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La vita bugiarda degli adulti, di Elena Ferrante. E/O,
€ 19, pp. 336 |
Gli
addii mi rendono codardo. Sono arrivato alla fine di
Storia di chi fugge e di chi resta – il quarto romanzo della
tetralogia già in attesa sul mio comodino da un po’ – e ho
preferito fare dietrofront all’ultimo. Non sono bravo con i
congedi: soprattutto se, come in questo caso, si tratta di un a mai
più rivederci. Allora prendo tempo. A novembre, così, ho rimandato
a data da destinarsi la lettura del capitolo conclusivo – spero
comunque di riuscire entro l’anno –, barattando il vecchio con il
nuovo, una fine con un inizio. Una Ferrante con un’altra. Ancora
una volta circondata da un’aura di mistero, la “scrittrice
geniale” mi ha dato la scusa per procrastinare il giorno del
commiato con un romanzo da scoprire prima che il passaparola
togliesse il piacere della sorpresa.
La vita bugiarda degli adulti
è una storia tutta nuova, ma restano le costanti fondamentali:
una scrittura straordinariamente densa, gli alti e bassi di una
narratrice adolescente talora difficile da perdonare, le
contraddizioni di una città percorsa questa volta al contrario. Dal
basso verso l’alto, dal Vomero al Pascone. I nostalgici del rione
si sentiranno subito a casa, in un racconto di maturazione debitore della crescita di Lila e Lenù: prima bambine, poi donne, in un
quartiere lontano dal baluginare del mare. Ricordate la galleria
che a un certo punto le due percorrono mano nella mano, pur di
affrancarsi dal giogo delle famiglie?
L’amore
è opaco come i vetri delle finestre dei cessi.
Somiglia
a un tunnel anche la libertà secondo Giovanna, tredicenne che compie
invece il viaggio opposto: figlia della Napoli bene, si cala lungo
una discesa tanto fisica quanto metaforica. A muovere la scarpinata è
una cattiva parola pronunciata dal padre, professore ateo e
alto-borghese, che d’un tratto reputa insopportabile i
comportamenti della sua unica figlia. La bambina d’oro,
all’improvviso, ha rinunciato a una camera rosa confetto
per un vestiario succinto e tinto di nero. Ossessionata dal proprio
riflesso allo specchio, non si sente all’altezza di quei genitori
belli, colti e innamorati. Colleziona brutti voti, assesta
rispostacce, s’incattivisce. Cose che succedono nell’età in cui
il corpo si arrotonda nei punti giusti e l’animo, al contrario, si
fa spigoloso. Ma Giovanna, a torto, si crede sola e incompresa. E
frugando negli album di famiglia finisce per identificarsi con zia
Vittoria, cancellata nelle fotografie a colpi di pennarello
indelebile. Che lo scuorno della parente, rinnegata perché
innamorata di un uomo già sposato, si sia abbattuto anche sulla nipote? Quante frequentazioni del ramo
paterno sono state negate alla protagonista, scesa ora dalla
proverbiale torre d’avorio?
Poi
sussurrò in dialetto: scusa, non ce l’ho con te, ma con tuo padre;
quindi mi infilò una mano sotto la gonna colpendomi lievemente, più
volte, col palmo della mano, tra la coscia e la natica. Mi disse
all’orecchio, ancora una volta: guardali bene, i tuoi genitori, se
no non ti salvi.
Giovanna
si sente a casa soltanto al terzo piano di un
condominio imbrattato dalle scritte oscene, a tu per tu con la
vergogna dei Trada. Vestita d’azzurro, magrissima e dal petto
prosperoso, Vittoria ha le sopracciglia torve ma nasconde un animo
romantico: si emoziona ancora parlando di Enzo, l’amante morto diciassette anni prima; balla nel salotto e invita
Giovanna a seguirne i passi; racconta i dettagli più scabrosi del
sesso e della vendetta, a zonzo su una Cinquecento verde che conduce
la protagonista in un lungo tour del parentado, della fede e del
dialetto. A ben vedere, chi è la persona davvero
realizzata della famiglia? Bisogna biasimare la sguaiataggine della
zia, o forse il perbenismo di un castello alto-borghese costruito su una
polveriera pericolosissima? Inquadrata tra i tredici e i sedici anni,
dalle scuole medie al ginnasio, la narratrice imparerà nell’arco
del saliscendi un lessico sboccato e qualche rara preghiera.
Asseconderà domande scomode, sensi di colpa, prurigini. Risponderà
al nome di Giovanna in presenza delle amiche ricche, Ida e
Angela, ma sarà semplicemente Giannina per i più ruspanti Giuliana,
Corrado e Tonino. A piacimento, talpa e spola.
Leggere
La vita bugiarda degli adulti è come accarezzare le ortiche.
Immersa fino ai gomiti nella materia viscida e pungente della prima
adolescenza, l’impavida Ferrante spia sotto le incerate dei tavoli
e dai buchi delle serrature. Ama sporcarsi, con una scrittura paurosa
e scintillante come il sangue vivo, ma protegge dagli schizzi del suo
gran frugare il bracciale d’oro bianco ritratto sulla copertina: simbolo d'un passato furfante, falsato ad arte dal
restauro dei ricordi, il gioiello passa da un polso all’altro e
sembra portare disgrazie. Ma a lezione di stile e
d’introspezione psicologica dall'autrice capiamo che la
superstizione non esiste, idem il caso. I casi editoriali,
quelli belli, per fortuna sì.
«Poi
c’è la cosa che alla tua età è la più difficile: onorare il
padre e la madre. Ma ci devi provare, Giannì, è importante». «Il
padre e la madre non li capisco più». «Li capirai da grande».
«Allora non diventerò grande».
Elena Ferrante ci
ha abituati alle fragilità dei suoi personaggi, a finali bruschi, mai alla portata del suo talento. Si ripete. E mi ripeto
anch’io. Impossibile non rimanere avvinti dal vigore della sua
prosa; altrettanto non entrare nei suoi drammi, magari vestiti di
tutto punto, fino a insudiciarsi di verità e altre sozzure.
All’inizio divorato, poi centellinato per paura mi andasse di
traverso, il nuovo romanzo ha la scrittura più preziosa dell’anno
e la protagonista più antipatica. Guidato dalle
secrezioni ghiandolari dei suoi personaggi, non dagli eventi, lo si
ama e lo si odia insieme: compreso quell’epilogo della discordia,
brusco come un colpo d’ascia, che in rete fa pensare a un’altra
tappa della vita di Giovanna, all’arrivo di un altro testo
complementare per dare un senso aggiunto a questa giovinezza: allo
sbando, come d’altronde lo sono tutte indistintamente. Un fatto è certo.
Chiunque sia, dovunque viva, non importa quanti
anni abbia, Elena Ferrante dev’essere rimasta un po’ bambina. I grandi mentono per istinto di sopravvivenza. Lei, invece,
ha l’onestà infantile di chi li biasima, li guarda tutti dal basso
verso l'alto, li apostrofa. Avrà alimentato sotto banco la sua
curiosità infantile, le braci incandescenti dei suoi anni sfacciati. Nasconde a media e pararazzi, adesso, un prodigio:
quello di non essere mai diventata adulta.
Il
mio voto: ★★★★
Il
mio consiglio musicale: Billie Eilish - Bury a Friend