mercoledì 31 ottobre 2018

Recensione: The Outsider, di Stephen King

| The Outsider, di Stephen King. Sperling & Kupfer, € 21,90, pp. 530 |

Il giorno in questione dichiarano di averlo visto, fra gli altri, un'anziana impicciona, un'adolescente iscritta in quella esatta scuola, una tassista con cui era in confidenza quel tanto che bastava a chiamarla per nome, un nerboruto buttafuori dal cuore generoso: insieme a loro, poi, sono da prendere in considerazione la clientela di uno strip club fuori città e un numero imprecisato di telecamere di videosorveglianza. L'uomo sembrava gentile ma sospetto: ricambiava i saluti, scambiava quattro chiacchiere, ma gli spruzzi cremisi sulla camicia – forse epistassi? – e i modi stranamente sfuggenti raccontavano tutt'altro. Una riprovevole storia di cannibalismo e pedofilia che in un parco pubblico, seguendo le fitte orme di sangue, portava direttamente al corpo scempiato di un undicenne: seviziato con un ramo acuminato, ucciso a morsi. Le deposizioni parlano chiaro: l'identità della belva da destinare all'iniezione letale è risaputa prima ancora che la confermino analisi e ispezioni. Ad aiutare il bambino con la catena della bicicletta, a incrociare il cammino dei disparati testimoni, è stato Terry Maitland: insospettabile, se non avesse perfino la scienza contro. Ma l'assassino – padre di famiglia e professore stimato, nel tempo libero anche allenatore di successo – ha un alibi incrollabile che non lo risparmia tuttavia da un arresto plateale durante una partita di football o dalle conseguenze della gogna pubblica a cui è sottoposto troppo presto. Il giorno in questione, in compagnia di altri insegnanti, partecipava infatti a una serie di conferenze didattiche altrove: lo raccontano l'autografo con data del giallista Harlan Coben, altre telecamere, le impronte digitali lasciate su un libro di cui all'ultimo aveva rimandato l'acquisto. Si può essere in due posti contemporaneamente?

Tutto è possibile. Il mondo trabocca di stranezze.

Non badano al paradosso degno della migliore Agatha Christie, al solito, le iene e gli sciacalli di un circo mediatico che vuole nell'occhio del ciclone anche la sfortunata famiglia dell'accusato: si procede nella ricerca di paladini e mostri, di scoop, nell'era in cui a costituire il giornalismo americano sono il passaparola, il presidente Trump e le fake news. Se in un romanzo di uno Stephen King in forma smagliante, efferato e malinconico come non lo si leggeva da un po', tanto gli estimatori quanto i profani immagineranno bene l'esistenza di zone d'ombra in cui la giustizia non osa avventurarsi. Il palesarsi di convergenze misteriosissime che escluso l'ovvio, tolto il probabile, lasciano spazio soltanto all'impossibile. Cosa o chi semina dubbi e paura nella fittizia Flint City? 
In un romanzo ad ampio respiro che parte come un thriller giudiziario sulla falsa riga del caso Simpson e imbocca, infine, sentieri fantastici, a indagare è l'agente Ralph Anderson: il colesterolo alto e qualche chilo di troppo che fanno inferocire l'altrimenti adorabile moglie Jeannie, il primogenito all'università, un abuso di potere che lo rende all'improvviso un uomo giusto macchiatosi di un errore imperdonabile. Come fare pace con la propria coscienza, se non riabilitando l'onore di Maitland? È quando la sua ricerca a tentoni sembra avere raggiunto un vicolo cieco – a metà, dopo un capitolo che è un capolavoro di suspance in cui le fila potrebbero essere già belle che tirate – che il destino, altra presenza immancabile, lo mette in contatto con una nostra carissima conoscenza: cinefila doc, emotivamente chiusa a riccio, se ne va in giro con l'inseparabile Castigamatti e l'ombra di Bill Hodges a cui elevare di tanto in tanto tenerissime preghiere. The Outsider segna non solo il rimarchevole ritorno del Re all'horror, ma altresì quello dell'indimenticabile Holly della trilogia di Mr Mercedes nelle vesti di coprotagonista – a proposito di grandi cambiamenti, invece, va segnalato il passaggio del testimone all'ottimo traduttore Luca Briasco. Ora a capo della Finders Keepers, abituata com'è alla presenza del soprannaturale, è lo spirito guida del personaggio femminile a rendere razionale l'irrazionale e un po' dolce il sapore dell'incubo.

