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Ritorna, di Samuel Benchetrit. Neri Pozza, € 17, pp. 238 |
Il
procrastinatore seriale si riconosce fra mille. Qualsiasi età abbia,
ciondolerà per casa con i capelli scompigliati, la barba sfatta e le
mutande un po' ingiallite sul davanti. Pigrissimo, rimanderà a
domani quello che potrebbe sbrigare oggi; compilerà accurate liste
per punti per poi fare carta straccia dei buoni propositi. Il
protagonista di questo romanzo, allergico agli impegni a lungo
termine e all'attività fisica, non è l'eccezione alla regola.
Scrittore divorziato, al mattino fuma come una ciminiera e trinca
caffè sulla tazza del water: gli arrivano nel mentre sgradite newsletter
dall'Ikea, email di editor e creditori, messaggi spam presi talora troppo sul serio. E notizie del figlio, invece: nessuna
speranza che in Groenlandia ci sia il segnale wi-fi? Hanno condiviso
insieme quell'appartamento a soqquadro fino al diciottesimo
compleanno del ragazzo: partito all'avventura sulla scia dei romanzi
di London, Conrad e Kerouac, lasciandosi alle spalle quella vita
per soli uomini – il ketchup sugli spaghetti, il formaggio scaduto
in frigo, la regola sacrosanta del rutto libero. La sua assenza rende il
genitore inconsolabile. Lo stesso può dirsi per l'ex moglie, in
attesa accanto al telefono alle quattro del mattino: invano, e in vena di insolite gentilezze. Quant'era bello e sincero Cemento
armato, il romanzo d'esordio del protagonista a cui, purtroppo,
aveva fatto seguito l'oblio generale? Così tanto, a detta di alcuni
produttori televisivi, da accarezzare l'idea di realizzare un
trasposizione per il piccolo schermo: nell'era in cui ogni cosa
diventa serie TV, infatti, meglio rispolverare quel discreto successo
editoriale che ricercava il lato poetico dei famigerati banlieu
parigini. Il procrastinatore un giorno muore di noia. Così tanto, a
detta dell'irresistibile Samuel Benchetrit, da darsi a un pensiero
sconsiderato: rimettersi a lavorare. Se in una commedia francese di
quelle esilaranti, schiette, dolcissime, riprendere in mano la
propria routine sarà un'impresa assolutamente rocambolesca.
Consideravo gli scrittori e i registi che
ammiravo come dei familiari o degli amici intimi. Nabokov era uno zio
russo. Fellini uno zio di Roma. Stesso discorso per John Fante e
Vittorio De Sica. Duras era la mia cara zietta. Sagan la mia cugina
adorata. Flannery O'Connor la cugina d'America. Avevo bevuto diversi
whisky con Beckett. Avevo dormito tra Cohen e Yourcenar, che volevo
riconciliare. Tutti insieme formavano la mia grande famiglia
allargata, piena di meravigliosi parenti acquisiti che avevano fatto
per me così tanto, e io così poco per loro... Eppure mi amavano,
tutti loro amavano teneramente questo nipote non granché dotato, e
anche un po' coglione.
Tutto
parte dal romanzo da trasporre: i produttori ne vogliono una copia,
peccato risulti introvabile. Quelle con dedica sono troppo preziose
per sottrarle ai legittimi proprietari, i corrieri di Amazon all'ultimo danno
forfait e non resta, allora, che rivolgersi a un'appassionata
lettrice chiusa in una casa di riposo: forse l'unica a poterlo
salvare dal macero e dall'ennesima disfatta. Nell'ospizio ci sono
innumerevoli anziane di nome Raymonde, che pretendono la lettura a
voce alta dei romanzi di Pierre Lamberti, storico rivale del nostro eroe; belle infermiere balbuzienti di cui
conquistare il cuore con uno spietato corteggiamento vecchia scuola;
uno stagno di anatre a corto di esemplari maschili, da salvare
dall'estinzione spingendosi in una fattoria ai confini del mondo dove
si consumano bislacchi triangoli sentimentali. Dappertutto, intanto,
rimbomba una domanda da sottoporre ai passanti, all'ufficio delle
entrate, al cielo aperto: dopo quindici anni di silenzio, cosa
direbbe un padre inuit al figlio in partenza per terre selvagge?
Ho
pensato a me e mio padre – ugualmente affini e laconici, poco
aperti al dialogo eppure abilissimi a darci a raccomandazioni profuse e a sollecitudine in quantità, nel momento del bisogno –, alle
opportunità perse e a quelle ritrovate invece per caso, leggendo la
nuova fatica di Benchetrit. Già regista dell'altrettanto delizioso e
malinconico Il condominio dei cuori infranti, l'autore firma
una mezza autobiografia a tinte esistenzialiste sulla solitudine
siderale e la sensibilità nascosta di noi uomini medi.
«Ma
stia a... a... attento, perché ci sono delle so... solitudini che
non vanno di... disturbate».
«Cosa
intende dire?»
«Se
inizia u... un libro, deve fi... finirlo. Altrimenti aspetteranno la
fi... fine, e la solitudine sarà ancora più... ù... ù grande».
A
suon di incubi, farneticazioni e voli pindarici, fra cani gatti e
bonsai di cui non ci si sa prendere affatto cura, Ritorna è
un ritratto al maschile logorroico e fanfarone, incapace di prendersi
sul serio ma con uno sguardo al contempo pieno di poesia. Il protagonista ha una
soglia dell'attenzione bassissima e cerca stimoli dappertutto. E
tutto, perciò, anche quando se ne sta in panciolle, anche quando non
ha voglia di fare alcunché, si trasforma in un racconto ispirato e
ben scritto. In qualcosa di buono. Grazie alle tragicommedie a cui
vanno incontro i suddetti procrastinatori, alle bugie degli scrittori, alla
sottovalutata tenerezza dei nostri papà. Ritornano così il batticuore, il
desiderio di rimettersi all'opera davanti a una pagina Word immacolata, un pezzo
di te salpato per terre lontane. Frammisto a un'insospettabile
profondità d'animo, a risate a crepapelle, eccolo qui: ha fatto ritorno anche il buonumore.
Il
mio voto: ★★★½
Il
mio consiglio musicale: Indochine – Song for a Dream