Quando
ho smesso di piangere sono andato in cerca delle parole. E' successo
più o meno così. Poi mi sono chiesto come avrei voluto parlarvene e
quale scusa avrei trovato per inserire uno dei film più belli dello
scorso anno – purtroppo, recuperato solo ora – nella Top
Ten del cinema che è venuto nei quattro mesi scorsi e che verrà nei nove successivi. Imbroglierò; regole mie, blog mio. Mommy
finirà in cima al podio e
sull'header, sicuro come solo la morte. E le parole si sono nascoste,
non si sono fatte trovare, perché alla fine più ci tornavo sopra,
più mi rendevo conto che i fazzoletti non sarebbero bastati. A un
certo punto, mi ero trovato con le guance umide senza preavviso.
Succedeva e basta; avevo dato il mio via libera, e giù di goccioloni
furiosi. Quando in casa sono solo e il film è bellissimo rendo di
più. Ci sono i film che vanno pianti, altrimenti li capisci a metà.
Mai pensato che Xavier Dolan – venticinque anni, cinque film
presentati a Cannes; un artista della forma, ma dell'emozione? -, mi
avrebbe regalato una delle visione più indimenticabili e il primo
pianto dell'anno. Maledetto. Ma anche grazie.
Scoperto la scorsa estate, aveva tutto ciò che
odio - presunzione, sicurezza, autorialità – ma un occhio ipnotico: se lo sguardo ne era uscito appagato, il cuore non aveva
trovato pane per i suoi denti. Con lui misuro un cinema che dev'essere sensazione: la
sola forma è come un corpo che invecchia. Resta altro; e quelle
poche benedette volte che resta lo senti nello stomaco. Come le
farfalle che svolazzano o il dopo sbronza che risale. Mommy
è un clamoroso esempio di
cinema d'autore fatto per il mondo. Concezione impossibile, come gli
unicorni e Babbo Natale; paradosso. Ma Dolan nella sua nicchia
sonnolenta non ci sta. Si sentiva imbarazzato quando la
critica lo paragonava ad autori che lui neanche
conosce: non molto tempo fa, infatti, è stato un ragazzino che è
cresciuto considerando genii Cameron, Spielberg e Columbus; un
fruitore orgoglioso di pellicole mainstream; uno col mito dei film
per famiglie vecchio stile – quando nella sua, di famiglia, c'era
invece qualche problema. All'età
in cui c'è chi si laurea e chi scappa all'estero, lui firma il suo
capolavoro. Mommy è
il film per famiglie secondo lui. Suo, suo per forza, ma diverso,
finalmente: parla meno di sé; si emoziona di meno, c'è più
controllo; ma emoziona di più te, con devastazione e dolcezza e
generosità. Il cantante, nei concerti, stona un po' quando deve
cantarti le sue storie d'amore e il suo privato. Allora il regista si
mette da parte, toglie il suo nome dal cast e ci parla, mantenendosi
dietro la macchina da presa, della prima parola che ogni bambino
pronuncia: mamma. Ma la mamma sciagurata della magnifica Anna Dorval
non festeggia il dieci maggio e ha un figlio pazzo che pensa di curare
con il suo amore. Sono una famiglia sgangherata, in cui
altri uomini non sono ammessi, ma - nonostante le botte e gli insulti
- si vogliono bene con trasporto. Sono l'unica cosa che
hanno. Guai a separarli. Lo spettatore entra in casa Dorval insieme
alla vicina di Suzanne Clément, un'estranea che solo in
mezzo a loro, altri estranei, riesce a parlare senza balbettare.
