Tito
e Anita, rimasti soli al mondo, fanno in fretta i bagagli per il
Nevada. Adesso non hanno che uno zio, vedovo malinconico e
cronicamente introverso, che possa prendersi cura di loro. Sanno che
lì, lontano lontano, dall'altra parte dell'Oceano, fa lo scienziato:
lavora in un osservatorio – anzi, un ascoltatorio, verrebbe da dire
col senno di poi – in cui interpreta il cielo, le stelle, e ciò
che hanno da svelarci. Il bambino sogna gli ufo e non ha mai smesso
di chiedere di mamma e papà. La bambina, quasi donna, civetta con i
militari e cura ogni animale randagio con la Citrosodina tritata.
Dall'Italia, i piccoli immaginavano le luci di Las Vegas, le ville
con piscina e Lady Gaga come vicina di casa. Trovano invece un parente
sconosciuto, burbero ma di buon cuore, che ha dato a una macchina il
nome di Linda, la moglie defunta, e non crede di poter ricambiare le
tenerezze di una adorabile Clemence Posey. Trovano invece un modo
tutto loro per intaccare quella solitudine siderale. Per ritrovare
loro stessi su questa stessa terra, non scomodando né gli
extraterrestri né sfidando l'impossibile velocità della luce. Un
po' come me, che un pomeriggio sono finito a vedere Tito e gli
alieni a sorpresa, a scatola chiusa. E, nel primo film italiano
presentato al festival, ho scoperto un piccolo gioiello un po'
napoletano e un po' americano, con un po' di Little Miss Sunshine
e un po' di Her. La commozione a un passo dai titoli di coda,
i volteggi surreali della macchina da presa e la magia di un ritratto
di famiglia all'improvviso, all'ombra dell'Area 51.
Perseguitati dal dolore e dal destino come nell'ultimo Lonergan, i
teneri “scugnizzi” di Paola Randi interrogano il loro tutore sul
senso della vita, della morte, dello stare insieme. Un magnifico
Valerio Mastandrea – che alieni, all'inizio, considera soltanto i
suoi nipoti da accudire – si imbatte nelle risposte giuste
ricercandole per amor loro, e il bello è che a sua volta se ne
convince. Quali sono i confini della volta celeste, degli Stati
Uniti, della memoria del cuore? Qual è la voce dell'universo, e cosa
ti dirà mai? Tito e gli alieni gli
parla, sì, e invita a credere fermamente anche uno scettico come me.
Che pensava che il dolore, l'abbandono, fossero vita natural durante.
L'universo qualche volta risponde. E ha la voce delle commedie
fantascientifiche, quelle più belle ancora perché rigorosamente a
chilometro zero, e delle persone che hai amato e sempre amerai. Anche
lontano dagli occhi, fra le dune roventi e queste stelle che muoiono.
(7,5)
Avevo
apprezzato ma non troppo Smetto quando voglio.
Il primo liquidato in poche righe come carino e poco più, non
sapendo ancora ci fossero seguiti in arrivo. Il secondo, invece, per
me sbrodolato e tutt'altro che indispensabile, è un commento su Word
– altrettanto stringato, ma più netto – che non ho mai avuto
voglia di postare sul blog. Vedere in anteprima il terzo e ultimo
capitolo, con parte del cast in sala, il regista e i produttori
Matteo Rovere e Domenico Procacci, e farsi un selfie al volo con un
gentilissimo Neri Marcorè (troppo brutto, però, per condividerlo
sui social). Ad Honorem,
onestamente, non era tra le mie priorità. Avevo l'abbonamento, e ho
detto perché no. Questa mia freddezza, nonostante un pubblico
fervente, le risate in sala e una tifoseria ormai nutrita della nota
squadra dei ricercatori. O forse proprio per quello: il troppo
parlarne, il troppo sopravvalutarlo? Con attese nettamente
ridimensionate, dopo quel Masterclass di
cui conservavo un po' di noia e ricordi flash, sono tornato dagli
spiantati trafficanti di Sydney Sibilia. Dietro le sbarre, separati,
ma eccezionalmente riuniti a Rebibbia in attesa di processo. Tocca
pianificare una spassosa evasione, se Luigi Lo Cascio – cattivo in
cerca di vendetta, spiace dirlo non a suo agio con la commedia
