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L’animale morente, di Philip Roth. Einaudi, € 10, pp. 113
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Se
fosse stato pubblicato oggi, avrebbe suscitato
più di qualche polemica. È infatti il racconto della relazione
sessuale tra un professore sessantaduenne e un’universitaria di
ventiquattro anni, sua allieva. Il cinico protagonista, per di più,
non è nuovo ad avventure di queste ed è solito vantarsene con un
collega. Quanto sfrutta la sua posizione accademica per circuire le
amanti? Come giudicheremmo la sua concezione del corteggiamento –
un dispendioso convenevole che punta dritto alla camera da letto –,
se non squallida e maschilista? Nato nel 1930, David Kepesh è
figlio dei suoi tempi. Ha
vissuto il primo matrimonio alla stregua di una fase di passaggio
inevitabile. Ha tagliato i ponti con l’unico figlio, che a tratti
giudica e a tratti invidia i suoi modi da viveur. Ha
abbracciato la rivoluzione sessuale negli anni Sessanta: ne ha colto
i frutti e ne ha goduto fino all’alba del nuovo millennio.
Monologo-confessione rivolto a un interlocutore indefinito, a metà
tra colto divertissement e autobiografia fittizia, L’animale
morente è il terzo Philip Roth che leggo: il più celebrato del trio, ma quello che meno ho
preferito. Affezionato al ricordo dei suoi eroi freschi e tormentati,
sempre alle prese con i dogmi e il senso di colpa della loro
educazione, ho fatto una certa fatica – per colpa della distanza
anagrafica e, soprattutto, delle digressioni di troppo – a
simpatizzare con questo personaggio dagli echi dannunziani e con le
innumerevoli parentesi che apre.
La
corruzione non è il sesso: è il resto. Il sesso non è semplice
frizione e divertimento superficiale. Il sesso è anche la vendetta
sulla morte. Non dimenticartela, la morte. Sì, anche il sesso ha un
potere limitato. So benissimo quanto è limitato. Ma dimmi, quale
potere è più grande?
Magistrale pur nella ripetitività, il romanzo finisce però per ammaliare tutte le volte
in cui entra in scena Consuela Castillo: originaria di una ricca
famiglia cubana, giunonica ma sinuosa, arrendevole ma volitiva, la
studentessa zelante ha capelli lucenti e camicette peccaminose.
Malato di desiderio, David è eccezionalmente colto in contropiede:
lo impensieriscono la gelosia, l’ossessione e la brama di possesso finora inedite; lo infastidiscono i cenni ai fidanzati precedenti, al
punto che eccellere nell’arte amatoria diventa una questione di
vita o di morte. Nonostante conoscessi in anticipo gli esiti
drammatici della loro frequentazione – dodici anni fa ho visto il
film tratto dal romanzo, Lezioni d’amore, con una Penelope
Cruz forse al suo meglio –, la lettura mi ha riservato le emozioni
più forti nel momento dei loro incontri. Spregiudicati, perversi,
struggenti, fanno della contemplazione della bellezza femminile
un’opera d’arte. E il corpo statuario di Consuela, cristallizzato
nel fulgore degli anni verdi, diventa poesia e monumento: Roth
versifica la carne tremula di lei, allora, ed erige monumenti
straordinari ricalcando la forma dei suoi seni pesanti.
Cosa
crede, la gente, che basta innamorarsi per sentirsi completi? La
platonica unione delle anime? Io la penso diversamente. Io credo che
tu sia completo prima di cominciare. È l’amore che ti spezza. Tu
sei intero e poi ti apri in due. Quella ragazza era un corpo estraneo
introdotto nella tua interezza. E per un anno e mezzo tu hai lottato
per incorporarlo. Ma non sarai mai intero finché non l’avrai
espulso.
Al
pari delle muse di Modigliani, anche Consuela punta
all’eternità. Quanti anni ha oggi? È viva? Il tempo è stato
clemente con le sue ambizioni e con la sua avvenenza? In queste
pagine – in definitiva, una conturbante danza dei sette veli –
avrà vent’anni per sempre. E cosa ne sarà stato di David, ancora:
è riuscito a fermare il decadimento fisico e morale grazie alla ricerca del piacere?
Ricordo che
poco prima che la mia nonna paterna morisse, la colse un’energia
impensata: si sollevò dalla sedia senza il deambulatore e, lei che
era sempre tenuta a stecchetto dai medici, andò a rubare per
capriccio un dolcetto dal pensile della cucina. Mio padre parlò di
quello slancio vitale con amarezza. In dialetto lo definì: una
miglioria della morte; nonna mancò il giorno dopo. L’animale
morente è la cronaca di un impeto simile, di un ultimo
“friccico”. Il ritratto di una donna indimenticabile e di un uomo
terrorizzato dall’oblio, sulle debolezze della carne e su quelle,
ben peggiori, del cuore.
Il
mio voto: ★★★½
Il
mio consiglio musicale: Mia Martini – Minuetto