Mommy è universale,
ruvido e purissimo. Esagerato e strabordante. La scena madre, di
solito, è quella che si ricorda. Quella in cui trionfa spontanea la
commozione. Ma Mommy ha
vari finali, troppe scene cult e la fattezza di una continua e lunga
scena madre. Poetica della libertà, inventata da uno che ha
la coscienza di un vecchio e l'iperattività di un bambino che a
scuola purtroppo non fa faville: proprio non vuole capire che deve
scrivere nel rigo giusto, che non deve uscire dai margini. Cerca di
contenersi, perciò, chiudendo i personaggi in un significativo 4:3:
due bande nere ai lati dello schermo, l'immagine come tra parentesi,
Diane e Steve – di rado nella stessa inquadratura – imprigionati
dalla pazzia di lui. Il prodigioso Antoine Olivier Pilon – sedici
anni, la zazzera bionda, il grugno alla Macklemore – sul suo
pianeta irraggiungibile. Che tenta il suicidio e chiede perdono alla
mamma, come se avesse fatto rompere per sbaglio un bicchiere. Che piange, si
dispera, cerca il suo aiuto, come ho fatto io il primo giorno
all'asilo; quando la maestra Luciana le ha chiesto di andare via –
e io piangevo e mamma piangeva – e alla fine è tornata a prendermi,
ma tanto stavo già meglio. Che al karaoke, stonato, le dedica Vivo
per lei – Bocelli e Giorgia in
una surreale colonna sonora che comprende Dido, Lana Del Rey, Céline
Dion, gli Oasis e Ludovico Einaudi. Ci sono giorni cattivi e giorni
buoni, in cui la felicità, a portata di mano, è un'utopia in 16:9:
lo schermo si amplia, le sbarre del carcere si fondono e Steve, a
bordo di uno skateboard, scorazza nella vita vera. Finalmente
organico, finalmente benvenuto al mondo. I figli – e film come
Mommy – so' pezzi 'e core.
(10)
Ci
sono i film brutti, quelli belli e le occasioni mancate come questa:
il terreno era fertile, ma
nessuno ha voluto seminarlo. I frutti perciò sono pochi e acerbi. Se
fosse stato un romanzo, Adaline
sarebbe stato un Neri Pozza: lungo, minuzioso, elegante. La storia di
una donna che ha smesso di invecchiare e che è stata testimone di
anni e anni di storia: un cenno alle due guerre; una vaga sottotrama
spionistica, magari; l'America oggi, ieri e domani, dal punto di
vista di una che c'era col crollo di Wall Street, l'uomo sulla luna,
le Torri Gemelle. Poi, oltre la storia, anche l'amore: immancabile
per ogni vita appassionata, figuriamoci due. Hollywood non ci ha
pensato. Un altro Benjamin Button
sarebbe stato troppo, quindi ecco la splendida Adaline: ventinovenne
da un secolo, innamorata dell'amore, colta, ma priva di esperienza. I
flashback dei roaring years e dell'epoca beat, il Charleston e i
capelloni, ma il resto? Manca il senso di profondità storica, la
saggezza di cui la protagonista immortale non ha fatto dono ai suoi
sceneggiatori. C'è un mondo d'amore – e non in senso negativo,
perché i sospiri si contano e i sorrisi no – ma lo sfondo è
evanescente. Adaline è
infiocchettato ad arte, impeccabile, ma perfettino. La macchina da
presa danzante, i fiocchi di neve, i costumi messi in risalto dalle
forme della splendida protagonista e un epilogo fiabesco che, una
mezz'ora prima della chiusa, già si intuisce – e io l'ho suggerito
alla sala piena, ovviamente. La voce di un funzionale narratore,
però, te lo racconta come fosse una fiaba e la suggestione c'è,
anche se non sono riuscito ad oltrepassare mai l'uscio del palazzo. Buona
la prova di Blake Lively – altissima, biondissima e purissima – ;
e poi, guardatela, cammina sulle nuvole. Con lei Michiel Huisman,
altro volto del piccolo schermo che, alla sua bellezza rude, unisce
inaspettato brio; infine, un Harrison Ford il cui ruolo, teoricamente
inaspettato, è svelato con idiozia nel trailer. Titolo vago e un po'
ingannevole The Age of Adaline.
Meglio dare spazio ai suoi “lovers”
sin dalle premesse, così da chiarire che si tratta di una commedia
romantica originale e non di una ricostruzione storica banale: è diverso, se ci si fa caso. (6)
Quella
di Joe è la storia di tanti ragazzi della sua generazione; gente
cresciuta ai tempi della musica dance, delle restrizioni della Lady
di ferro, dell'Aids. Pride è
l'orgoglio di Joe, pronto a spiccare il volo lontano dal nido, e
quello della comunità omosessuale tutta che, all'alba di una
rivoluzione di costume, scende in piazza e si fa sentire. Pride
è l'orgoglio dei minatori britannici che, al centro di una crisi che
forse ci è familiare, perdono il posto. Ma c'è anche un altro
orgoglio, negativo, che è da prendere e mettere da parte: come
conciliare operai di paese e gay di città? In Pride,
tratto da una storia vera, la causa di uno diventa la causa di tutti.
