Ciao
a tutti, amici, e buon sabato. Come state? A volte ritornano, e a
volte ritorno. Dopo quasi una settimana dall'ultima recensione,
rieccomi qui, a parlarvi di un romanzo che – senza riserve –
consiglio a tutti quanti. Nei miei giorni d'assenza, infatti, sono
stato in meravigliosa compagnia: quest'esordio è prodigioso davvero.
Altro che Masterpiece... Grazie ancora, quindi, alla gentilissima Francesca per avermi fatto il dono di inviarmelo. Io, d'altra parte, ho donato al suo romanzo una delle mie canzoni preferite. Augurandovi buona lettura, vi abbraccio,
dandovi appuntamento a breve: ho già tre film di cui parlarvi! Un
abbraccio, M.
Allora
non sapevo che l'amore è così. Non ti lascia scelta.
Titolo:
Le stanze buie
Autrice:
Francesca Diotallevi
Editore:
Mursia
Numero
di pagine: 390
Prezzo:
€ 22,00
Sinossi:
Torino
1864. Un impeccabile maggiordomo di città viene catapultato nelle
Langhe: per volere testamentario di un lontano zio, suo protettore,
dovrà occuparsi della servitù nella villa dei conti Flores. Il
protagonista si scontra così con il mondo provinciale, completamente
diverso da quello dorato e sfavillante dell'alta società torinese, e
con le abitudini dei nuovi padroni e dei loro dipendenti. Nella casa
ci sono un conte burbero, una donna eccentrica e anti-conformista, ma
anche sola e infelice, un cameriere dalla doppia faccia e una vecchia
che sa molte cose, ma soprattutto c'è una stanza chiusa da anni
nella quale non si può assolutamente entrare. A partire da questo e
da altri misteri il maggiordomo si troverà, suo malgrado, a scavare
nel passato della famiglia per scoprire segreti inconfessati celati
da molto tempo e destinati a cambiare per sempre la sua vita.
La recensione
“La
mente, ora l'ho capito, è destinata a dimenticare. A lasciare
andare. Non il cuore. Ciò che esso ricorda, non può essere
cancellato. E, come un grande illuso, esso rifiuta l'abitudine,
l'assuefazione alla mancanza di ciò che non può smettere di
desiderare.” Io non credo ai fantasmi. Io non ho paura
dell'oscurità. O così, almeno, mi piace pensare. Le stanze buie
di Francesca Diotallevi, tuttavia, mi intimorivano, e tanto. Quando
sentii parlare per la prima volta del romanzo, ero in una stanza
invasa dalla luce di un sole che ancora sapeva scaldare e far sudare;
in una stanza tutt'altro che tetra come quelle svelate
enigmaticamente dal titolo, ma, d'un tratto, altrettanto angusta.
L'estate, andando via, mi stava salutando e io, pronto per la
partenza, stavo salutando, come se fosse stata l'ultima volta, la mia
casa, invasa da scatoloni e scatoloni che, in quei giorni sempre più
brevi, ci rubavano spazio, aria, fatiche preziose. All'ombra di
quell'ultimo sole, come nell'indimenticabile canzone di un poeta di
nome De André, dormivano ancora uffici stampa, case editrici,
librerie, blogger pigri e nostaligici come me. Poi, il trillo
familiare e inaspettato di una nuova email. La mia casella di posta,
assonnata e stanca per via di quei mesi di assoluto e dolce far
niente, poltriva, indolente e scarsamente utilizzata, come tutto il
resto. Aveva dimenticato di essere lì per un motivo valido. Ad
aspettarmi, la richiesta di un'esordiente. Una di quelle cose da
maneggiare con delicatezza e cura estrema, su cui – come con uno di
quei miei ingombranti e pesanti scatoloni – qualcuno avrebbe dovuto
scrivere, in bella vista e in grande, anche per i miopi come il
sottoscritto, Fragile. Ho capito immediatamente che il romanzo
di quella giovane donna che si rivolgeva a me personalmente,
chiamandomi per nome, con semplicità e franchezza, non era uno di
quegli esordi malsicuri ed esili che, nell'ultimo periodo, mi ero
ritrovato a valutare, con una diplomazia e un'insicurezza che non
fanno parte del mio tipico agire.
