Lucia, la protagonista dell'ultimo romanzo di Donatella Di Pietrantonio, è una fisioterapista con l'hobby del canto corale. Rimpiange di non sapere suonare altro strumento all'infuori della sua voce. Inaffidabile, cambia in preda all'emozione; a differenza del suono di un violino o di un pianoforte, è incostante e volubile, destinata a incrinarsi. Ho pensato che la voce di Di Pietrantonio, invece, è la cosa più bella che possiede. Bastano poche parole per riconoscerla, poche pagine per avvertire una specie di nodo in gola. Profondamente e naturalmente emozionante, piace quando senza fronzoli. Sarà per questo che L'età fragile, toccante ma troppo costruito, mi è piaciuto soprattutto nella prima parte: quando l'autrice dice i non detti tra una madre e una figlia, accennando di sfuggita a una componente gialla che, purtroppo, poi diventerà preponderante.
La vita segreta dei figli. Sappiamo che esiste, ma no siamo mai pronti a toccarla. Restano per sempre angeli senza sesso nel chiuso delle nostre teste. Indifferenziati, mai del tutto partoriti.
Ambientato in Abruzzo, segue due linee temporali. Nella prima, in periodo Covid, Lucia torna a vivere con sua figlia Amanda: studentessa universitaria sfuggente e ostile, che, barricata nella sua cameretta, vive alla stregua di un hikikimori. Dove affondano le radici della sua depressione? Nella seconda, collocabile nei primi anni Novanta, la protagonista ricorda l'amicizia con Doralice: coetanea fuggita in Canada e sopravvissuta a una tragedia di cui i cronisti di nera avevano ampiamente scritto. Materna ed evocativa come soltanto lei sa essere, Donatella riporta due storie di fragilità giovanile e cerca forzatamente il filo conduttore. Erede di un terreno a Dente di Lupo, località spettrale ormai scomparsa dalle guide turistiche, la protagonista si scopre divisa fra montanari e speculatori. Cedere o tenere? I luoghi hanno forse colpe da scontare?
Portavamo ancora sulle braccia i segni dei rovi. Volevamo soltanto essere giovani.
Tutt'altro che mitizzata, ora bella e ora crudele, la natura di Di Pietrantonio somiglia a coloro che la popolano. Selvatici e isolati, chiusi allo straniero e un po' rozzi con le donne, hanno cercato i responsabili del delitto di Morrone (paragonato spesso al Massacro del Circeo) con i fucili da caccia e le torce puntate. Il tribunale ha portato la giustizia, non il perdono. In fondo non sa perdonarsi neanche Lucia, responsabile di un'amicizia perduta e ora di una figlia di cui ha sottovalutato i dolori provati nella più tentacolare Milano. Le uniranno la consapevolezza di essere parimenti fragili, una terra vergine, un sentiero che c'è già ma va soltanto rintracciato. Un po' Taylor Sheridan, un po' Ken Loach, l'autrice mette troppa carne al fuoco e, fuori dalla sua comfort zone, non appare a proprio agio con la suspense. Avrei preferito che, anche a costo di ripetersi, si fosse limitata a essere la solita affidabile Di Pietrantonio. La voce a nudo.