Ma credo nelle stelle, e nell'infinità dell'universo. Il Grande Là Fuori. E qui sulla terra, credo ci 
siano infiniti universi in ogni manciata di sabbia, perché l'infinito è una strada a doppio senso. Credo che nella mia mente ci siano decine di idee dietro quella che di volta in volta riesco a concepire. Credo nella mia coscienza e anche nel mio inconscio, pur non sapendo esattamente in che cosa consistano. E credo in Athur Conan Doyle, che ha fatto dire a Sherlock Holmes: 'Una volta eliminato l'impossibile, ciò che rimane, per quanto improbabile, deve essere la verità'.

Destinazione finale: un Texas da selvaggio west, fra serpenti a sonagli e lontane credenze, dove le scienze forensi e le leggende oltre confine si scoprono un tutt'uno, le grotte insidiose ricordano le reti fognarie di It e qualcuno racconta di aver interagito nel sogno con un mostro con gli occhi di paglia e un sacco in pugno. Che sia un sadico ladro di identità o un diavolo sputato dalla bocca dell'inferno, metafora o verità tangibile, questo Uomo nero rivisto e corretto ha il modus operandi di un serial killer; si apposta sulle scene del crimine, ghiotto di tristezza e allarmismo; fa zittire grilli e coyote al solo passaggio e controllare la corretta chiusura di porte e finestre ad adoni d'un tratto spaventati dal buio. Severamente vietato parlarne al condizionale: ignorarne l'esistenza non fa sì che smetta di esistere.
L'affascinante tema del doppio proviene dalle suggestioni di un racconto di Allan Poe, la figura dell'Outsider dalle nonne messicane. Stephen King ci mette il resto, pregi e difetti compresi. La seconda metà del romanzo è infatti un salto nel lato oscuro tutt'altro che innovativo che potrebbe scontentare, vero, coloro che alle prese con il realismo iniziale – sbirciamo in prima battuta referti autoptici e trascrizioni di interrogatori, ascoltiamo registrazioni private – si erano auspicati uno svolgimento in linea con il giallo classico. Per il resto, splatter, visioni e deliri appartengono a chi ha ispirato di recente il successo cinematografico di Andy Muschietti, insieme a personaggi di indescrivibile umanità destinati a unirsi benché schierati in principio da una parte e l'altra della barricata. 
Capace di partire da lontanissimo e di rivelare senza fretta le proprie carte, collegando coincidenze apparenti e misfatti distanti nel tempo e nello spazio, l'amato King emoziona a sorpresa con una favola a tinte forti sui confini dell'universo, il potere della condivisione, l'importanza sacrosanta dei brutti sogni.

«I sogni sono il nostro modo per entrare in contatto con il mondo invisibile, o almeno è questo che credo. Sono un dono speciale.» 
«Anche gli incubi?» 
«Sì, anche gli incubi.»

La realtà è uno strato di ghiaccio troppo sottile, almeno per pattinatori inesperti o scettici di natura. La provincia statunitense, al contrario, è la metafora del melone del buon Ralph: un frutto a volte solido fuori ma marcio all'interno. Come ci finisco dentro i vermi brulicanti, ci si domanda, data la buccia all'apparenza perfetta? Lo scriveva già William Shakespeare d'altronde: ci sono più cose in cielo e in terra di quante ne sogni la tua filosofia. Nell'ultimo Stephen King in libreria, prendetemi alla lettera, ce n'è qualcun'altra in più.
Il mio voto: ★★★★½
Il mio consiglio musicale: Metallica - Enter Sandman 

lunedì 29 ottobre 2018

Mr. Ciak - Speciale Halloween: Ghost Stories, Hounds of Love, The Domestics, Slender Man, The End?

