Una
modella che tarda ad arrivare, un dipinto che ha bisogno delle ultime
pennellate, quel marito artista che accetta
di posare per lei, giovane pittrice in cerca d'affermazione. Le
scarpe con il tacco sono strette, le calze stringono, ma la
sensazione della seta addosso risveglia in lui la metà negata.
Gerda e Einar assecondano
di comune accordo l'emergere del lato femminile di lui: un po' di
trucco, un vestito d'alta sartoria, una parruccha rossa... et
voilà. Lili si risveglia, a una festa, con il bacio di uno
sconosciuto, come nelle favole. E la favola la vive, ma di nascosto.
La moglie paziente, nel mentre, piange in silenzio e sopporta. Il mistero di ciò che ha dentro, in
testa, si abbatte anche sul corpo. Una dolorosa trasformazione
psicofisica e Lili, mondana ed egoista, prende il
sopravvento. Come un'amica immaginaria persa crescendo, che torna a
sorpresa alla nostra porta e reclama il suoi spazi vitali, assieme ai
nostri. C'è chi vorrebbe imprigionare Einar in una camicia di forza,
il disturbo mentale è il verdetto; ma c'è chi, come Gerda, fedele fino all'ultimo, sa che Lili, un giorno,
potrà diventare una farfalla. Un corpo che non
calza a pennello, una straziante storia vera e, allo scorso Festival di Venezia, si era già sicuri che The Danish Girl
si sarebbe fatto valere alla notte degli Oscar. Un amore
trascendentale, un'altra trasformazione e, alla
macchina da presa, il Tom Hooper così caro
all'Academy. “E'
stato come baciare me stessa”,
racconta una Alicia Vikander qui
dolce e risoluta, parlando del primo incontro con il marito artista.
Nei quadri, infatti, lei lo vede già donna. Tra sé e sé,
pensa in anticipo a una trasformazione mai tentata. La mente
non metabolizza ancora, eppure la pittura – sfogo, immediatezza – accetta con facilità l'inaccettabile.
Eddie Redmayne, ancora una volta con un ruolo ipercaratterizzato e
arduo – e non perché la questione sia tabù, ma perché in Stephen
Hawking, così come nei meandri di Lili, c'è il serio rischio di non
uscire più -, veste per la prima volta abiti femminili e due
personaggi. E, ancora una volta, lascia scossi e toccati. Einer,
contrito e provato nella mascolinità, e la sua controparte nascosta,
al contrario colorata e frivola: tra i due estremi, l'uomo e la
donna, uno sconcertante lavoro di introspezione, un Redmayne
particolarmente grazioso en travesti e
un cambiamento che il maniacale lavoro di mimetismo palesa agli
occhi. Da effeminato, con gli svolazzi delle mani e il passo
danzante, ci dà poi l'impressionante illusione di cambiare pelle;
alla fine, è Lili. Quand'è che un attore è il migliore della sua categoria, mi
ha chiesto mio fratello durante la visione? Quando fa la differenza. Quando non permette che il film, senza di lui, abbia
ragione d'essere. Se fosse per me, allora, en plein per un giovane
interprete che, per il secondo anno consecutivo, ha la sfacciata fortuna di
imbattersi nel ruolo di una vita e in una partner
tanto comprensiva, tanto grande, quando lo fu la Jones. Hooper,
raffinatissimo, porta un Redmayne in stato di grazia, di
nuovo, e la splendida Alicia in un quadro di quelli di Gerda. C'è
tanta bellezza, dunque, ma non mancano nemmeno il corpo, l'eros, il
dolore di lui – che urla, e nessuno lo sente – e quello di lei –
vittima dell'amore eterno nei riguardi del solo uomo che non potrà
mai avere. Fino alla poetica immagine finale, almeno:
una sciarpa che vola, il ricordo di un aquilone, il resoconto al
mattino di un bel sogno. E Gerda che ha paura di svegliare
bruscamente loro – dove inizia Einar e dove la sua controparte,
ormai, non si sa più - e noi spettatori. Sonnambuli senza riposo e,
tanta è stata l'emozione, senza più lacrime. (8)
Miglior film straniero
Turchia, giorni nostri. L'ultimo giorno di scuola, come accade ovunque, genera euforia, qualche lacrimuccia, il baccano degli studenti felici e contenti, con tutta un'estate di dolce far niente all'orizzonte. Come accade nella mia città, ad esempio, e in tutte quelle a un passo dal mare, si corre in spiaggia al suono della campanella e ci si schizza l'acqua salata in faccia. La si schiva tra una risata e l'altra e le ragazze, punzecchiate, si aggrappano al collo dei ragazzi: a cavallo, accolgono la bella stagione. Ma per cinque ragazze turche, cinque sorelle, quel gesto di giovanile avventatezza è l'inizio della fine. Sarà, per loro, l'ultima estate da trascorrere insieme. Una vicina chiacchierona, comportamenti sconsiderati e improvvisamente, attorno alla loro casa, sorgono le sbarre di un carcere e