranno sciarpe a righe, scarpe troppo strette, del filo interdentale, perfino un gatto. E nel tempo che resta loro – purtroppo, mai abbastanza – offriranno al prossimo spalle su cui piangere e baci plateali in pubblico. Ti viene da ringraziarla, allora, quest'autrice con talmente tanto da dire, da dare, da sacrificare la compattezza di un romanzo che avrebbe potuto senz'altro essere migliore di così. Ti viene da correggerti e definirla non più disordinata, ma semmai generosa, con le sue trame densissime che tentano di risolversi a vicenda e regalano, in rewind, in sogno, una seconda illusoria giovinezza a Fiona, Yale e gli altri. In pegno – per noi, per la pazienza e le lacrime – lascerà un pugno di cenere e glitter.
Il mio consiglio musicale: Simon & Garfunkel – America