Come si può convivere con il fantasma di ciò che è stato e lo spettro di ciò che non sarà mai? Non si può, ecco perché si muore. Non invecchiamo a forza di vivere la vita, ma a furia di ricordarla.
Autrice:
Lavinia Petti
Editore:
Longanesi
Numero
di pagine: 426
Prezzo:
€ 14,90
Sinossi:
Antonio
M. Fonte è uno scrittore di enorme successo, ma per lui fama e
ricchezza non hanno alcun significato. Stralunato e sociopatico, vive
in una vecchia casa dei Quartieri Spagnoli di Napoli con la gatta
Calliope, e se non ci fosse il suo agente letterario a ricordargli
scadenze e doveri sarebbe incapace di distinguere ciò che è reale
da ciò che forse non lo è. Ma un giorno, in mezzo alle migliaia di
lettere dei suoi ammiratori, Antonio ne riceve una che non può
ignorare. Datata quindici anni prima, è indirizzata a una donna che
Antonio non crede di avere mai conosciuto. Solo il nome del mittente
gli è familiare, perché è il suo. Quella lettera l'ha scritta lui,
senza alcun dubbio. Quelle parole accennano a un ricordo smarrito e a
un uomo che è stato ucciso, forse da lui stesso. Ma Antonio di tutto
questo non ricorda nulla. Il giorno del suo cinquantesimo compleanno,
si perde nei vicoli di Napoli e in un palazzo mai visto prima
incontra uno strano personaggio che ha la mania di raccogliere tutto
ciò che gli uomini perdono: nel suo Ufficio Oggetti Smarriti non si
trovano solo mazzi di chiavi, libri o calzini spaiati, ma anche
ricordi di giochi infantili, amori giovanili, speranze e sogni
dimenticati. Antonio intuisce che è da lì che deve partire per
ritrovare il filo del suo passato e risolvere l'enigma della lettera.
Ma quell'enigma nasconde arcani ancora più insondabili: il segreto
di una città che cambia forma e aspetto, l'avventura di un viaggio
imprevedibile...
La recensione
Mi
è sempre piaciuto mettermi nei panni degli altri: sarà per questo
che ho cominciato a leggere. Da bambino, ad esempio, mi immaginavo
dall'altra parte della cattedra quando arrivava la bella stagione e,
a scuola, ci si doveva dire arrivederci. A volte buona estate, a
volte buona vita. Si sentivano tristi per un po', gli insegnanti,
quando una classe - e gli alunni che avevano conosciuto attraverso
quei pensieri segreti messi a nudo nelle tracce libere - abbandonava
le medie per le superiori o, ancora, le superiori per l'università,
sempre che la voglia di studiare non si fosse esaurita strada
facendo? Soffiavano spifferi o vento di tempesta all'alba di un
altro rinnovo generazionale? Ma sapete poi che noia imparare i nomi e
i cognomi, decifrare le calligrafie, aguzzare i sensi per conoscere i
ritmi e i tempi di ogni testa pensante? Ma sapete che gioia
passeggera, eppure, quando il dubbio ti faceva sognare e, al momento
dell'appello, cominciavi ad associare i nomi ai volti - e se quel
Simone aveva tutta l'aria di un Paolo, pazienza - e a fantasticare su
chi avesse la stoffa giusta per farcela? Mi sono sempre piaciuti i
primi giorni per la magia delle cose che nascono. Bisogna esserci col
brutto anatroccolo, il girino, il bruco, il primo passo mosso su un
pianeta ritrovato: sarà per questo che, da quando c'è il blog, ho
cominciato a seguire come un'ombra amica gli esordienti italiani. Se
mi piacciono, mi ci affeziono e non li mollo più. Come è successo
con Carrisi (che mi inquieta), la D'Urbano (che mi ferisce) e la
Gazzola (che mi fa bene), di cui ho parlato così tanto, ma così
tanto che alla fine neanche loro hanno saputo ignorarmi più. A
partire da oggi, succederà lo stesso con Lavinia Petti (che se in
futuro ci regalerà un libro bello anche solo la metà di Il
ladro di nebbia avrà le mie
attenzioni, purtroppo per lei, fino alla pensione). E dire che ero
scettico sul romanzo che, per dispetto, mi avrebbe strappato, di lì
a qualche giorno, le prime cinque stelle dell'anno corrente. Troppo
presente l'ombra di Zafòn - e del vento - nel titolo e in quella
copertina rosa antico con gli stormi in volo e i ladri di storie in
fuga; troppa pubblicità, e io che non sono mai stato bravo a distinguire se c'è l'imbroglio oppure no; devo sbatterci la
testa per accorgermene. Invece, sin da quando l'ho iniziato a
sfogliare in treno e per un pelo non stavo per scendere alla fermata
sbagliata, Il ladro di nebbia
mi si è piantato qui, nella mia testa perdutamente tra le nuvole.