I minatori non hanno mai visto un omosessuale – almeno non
dichiarato – e gli omosessuali non hanno mai visto un minatore –
almeno non uno spogliarellista vestito da minatore. Così, operai
tutti d'un pezzo balleranno, al centro della pista; arzille nonnine
faranno le domande più indiscrete sulle pratiche erotiche di una
coppia lesbo; gay londinesi riceveranno lezioni di mascolinità da
uomini che sostituiranno padri conservatori che hanno tolto loro il
saluto, mentre a loro volta essi tireranno fuori lati femminili
nascosti e confessioni che hanno il potere di liberare. Passato in
sordina in Italia, ma apprezzatissimo all'esterno, Pride è
intelligente e ben confezionato, con punti di vista inediti e attori
totalmente in parte – accanto ai mattatori della vecchia scuola,
spicca il Dominic West di The Affair,
passato brillantemente dal ruolo di sciupafemmine a quello di
ballerino (e come balla!). Una miriade di tematiche affrontate con
umorismo e delicatezza, uno script che abbraccia situazioni
eterogenee e personaggi numerosi, un sentore di bontà che perdura.
Le tregue, le strette di mano che siglano lunghe amicizie, i volti
qualsiasi e le storie comuni che mostrano che un passo alla volta e
perfino l'immutabile cambia. L'individualismo è un falso. Due ore
piene, il pensiero speranzoso che forse è giusto – in questo
nostro mondo bello perché vario - avere fiducia nel
genere umano. (8)
Sotto
la guida di un Gesù Cristo argentato, un soldato logorroico,
Spongebob, l'uomo invisibile e un bambino criminale rapinano una
gioielleria e scappano con la ricca refurtiva. Sembra una barzelletta
surreale, ma le geniali sequenze d'apertura hanno il marchio di
fabbrica di Alex de la Iglesia: regista spagnolo famosissimo, autore
di pellicole che sono già cult – La Comunidad, suo, è uno dei
film che riguardo più volentieri in assoluto -, figlio illegittimo
di Almodòvar e Rodriguez, compagno di culla di Quentin Tarantino. O
cose così. Dalla Spagna con squallore. A una prima parte da manuale,
però, se ne alterna una seconda che sfocia in un finale lungo,
sensazionalistico e non troppo in linea con il resto. Il difetto
vero, purtroppo, è in agguato alla fine. Per una volta, il titolo
italiano non sbaglia. Le streghe son tornare – che si rifà a uno
slogan femminista – è un'arguta satira sui sessi dal linguaggio
originalissimo, sebbene non completamente riuscita, e le
protagoniste, fattucchiere perchè totalmente libere, mettono lo
spettatore uomo in castigo in un angolo. La sanno lunga, la canzone;
sanno quel che dicono. Per i protagonisti maschili, a questo punto, o
la fuga o cambiare sponda. Dopo anni di assenza, ritorna con stile e
ai Goya fa furore, subito pronto al'esportazione. Perché la storia
rocambolesca di tre rapinatori nella casa delle streghe ha tanto del
suo mondo ma a chi, profano, imparerà a conoscerlo da qui, con una
commedia nera che gioca abilmente con l'horror, ricorderà un certo
Edgar Wright, e non è poca cosa. Dalle parti di Hot Fuzz e La morte
ti fa bella, in un calderone di effetti speciali, violenza e
battutacce, si aggirano uomini in lotta per l'affidamento, ex
diseredati, figli che devono rispondere alla domanda ossessiva vuoi
più bene a mamma o a papà?; contro di loro, le partecipanti a un
sabba demoniaco, in una casa abitata da donne. Che la lotta tra
maschi e femmile, e tra bene e male, abbia inizio. (6,5)