Zerocalcare
torna, dopo aver conquistato anche il piccolo schermo. Questa volta è
sulla soglia dei quaranta, ironizza sul suo accento e, immaturo, si
ostina a non prendere il carrello al supermercato ma a portare la
spesa in equilibrio tra le braccia. Il ritorno di Cesare, amico
d'infanzia, e le polemiche intorno a un centro d'accoglienza per
immigrati lo porteranno a riflettere sulle cattive compagnie, sul
destino, sui mostri dell'ignoranza. In una Tor Bella Monaca sotto
assedio, Zero porterà alla luce contraddizioni finora nascoste sotto
il tappeto. Pop, poetico, politico, il fumettista presta penna, cuore
e voce ai personaggi a cui ormai abbiamo imparato a volere bene. Ma
mentre Secco propone il gelato come cura di ogni male, a questo giro
è Sarah a farci meditare amaramente: quale idealismo può
permettersi una docente vittima del precariato e dell'immobilismo?
Tutto fila in fretta; forse troppo? Questa nuova stagione, meno
filosofeggiante e più satirica, non riesce a sottrarsi a un diffuso
didascalismo. Ho pensato che la proporrei ai miei alunni per
Educazione civica. A loro piacerebbe parecchio questo bignami
travestito da guerriglia civile. Ma dall'autore della
struggente Strappare
lungo i bordi mi
srei aspettato qualcosa di più personale, più sincero, più mio.
(6,5)
Un'adolescente
cerca la madre scomparsa. Due madri cercano un futuro migliore per i
loro figli. Una pm caparbia e spietata, invece, cerca una breccia per
introdursi nei covi della Ndrangheta. La forza delle donne – ora
vittime della violenza delle famiglie, ora della solitudine
insopportabile dell'isolamento – farà crollare il sistema
dall'interno. Commovente, epica, tesissima, The Good
Mothers è una storia vera che
racconta la cronaca con i mezzi e l'emozione del cinema di impegno
civile. Il pensiero va alle donne che non ce l'hanno fatta. In ogni
caso, non hanno perso la battaglia. L'hanno lasciata in eredità a
Gaia Gerace, che con il suo fare ancora acerbo conferisce innocenza a
Denise Cosco; a Valentina Bellè, camaleontica come la migliore delle
trasformiste hollywoodiane, che ruba le sigarette e l'accento alla
vera Giuseppina Pesce; a Barbara Chicchiarelli, sbirra gelida, che
comunica fermezza e acume in ogni sguardo. Dirigono Fellowes e
Amoruso, tra Regno Unito e Italia. E in sei episodi, con asciuttezza
e onestà, vincono al Festival di Berlino e conquistano plausi ben
più del patinato Ti mangio il cuore.
(7,5)
Avevo
letto il romanzo ai tempi della pubblicazione. Scritto divinamente,
mi aveva lasciato poco, se non il ricordo di una prosa sanguigna e il ritratto di un'adolescenza contraddittoria.
Troppo esile e lineare per una miniserie di sei ore, diventa in
realtà un intrattenimento di altissimo livello grazie alla libertà
creativa che Netflix ha concesso a Edoardo De Angelis. La
vita bugiarda degli adulti è
una parabola eccezionalmente “grunge”, maleducatissima, dal look
anni Novanta e dal comparto tecnico da applausi: il quinto episodio –
piccolo capolavoro – ricorda il meglio di Euphoria.
Giordana Marengo, bella ma troppo acerba, viene condotta nel lato
oscuro da una Valeria Golino in stato di grazia: chi se le scordano
che ballano Edith Piaf in terrazza e immaginano di volare? Forse,
come accaduto con il romanzo, scorderò il resto. Ma la musica, le
luci al neon, il sangue negli occhi e i dialoghi sputati fuori come
noccioli di ciliegia garantiscono ai cinefili momenti di memorabile
lirismo. No, non è L'amica
geniale.
Giovanna non è né Lila né Lenù e non sempre si comprende
facilmente. È una protagonista imperfetta. Ma anche lei, come quei
genitori che tanto biasima, ci incanta con le bugie dei suoi ribelli
sedici anni: van dette, a volte, perché sono più belle del resto.