fioccano visite di indiscreti pretendenti. Le orfane di Mustang, il film franco turco che avrà il mio sincero sostegno alla notte degli Oscar – e non solo perché ho visto solo questo all'interno della cinquina, per quest'anno -, hanno gli occhi chiari, la pelle abbronzata, i capelli lunghi lunghi. Sono bellissime, in età da marito, stando ai ragionamenti degli adulti, e indomabili. La più piccola delle sorelle, schietta e ribelle, racconta queste piccole donne appese ai cornicioni e sui trespoli della loro gabbia dorata, queste verigini suicide che d'amore talora vivono e taloro muiono. Qualcuna si sposerà per desiderio, qualcuna per ordine di uno zio normativo o di una simpatica nonna che poco ha voce in capitolo e qualcuna, come la giovane narratrice, imparerà a guidare e, in segreto, a sognare una Istanbul che sembra un pianeta a parte. Uscito lo scorso autunno in Italia, il promettente, potente esordio di Deniz Gamze Erguven ha rari difetti, anzi, due: quell'etichetta di film drammatico, serio e rigoroso, che un po' stretta gli sta, e la pigrizia, che poi sarebbe un difetto giusto mio. Recuperato più per dovere che per voglia, Mustang si è rivelato un film diverso – sarà che il film straniero, comunemente, lo si immagina lungo, indipendente, di nicchia –, bello, toccante. Fresco e colorato, nonostante il tema ti mostri la tragica realtà delle spose bambine e gli strascichi di una antiquata società patriarcale, per gran parte del tempo è una commedia adolescenziale orientaleggiante, con l'estate delle grandi scelte e la sensazione di vivere per sempre. Sgattaiolare di nascosto, avere rapporti sessuali preservando la verginità, abbandonare gli studi per diventare perfette massaie: ci si stringe insieme, si stringono denti e pugni, e crescere – scoprirsi donne, mogli: oggetti – pare l'ennesimo gioco spensierato. Mustang, modernissimo e pieno di ottimismo, ha un cuore che pompa, le mille contraddizioni del suo Paese affascinante e terribile e cinque eroine come poche. Contro le lenzuola da sbandierare, con impressi i segni rossi della prima notte di nozze, e le tradizioni medievali dei loro avi, queste sorelle di un cinema francese che non delude si fanno scudo. Proteggono noi dalla pesantezza in agguato, se una simile storia fosse stata raccontata con altri toni, e praticano squarci alle loro brutte gonne per mostrare le gambe. Senza il velo, a capelli sciolti, nel vento. E trasformano la loro realtà, così, da prigione a baluardo, da dramma a commedia, facendo di Mustang il film di cui più ti penti per l'imperdonabile ritardo del recupero. (7,5)
Turchia, giorni nostri. L'ultimo giorno di scuola, come accade ovunque, genera euforia, qualche lacrimuccia, il baccano degli studenti felici e contenti, con tutta un'estate di dolce far niente all'orizzonte. Come accade nella mia città, ad esempio, e in tutte quelle a un passo dal mare, si corre in spiaggia al suono della campanella e ci si schizza l'acqua salata in faccia. La si schiva tra una risata e l'altra e le ragazze, punzecchiate, si aggrappano al collo dei ragazzi: a cavallo, accolgono la bella stagione. Ma per cinque ragazze turche, cinque sorelle, quel gesto di giovanile avventatezza è l'inizio della fine. Sarà, per loro, l'ultima estate da trascorrere insieme. Una vicina chiacchierona, comportamenti sconsiderati e improvvisamente, attorno alla loro casa, sorgono le sbarre di un carcere e fioccano visite di indiscreti pretendenti. Le orfane di Mustang, il film franco turco che avrà il mio sincero sostegno alla notte degli Oscar – e non solo perché ho visto solo questo all'interno della cinquina, per quest'anno -, hanno gli occhi chiari, la pelle abbronzata, i capelli lunghi lunghi. Sono bellissime, in età da marito, stando ai ragionamenti degli adulti, e indomabili. La più piccola delle sorelle, schietta e ribelle, racconta queste piccole donne appese ai cornicioni e sui trespoli della loro gabbia dorata, queste verigini suicide che d'amore talora vivono e taloro muiono. Qualcuna si sposerà per desiderio, qualcuna per ordine di uno zio normativo o di una simpatica nonna che poco ha voce in capitolo e qualcuna, come la giovane narratrice, imparerà a guidare e, in segreto, a sognare una Istanbul che sembra un pianeta a parte. Uscito lo scorso autunno in Italia, il promettente, potente esordio di Deniz Gamze Erguven ha rari difetti, anzi, due: quell'etichetta di film drammatico, serio e rigoroso, che un po' stretta gli sta, e la pigrizia, che poi sarebbe un difetto giusto mio. Recuperato più