Uno scrittore misantropo, il ritratto di una donna misteriosa, una
Napoli labirinto splendida come nell'ultimo Garrone, una torre
campanaria che compare dal nulla quando perdiamo la memoria insieme
alla retta via: cinquanta pagine e la fascinazione aveva già avuto
la meglio. Anche se per il meglio c'erano ancora quattrocento pagine
d'avventure e un mondo straordinario da scoprire al capitolo
successivo. Stravedevo per i piccoli dettagli sul brusco Antonio M.
Fonte, quando non avevo ancora visto la grandezza sorprendente del
disegno finale. Come quella volta in cui avevo perso la scatola del
puzzle e avevo assemblato le tessere alla cieca: tanta fatica per
scoprire che non era un pezzo dell'impressionismo francese, ma era
stato emozionante uguale il lento arrivo alla conclusione che
fosse una natura morta da niente e non un capolavoro da museo. Un po'
succede così con Il ladro di nebbia,
però al contrario. Partire dal pregiudizio che sia il lavoro di una
brava falsaria e approdare alla conclusione che di Zafòn – per
anni, tra i miei scrittori preferiti – ci sia la benedizione e poco
altro; il fantasy della Città delle Sirene, come quel caffè che
sul a Napule sanno fa', ha un gusto da
provare. Nei Quartieri Spagnoli, al sesto piano di un palazzo che ne
ha solo cinque, c'è il portale per il regno di Tirnaìl. Un
ascensore che conduce sulla terrazza che non c'è e conoscere Edgar,
un pittore in cerca d'ispirazione che dipinge le sue tele con tutte
le sfumature del bianco.
Un salto a Vanesia, città in cui si vendono
e acquistano sogni, e cercare di comprare all'Asta delle Illusioni
l'amore di una ragazza dai capelli verdi conosciuta in un'altra vita,
Gèneve: quando sul bordo di un fiume la notte dei cristalli
produceva il suono più struggente e ci si era lasciati al tramonto,
prima della scelta consapevole dell'oblio. E, mi raccomando, occhi
aperti: i Nox del Conte Vampiro – con l'ausilio della notte –
potrebbero desiderare il tuo sangue dolce e i tuoi ricordi felici! Ma
i numeri sull'orologio stanno svanendo, il tempo sta per finire: e,
con lui, stai per finire
anche tu. Gatti che spiano i nostri sogni, nomi barattati per un
sorriso, pescatori in cerca dell'odore del mare, ballerine che hanno
scordato i passi base, treni da prendere al volo e vite che – in
girotondi che non finiscono più – tornano a bussare alla porta
travestite da quello che non sono. Rincontrarsi, se tutto va bene,
alla fine del mondo. Dirsi ti amo
ma anche buon viaggio.
Riuscirà lo scrittore più scorbutico, Antonio, a salvare la storia
più importante, la sua? L'erba della collina di Mnemosia quale
doloroso ricordo gli sussurrerà? Quante domande, quante storie in
una e, soprattutto, quanta bravura. L'arzigogolata e romantica “storia
infinita” di Lavinia ha i toni surreali - e i capelli multicolore,
e i "se mi lasci ti cancello" - del cinema di Gondry; i mondi
fatati di papà geniali, come in Big Fish
e Al di là dei sogni;
paesi delle meraviglie e maghi di Oz in gran quantità. Viaggia un
po' sulle ali del buio, un po' sua una Fiat Panda scassata, quando è
stanca. Dovrebbe
essere, perciò, uno di quei romanzi con all'interno una cartina
disegnata a mano. Una favola di libro - in tutti i sensi - con bambini di cinquant'anni come protagonisti. E se la dimenticanza di chi in
un anno legge troppo dovesse minacciarlo, sarei pronto – come Orlando sulla luna, con il suo senno disperso – a cercarlo
nell'Ufficio Oggetti Smarriti; oltre le mie colonne d'Ercole.
Il
mio voto: ★★★★★
Il
mio consiglio musicale: Paolo Conte – Vieni via con me (It's
Wonderful)