| Esche vive, Fabio Genovesi. Mondadori, € 11, 388 |
Se
c'è una cosa che so, è che odio l'estate dal profondo del cuore.
Bella per chi ha le ferie pagate e la fuga pianificata nel dettaglio.
Bella per chi cambia aria, cambia facce, e non ha il mare a dieci
minuti a piedi da casa – che sfizio c'è? Finisce la sessione e mi guardo attorno, smarrito. Perché
senza la mia routine, senza una spinta, non so che farmene di questi
pomeriggi di afa, ventilatore e siti streaming non agibili. Dal
mio cattivo umore cerco di tenervi lontano, e spero di riuscire
nell'impresa; di dissimulare bene. Oggi, abbiate pazienza, lasciatemi
lamentare un po' in questo piccolo cappello introduttivo. Per dire
che sarò nervoso, sarò irritabile, ma con Fabio Genovesi tutto
passa. L'ho scoperto il mese di agosto dello scorso anno, con un
altro malumore che mandava le onde a riva. Ho recuperato in quattro e
quattr'otto il suo romanzo precedente e l'ho tenuto in libreria nei
secoli fedeli. L'idea che fosse lì, a portata di mano, mi
rassicurava.
O
forse è solo che ognuno nel mondo si sente così speciale e unico e
incomprensibile, ma invece alla fine siamo tutti uguali e passiamo
gli stessi casini e abbiamo bisogno delle stesse cose.
Ho
rispolverato Esche vive in
una giornata storta. E leggevo su Anobii che manca di stile, che è
chiassoso e volgare, ma oh, io ho riso forte dalla prima all'ultima
pagina – come capita con quei romanzi energici, leggeri ma non
troppo, di cui gli autori italiani conoscono i trucchi meglio
di altri. Fabio Genovesi mi vede sempre al mio peggio, è destino – ebbene sì, c'è l'equivalente maschile del ciclo, dei capelli crespi e
degli occhi struccati, del non ti azzardare a parlare o ti mando
dritto dritto a quel paese. In quattrocento pagine, quest'uomo mi
rassetta la testa. Al solito, la sua è una commedia corale. Al
solito, si intrecciano le voci e le generazioni, e i toni virano dal
pulp più sfrontato alla delicatezza del coming of age. Siamo in un
paesello della Toscana. Bello, uno dice, ma invece l'estate fa schifo
anche lì. Muglione è tutto acquitrini fetidi e andate senza
ritorni. Si campa di pesca e ciclismo.
Perché
il vuoto vero non è il niente, ma il niente dove invece dovrebbe
esserci qualcosa.
La
vita di Fiorenzo, diciannove anni e un nome scemo, ruota attorno all'una e all'altra
attività: sfrattato dalla sua stanza, dorme nel retro di un negozio
di pesca; il padre, appesa la bicicletta al chiodo, si è
improvvisato talent scout. Nella Regione che non esiste ha raccattato
il piccolo Mirko (la stoffa dei campioni nel sangue) e l'ha portato
via con sé: lo sommerge di speranze, attenzioni, pressioni, e il
bambino – venerato dagli adulti, scansato dai coetanei – va
malissimo a scuola e non ha anima viva a cui confessare che il
ciclismo, forse, manco gli piace. Fiorenzo lo considera un ladro di
padri, un usurpatore, e lo vessa con barbaro impegno: se non fosse
che ha una mano sola, se non fosse che è il cantante solista di una
rock band che non decolla, gliene diremmo di cotte e di crude (che
non può fare il bullo con l'ultimo arrivato in città, ad esempio). Sarebbe come sparare sulla croce rossa però. Chi se la passa peggio tra il Campioncino e quell'adolescente
orfano, monco, frustrato a morte? Forse Tiziana, terzo elemento da
mettere in conto: brillante trentenne tornata dall'estero con la coda
tra le gambe, a Muglione sperava di mettere su un Infogiovani e
invece si è dovuta accontentare di una bisca di vecchi sospettosi. Attratta inspiegabilmente dall'impresentabile Fiorenzo e intenerita dal vulnerabile Mirko, che pende dalle labbra di quest'ultimo e, timoroso, lo
chiama “Signore”.
Qua
non c'è niente da pescare, Fiorenzo, e non c'è niente da sperare.
Hai diciott'anni, quando lo vuoi capire?
Ci
si prende, ci si lascia. Si scappa e si resta. I letti traballano, le
amicizie si formano, vuoi o non vuoi. Perdere è un'arte da perfezionare col tempo. E la solitudine di questi ragazzi di provincia,
spartita in tre, è un peso che non scoraggia più. La vita è un fiume o una pozzanghera? Scorre come in Eraclito, o va
a impantanarsi nell'acqua sporca? Fabio Genovesi, malinconico e
poetico a modo suo, descrive con falsa spensieratezza la calma
stagnante di alcune realtà. Un limo indefinito in cui nessuno
abbocca e nessuno osa spingersi al largo. In certi giorni, preso
all'amo, può qualcosa soltanto un romanzo dei suoi. Dimentico che non ho le branchie, e associo l'abboccare alla mia salvezza.
Il
mio voto: ★★★★
Il
mio consiglio musicale: Thegiornalisti – Tra la strada e le stelle