(7,5)
Non
era il romanzo più giusto da cui aspettarsi una trasposizione
impeccabile. Storia di chi fugge e di chi resta, terzo capitolo della
tetralogia dei record di Elena Ferrante, è un'opera di transizione:
con il senno di poi, il romanzo che ho meno apprezzato fra i quattro.
Come sempre fedelissima al materiale di partenza, la coproduzione Rai
e HBO ne trae pregi e difetti. Il risultato sono otto episodi meno
accattivanti dei precedenti, in cui la metamorfosi fiorentina
dell'irrequieta Lenù – ormai moglie, madre, scrittrice in crisi –
sottrae spazio vitale alle vicende del rione e, dunque, alla ben più
carismatica Lila. A pagarne caro il prezzo è soprattutto Margherita
Mazzucco: una Lenù esemplare – nell'apatia, nell'antipatia, nei
silenzi, negli sguardi giudicanti –, ma anagraficamente e
professionalmente troppo acerba per sostenere il peso della serie: a
volte, appare una ragazzina vestita da adulta e specialmente nelle
scene di sesso con Matteo Cecchi – un Pietro bravissimo – semina
disagio nello spettatore. Gaia Girace, invece, si conferma
incandescente. Dispiacerà non rivederle, il prossimo anno, ma saggia
è l'idea di preferire loro attrici più mature. Bocciata la regia di
Lucchetti: dopo i picchi di Costanzo e Rohrwacher, appare piatta,
televisiva e con dissolvenze imperdonabilmente kitsch. (7)
Sullo
sfondo della mia bellissima Torino, la storia in salsa pop della
prima avvocata italiana. Radiata dall'ordine in quanto donna, Lidia
Poet viene riscattata su Netflix in una serie che cavalca
prevedibilmente e facilmente l'onda del femminismo. La sua storia, a
puntate e rigorosamente romanzata per ammiccare ai più giovani,
diventa quella di una sexy Signora in giallo con
il pallino della disobbedienza civile e dei gialli da risolvere.
Questa Lidia impreca, si barcamena i triangoli sentimentali, indossa
abiti straordinari e si muove a ritmo su una colonna sonora
modernissima. I discendenti dell'avvocata e gli amanti del period
drama rigoroso, però, borbottano. Piacevole e nulla più, già
confermata per una seconda stagione, La legge di Lidia Poet
strizza l'occhio a Dickinson
e The Great, ma la
vecchiezza della scrittura tradisce in parte le buone premesse di
partenza. Nota di demerito a Matilda De Angelis: richiesta anche
oltreoceano e solitamente in parte, l'attrice bolognese indossa a
meraviglia gli abiti d'epoca confezionati dai costumisti, ma non è
mai parsa così forzata e sospirosa nella recitazione. Potrebbero
urgere i sottotitoli per decriptare suoi mille, inutili sussurri e
venire a capo, così, della risoluzione del caso. (6)
Chi
non vorrebbe lavorare al servizio delle star? Provatelo a chiedere
agli agenti cinematografici di questa serie TV, remake – riadattato
in chiave italiana e assolutamente vincente nella scrittura –
dell'omonima produzione francese: sempre di corsa, competitivi e
stremati, rimediano ai maggiori divi di casa nostra sacrificando vita
privata e sanità mentale. Paola Cortellesi deve girare con Brad Pitt
un ambizioso dramma storico, ma per i produttori americani è troppo
vecchia per affiancare l'attore hollywoodiano: botox sì, botox no?
Sorrentino pensa alla terza stagione di The Young Pope,
ma sogna una papessa con il volto di Ivana Spagna: Madonna e Lino
Banfi reciteranno nel ruolo dei genitori. Favino, alle prese con
l'ennesima trasformazione fisica, non riesce ad abbandonare l'ultimo
personaggio interpretato per un biopic internazionale: come ci si
libera dell'accento di Che Guevara? Matilda De Angelis deve fare
pubblicamente ammenda per un tweet frainteso: vietata l'ironia, ai
tempi del politicamente corretto a tutti i costi. Accorsi deve
destreggiarsi su due set agli antipod e, infine, e Guzzanti andare
d'accordo con Emanuela Fanelli. Brillante, personale e autoironica,
Call My Agent è un
tuffo nel metacinema che delizierà gli appassionati di Boris.
(7)