Quest'anno ho letto un libro di cui non farò il titolo. Una lettura, altrove molto chiacchierata, che mi ha fatto pensare: l'autore è più interessante della storia che racconta. Oggi, in editoria, cosa conta: l'immagine o la parola? Quanti esordienti raggiungono la fama poiché aiutati dalle caratteristiche richieste dell'algoritmo? Con risentimento, se lo domanda June: talentuosa ma non abbastanza interessante, ha assistito all'ascesa di Athena, una compagna di college brillante ma, soprattutto, benedetta dalla fortuna.
L'invidia viene sempre descritta come un livore tagliente e velenoso. Un'acredine infondata e meschina. Ma ho scoperto che per gli scrittori l'invidia assomiglia di più alla paura. L'invidia è quell'impennata del battito cardiaco tutte le volte che leggo dei successi di Athena su Twitter. L'invidia è ciò che provo quando mi paragono a lei e ne esco costantemente sconfitta, è il panico che mi prende quando penso che non scrivo abbastanza bene o abbastanza in fretta, quando sento che non sono, né sarò mai, all'altezza.
Asiatica, queer, fotogenica, rappresenta uno schiaffo al predominio della cultura bianca. Autrice giusta nel momento giusto, benché poco attiva nella comunità asiatica e non sempre solidale con le altre donne, ha un contratto con Netflix e un altro successo in rampa di lancio: alla macchina da scrivere, infatti, ha battuto un romanzo top secret sul ruolo della manodopera cinese nella Grande guerra. Essere bianca, etero, media, significa non avere più nulla da offrire ai lettori? Divorata dalla gelosia, June approfitta allora della morte di Athena per appropriarsi del manoscritto inedito: ne farà un successo internazionale. Arguto, politicamente scorretto e puntuale, Yellowface è una commedia nera sui retroscena dell'editoria, sui giustizieri di Twitter e sull'appropriazione culturale. È lecito che un'autrice bianca dia voce a un dramma cinese? Quand'è che scrivere ha smesso di essere un esercizio di empatia? Il plagio sarà solo l'inizio. Travolta dagli scandali e dalle illazioni, June sarà al centro di un'ascesa e di una caduta dolorosamente rapide, nonché di un romanzo a tratti asfissiante che si diverte a giocare con le storie di fantasmi e con la metanarrazione. Nessuno è al sicuro: perfino la defunta Athena, morbosamente attratta dalle sofferenze altrui, era una ladra incensurata.
Cosa si prova a essere così assolutamente perfetta, ad avere tutto il meglio del mondo? E forse sono i cocktail, forse è la mia esagerata immaginazione da scrittrice, fatto sta che comincio a sentire un grumo rovente nello stomaco, una strana e improvvisa voglia di infilare le dita in quella sua bocca rosso lampone e aprirle la faccia in due, sbucciarle la pelle del corpo come fosse un'arancia e infilarmela addosso.
Le polemiche, tuttavia, restano la migliore pubblicità desiderabile. Riuscirà la nostra antieroina a riappropriarsi finalmente della propria storia? Forte di un'idea originale e di una narratrice scomoda, il romanzo brilla anche per l'autoironia della stessa R.F. Kuang: sinoamericana di grande successo, incalza con innumerevoli interrogativi ma garantisce poche risposte. Ancora acerba, gira a vuoto e abbozza diverse strade percorribili: alcune sono buone, altre ottime, ma tentenna senza imboccarne nessuna. Destinato a un finale aperto, Yellowface è un prurito che non puoi grattare. L'intreccio, fragile, resta un groviglio arruffato. Ma il fastidio, nel frattempo, ti ha dato lungamente da pensare.
Il mio consiglio musicale: David Bowie - China Girl