brillante – vuole avvelenare La Sapienza con del gas nervino,
approfittando delle migliori (o peggiori) personalità italiane lì
in riunione. Trattati come criminali, si improvvisano eroi. In Ad
Honorem, i
soci di Edoardo Leo ripongono l'ascia da guerra contro il Paese che
li ha falciati e, in fuga, cercano di salvare l'università che è
stata la loro casa. Il mondo intero. Al solito, spiccano le
ipocondrie di De Rienzo, la fisicità e le inaspettate doti canore di
Fresi e, questa volta, la doppiezza di un Marcorè affascinante anche
imbruttito (e abbruttito), come notavano le mie vicine di posto. Gli
omaggi non si contano, ed è palese quello a una scena di Lost
con
i Coldplay in sottofondo. La fotografia resta acidissima, le battute
vincenti e i ritmi concitati, la sceneggiatura assolutamente ben
orchestrata. Breaking
Bad: punto di riferimento sempiterno. Da spacciatori a salvatori fai da
te, i ricercatori ricercati di Sibilia sanno come uscire di scena, in
una conclusione divertente e degna anche per chi, fino all'ultimo, si
è mostrato come me poco entusiasta del progetto. Troppo tu
vuò fa' l'americano,
forse, per farmelo insierire tra le bellezze di un cinema italiano
che, da un paio d'anni appena, ha finalmente bevuto un sorso alla
fonte della nuova giovinezza. (6,5)
Riccardo
torna a casa. Storpio, assetato di vendetta, brutto ma dalla voce
bella. Con quella di un camaleontico Massimo Ranieri,
precisamente, ci canta in apertura l'inverno del nostro scontento.
Riccardo torna a casa, in un regno fittizio che altro non è che una
borgata romana di poveracci arricchiti, e ha una lunga lista di
persone a cui farla pagare. L'hanno accusato del crimine più infame.
L'hanno chiuso in una clinica psichiatrica per tutta la vita,
alimentando con cattiveria aggiunta una natura già instabile e
malevola. Riccardo, che nel suo covo segreto ha grotteschi ma
irresistibile scagnozzi che somigliano alla versione horror dei
Minions, è il principe folle di William Shakespeare. Un uomo senza
scrupoli e senza speranza che nel ritorno alla regia dell'innovatrice
Roberta Torre – suo il kitsch Tano da morire,
a cui tutto deve un Ammore
e Malavita
– si trasferisce dall'Inghilterra ottocentesca all'Italia
post-moderna, dal blank verse al musical più psichedelico. Canta,
circondato da figuranti bizzarri, ballerini in latex e scenografie
barocche, e mira a rovesciare la regina di una magnetica Sonia
Bergamasco – tirata e bionda come Amanda Lear, diverte e ruba a
mani basse la scena al protagonista assieme alla sorella di
Silvia Gallerano, sensuale Barbie Xanax a un passo dal baratro.
Chi è davvero sano? Chi, in definitiva, ha le mani pulite? Si
impilano morti ammazzati, ritornelli e stranezze. Pistole dai calci
glitterati, teschi con diamanti per occhi, scene pulp. Così lontane
dall'intrattenimento di cuore ma realizzato molto alla buona dei Manetti
Bros. Da un cinema commerciale che, forse, non avrebbe avuto la
stessa spavalderia della Torre nel risultare ambiziosa, presuntuosa,
prendendo Shakespeare per vestirlo da un videoclip di Gaga, dal
Refn che più divise Cannes. Il difetto: una sceneggiatura che dalla
tragedia shakespeariana perde il dolore, la potenza, scegliendo di
investire talenti ed energie sui dettagli più piccoli della messa in
scena. A quella, ipnotica e psichedelica, gli occhi. Le orecchie,
invece, aguzzate per ascoltare i versi (e le canzoni) di un Bardo
rock, dark, in una trasposizione – l'ennesima, verrebbe da dire, e invece no –
che non lo prende alla lettera, ma ce ne ricorda l'attualità
sconcertante. E la sconsideratezza di qualche film italiano che sa
stupire e stranire, visivamente e non solo, assicurando che in
questi inferni metropolitani e metaletterari ci si diverte molto più
che fra gli angeli del paradiso. (7)