Per
varcare quelle Stanze buie non
avrei dovuto aver paura di calcare il passo: i pavimenti di marmo,
solidi come pietra e lucidi come argenteria lustrata da mani esperte,
non sarebbero crollati sotto il peso delle gravose aspettative che
incidevano sulla consueta leggerezza del mio corpo. Sapevo che Le
stanze buie sarebbe stato un
ottimo romanzo su tutti i fronti, lo sentivo dentro di me, in
profondità, eppure non ero pronto ad iniziarlo. Non sapevo se mai ne
sarei stato all'altezza, se mai avrei potuto apprezzarlo pienamente,
se mai avrei avuto il coraggio di intraprendere una lettura di tale
portata - apparentemente pesante, apparentemente impegnativa,
apparentemente pretenziosa. Troppi apparentemente. Ma
le apparenze, come dicono i
proverbi dei vecchi saggi, ingannano, sempre. Semmai avrete la
fortuna di avere questo romanzo tra le mani, non fate il mio stesso
errore. Non aspettate segni che il cielo non manderà. Gettatevici a
capofitto. Così, senza pensare alla bellezza e allo stupore che vi
avvolgeranno in seguito, collocandovi delicatamente al centro di uno
sterminato labirinto innevato di cui non vorreste, quasi quasi,
trovare via d'uscita; salvezza... libertà. La classe è una cosa che
si acquisisce con l'età: così ho imparato leggendo. Una cosa da
signore, e da signore ricche. Francesca Diotallevi, eppure, non
ancora trentenne e con quest'unica pubblicazione all'attivo,
inaspettatamente, ha classe: è palese, innegabile, naturale,
contagiosa. Ha classe da vendere. Mette i brividi, scalda l'anima.
Regala sensazioni opposte, regala tutto. Il fuoco e la neve. Il buio
e la luce. L'odio e l'amore vero. Generosamente e completamente,
Francesca regala sé stessa. Il suo romanzo ha il suono di una storia
rievocata durante una sera d'inverno, tra teiere che fumano e ceppi
di legno che alimentano scintille tremolanti e tizzoni ardenti. Ha
l'autentica bellezza di un racconto antichissimo e sottratto, in
religioso silenzio e con religioso rispetto, alla polvere di un tempo
ormai passato. Ha le fattezze di un manoscritto d'altri tempi,
vergato con piuma e inchiostro su un prezioso scrittoio d'epoca.
Semplicemente, non sembra un esordio. Non ne ha i limiti, le pecche,
i refusi, le perdonabili e tipiche ingenuità. Semplicemente, ha voce
sua.
Una voce matura e ferma che
può costruire grandi cose, grandi immagini, grandi case.
L'autrice accoglie e abbandona il suo lettore con quel bilanciamento
sublime di forze ed equilibri opposti che riempiono degli stessi
brividi che dà la febbra alta: quella che fa scoppiare i termometri
e tremare come foglie tra le lenzuola. Ci accoglie all'arrivo in
stazione del protagonista. Un cappotto troppo pesante per proteggersi
dalle temperature troppo pungenti, una valigia vuota, un testamento
in tasca, insieme a una lettera di referenze e a un biglietto di solo
andata. Sbuffi di fumo caldo e
di vapore ovunque. Ci espone senza preavviso, poi, al gelo, in una
tempesta di neve e fulmini in cui, tra i fiocchi che cadono e si
perdono nel bianco, la mano del destino compone il volto evanescente
di una donna vestita di lacrime, ricordi e seta candida. Riesce ad
erigere luoghi che sanno magicamente parlare e una casa spaventosa e
stranamente bellissima che scricchiola, dalla soffitta alle
fondamenta, per gli spettri di un vecchio amore mai dimenticato. In
queste stanze in cui l'ingresso della luce è severamente proibito e
in cui ogni cosa ha rigorosamente il suo posto, rivive la storia
infelice di un Alfredo con una fanciulla bella e fatale quanto la
Violetta della Traviata
di Verdi e aleggiano, come granelli di polvere, echi di voci
appartenute ad altri autori e ad altri capolavori che, anche nella
classica notte fredda e tempestosa delle ghost story,
sconfiggerebbero la paura del buio al servizio della meraviglia.