per dovere che per voglia, Mustang si è rivelato un film diverso – sarà che il film straniero, comunemente, lo si immagina lungo, indipendente, di nicchia –, bello, toccante. Fresco e colorato, nonostante il tema ti mostri la tragica realtà delle spose bambine e gli strascichi di una antiquata società patriarcale, per gran parte del tempo è una commedia adolescenziale orientaleggiante, con l'estate delle grandi scelte e la sensazione di vivere per sempre. Sgattaiolare di nascosto, avere rapporti sessuali preservando la verginità, abbandonare gli studi per diventare perfette massaie: ci si stringe insieme, si stringono denti e pugni, e crescere – scoprirsi donne, mogli: oggetti – pare l'ennesimo gioco spensierato. Mustang, modernissimo e pieno di ottimismo, ha un cuore che pompa, le mille contraddizioni del suo Paese affascinante e terribile e cinque eroine come poche. Contro le lenzuola da sbandierare, con impressi i segni rossi della prima notte di nozze, e le tradizioni medievali dei loro avi, queste sorelle di un cinema francese che non delude si fanno scudo. Proteggono noi dalla pesantezza in agguato, se una simile storia fosse stata raccontata con altri toni, e praticano squarci alle loro brutte gonne per mostrare le gambe. Senza il velo, a capelli sciolti, nel vento. E trasformano la loro realtà, così, da prigione a baluardo, da dramma a commedia, facendo di Mustang il film di cui più ti penti per l'imperdonabile ritardo del recupero. (7,5)
Michael Stone è
un eterno passeggero. Vive viaggiando e, per lavoro, dà consigli
agli altri. Una notte di pioggia l'ha portato a Cincinnati per il
lancio del suo ultimo best-seller e, orgoglioso e cauto, si tiene
stretto il suo accento britannico e il suo bagaglio a
mano. E' ospite al Fregoli: un hotel stellato che gli offre una
spaziosa camera per fumatori all'ultimo piano e, a
sorpresa, una conoscenza che farà la differenza. Lì, l'indaffarato Michael incrocia la stralunata Lisa, e potrebbe avere
inizio così una di quelle chiacchieratissime, poetiche commedie
romantiche che piacciono a me. Hanno dolori e vite intense e una
notte insieme prima di
separarsi. A parole mie, Anomalisa è
una storia d'amore alternativa, molto nelle mie corde:
metteteci anche i protagonisti di mezza età, il sesso imbarazzato,
gli ambienti circoscritti, i dialoghi a opera di un signore
scrittore. In pratica, invece, soprattutto se sceneggiato e diretto dalla mente di Eternal Sunshine of The
Spotless Mind, diventa più
originale e bizzarro del previsto: ci sono due grandi attori –
David Thewlis e Jennifer Jason Leigh: quest'ultima, straordinaria
ancora una volta, dopo l'exploit con Tarantino – ma doppiano tozzi
omini in stop motion; la romcom, perfino nell'esplicito rapporto sessuale, si fa a cartoni; i personaggi che popolano
l'hotel e il mondo, fatta eccezione per i due protagonisti, hanno
tratti anonimi e la stessa voce. Le figure di Kaufman, nonostante le
prodezze dell'animazione, hanno sul viso quella che ha tutta l'aria
di essere una maschera posticcia. Come mai, ci si domanda, e perché
Lisa, eppure non bellissima, non brillantissima, è l'impensata variabile nel mondo dello scrittore sempre a zonzo? Lo psicoanalitico Anomalisa
ci dà molte chiavi di lettura e, allo stesso tempo, nessuna in
particolare. Candidamente, si potrebbe dire che abbiamo bisogno di una sola voce, purché sia quella giusta, per sorridere alla vita. Documentandosi
un po', invece, si scoprirebbe tutt'altro: ad esempio, riferimenti
criptici nel nome stesso dell'albergo che fa da sfondo. Fregoli, trasformista italiano, ha dato
il nome all'omonima sindrome: un raro delirio in cui il malato si sente braccato da
una persona che cambia aspetto e, stando a lui, si camuffa per confondergli le idee. Ecco il
perché dei volti simili ma diversi, delle voci omologate. Se la
prima parte – introspettiva, tenera, logorroica – fa del film un gioiello, la seconda – più visionaria, sbrigativa – lascia confusi, soddisfatti a metà. Ma
venti minuti irrisolti possono forse cancellare una
splendida ora introduttiva? Un Freud ci andrebbe a nozze, il nostro
Pirandello avrebbe tanto da ridire sulle maschere, gli esseri
umani e sui misteri
insondabili della nostra psiche. Io, pur non apprezzandolo al cento
percento, con qualche forte riserva legata alla vaghezza della chiusa,
ho trovato che in Anomalisa ci
fosse tanta, ma tanta di quella umanità... Pur parlando di
disumanizzazione, tra le righe. Pur essendo fatto, a prima vista, di tanti cliché sull'anima gemella e plastilina. (7)