Chissà se il protagonista, Vittorio, con i suoi guanti pulitissimi,
i suoi vestiti senza mai una piega e il suo volto senza mai
un'espressione di gioia o tristezza, riuscirebbe a scorgere, nel
riflesso degli specchi o dal buco della serratura di una porta
sprangata, gli ospiti illustri che, in segreto, popolano i corridoi
di villa Flores e questo romanzo che parla di lui e non solo.
Protagonista grande ed umano, senza saperlo, condivide la scena con
personaggi letterari e cinematografici che l'autrice, con grande
professionalità e rispetto, omaggia apertamente, facendo confluire
nel complicato Vittorio la pacata professionalità dell'Anthony
Hopkins di Quel che resta del giorno,
i misteri di Albert Nobbs,
l'oscura e fitta poesia di Il fantasma dell'opera
e Giro di vite, la
passione logorante di Moulin Rouge.
Nelle stesse stanze, lo spirito costante delle sorelle Bronte;
soprattutto quello di Charlotte e del suo Jane Eyre,
l'opera a cui lo scritto della bravissima Francesca somiglia di più,
sia per spessore che per l'originale maestria con cui riesce ad
abbracciare pienamente generi letterari lontani, ma perfettamente
conciliabili.
Che il romanzo fosse bello, infatti, non avevo
impiegato molto tempo per capirlo, ma è stata la parte centrale –
così inaspettata, così romantica – a strapparmi dalle labbra, più
e più volte, un ammirato ed estasiato wow.
Si va a formare, pagina dopo pagina, confidenza dopo confidenza, un
rapporto sobrio e delicato che saprebbe fare innamorare anche il
lettore più cinico: sarà che, in tutta onestà, Le stanze
buie, tra le altre cose, trova
anche lo spazio e il tempo per intrattenere con una delle storie
d'amore più belle che quest'anno abbia saputo, personalmente,
regalarmi. Mi ha emozionato, tantissimo, e, questa volta in
un'inedita chiave maschile, ha invertito con grande eleganza i ruoli
della timida Jane e del distaccato Signor Rochester, spostando una
dichiarazione d'amore altrettanto deliziosa e convincente da un verde
giardino inglese a un cortile della provincia piemontese invaso da
una tempesta di neve senza fine apparente. Valida controparte
femminile, sebbene circondata da uno stuolo di servitori che
costituiscono squadre di incredibili comprimari, è Lucilla Flores,
moglie di un marito che non ama e madre di una figlia che, forse,
ama troppo. Sola, con le ali spezzate, è una colomba in gabbia. Non
ha via d'uscita. Ma ha capelli sempre spettinati che le sfuggono
dalla crocchia, il collo di un cigno di porcellana, un profumo sempre
diverso e sempre ipnotico e un laboratorio magico pieno di fiale e
beccucci in cui, in una gabbia polverosa, custodisce un uccellino
ferito, la sua perduta libertà e le grandi speranze per la sua
piccola Nora, una bambina problematica che non parla con amici
immaginari, ma con fantasmi in cerca di pace. Il romanzo ha una
struttura al limite della perfezione: simmetrica, elegante, corposa.
Ricorda Kate Morton e Sarah Waters per la tessitura di una superba e
riuscita cornice storica, Zafòn e Diane Setterfield per quegli
intrecci di storie che non confondono mai, ma sanno incantare.
Francesca Diotallevi, insomma, richiama per lo stile e il gusto
inusuale alcuni degli autori di narrativa, contemporanei e non, che
il mondo è stato così magnanimo da farci conoscere. E' italiana. E'
al suo esordio, anche se risulta difficile crederlo. E, strano ma
vero, di suo pugno, ha scritto a me per avere un'opinione su un
romanzo che è praticamente un gioiellino senza difetto alcuno. Non
posso che ringraziare con il cuore in mano: una meraviglia del genere
non te la propongo esattamente ogni giorno. Le stanze buie
è il romanzo di cui tutti dovrebbero necessariamente parlare. Il
prezzo è oggettivamente eccessivo e l'edizione, poco più che
discreta, non lo giustifica affatto, vero; ma, se vi volete bene un po',
regalatevelo.
Il
mio voto: ★★★★★
Il
mio consiglio musicale: Birdy – Skinny Love