Un investigatore abituato a smascherare falsi prodigi viene chiamato a colloquio da un collega celeberrimo, sparito ormai dalla circolazione: il maestro confessa all'alunno che tre casi inspiegabili hanno fatto vacillare le sue certezze e mettere un punto fermo alla sua carriera. Come negare infatti l'esistenza del soprannaturale davanti all'evidenza? Prende avvio da un confronto dal taglio teatrale, da una richiesta di aiuto, un prodotto strano ma bello intitolato Ghost Stories: bambola russa di storie dentro storie, di film nella film, che nonostante il gran leggerne bene sorprende ulteriormente per l'autoironia, il citazionismo e una natura antologica, seriale, che somiglia a tratti a una riflessione metacinematografica. Nello stesso film, tratto proprio da una pièce teatrale come suggeriscono toni e struttura, sono contenute tre storie: quella di un guardiano notturno che fa i conti con le inquietanti apparizioni di un manicomio femminile; quella di un adolescente che, una notte, investe una specie di Krampus che lo tormenta mentre l'auto è in panne; quella, senz'altro la meno convincente, di un facoltoso neopapà alle prese con un rumoroso poltergeist e una nascita demoniaca. I racconti da brivido, scopriremo in un epilogo pieno di colpi di scena a effetto, sono collegati dalla stessa cornice narrativa – per quanto fragile, per quanto già vista. Dimenticate le notti buie e tempestose, le case infestate, gli esorcismi in extremis o le formule scaramantiche. Sostituite il tutto, piuttosto, con un protagonista in preda ai sensi di colpa involontariamente al centro della quarta e ultima storia, una scrittura brillante che nel delirio finale mette ogni cosa in discussione, una messa in scena in cui si avvertono il brio e l'eleganza delle produzioni britanniche. Niente è come appare, e sobbalzi e suggestioni sparse comprendono a creare un'atmosfera genuinamente spaventosa – quell'irresistibile incrocio di sussulti e leggerezza, insomma, che tanto si addice all'imminente Halloween. Segreti di una pantomima che all'occorrenza sa divertire, sa spaventare, correndo il rischio vincente di seguire le proprie regole. (7)

Un'adolescente scompare, rapita nella stessa via in cui abita. Non ci si fida degli sconosciuti, lo sanno anche i bambini. Ma i suoi rapitori sono un uomo e una donna, coppia appassionata e complice anche nella vita, e la adescano proponendole dell'erba a poco prezzo una sera in cui aveva voglia di sballarsi un po'. La anestetizzano, la legano al letto. I White non sembrano tipi poco raccomandabili, ma l'apparenza inganna: lei scalpita per ottenere l'affidamento dei figli, che l'ex marito le nega; lui, omuncolo poco rispettato nel quartiere, è indebitato fino al collo e solo a casa esercita il potere. Vicki non è la loro prima volta. La violenza condivisa, l'omicidio, accendono la passione e li tengono insieme. Ma la ragazza ammanettata è diversa, speciale: seduce il marito e semina dubbi nella moglie. Cosa li tiene insieme, oltre alla depravazione? Le sevizie sono l'hobby preferito da chi dei due? In Hounds of Love, thriller australiano ispirato a più di una storia vera, i veri protagonisti sono i serial killer e le crepe all'interno del loro rapporto non così indissolubile. Proviamo per tutto il tempo un'avversione viscerale, ma ne siamo affascinati. Come i protagonisti di un dramma borghese, si allontanano e si mettono in discussione – colpa della ragazza sbagliata, che ha già visto i propri genitori scoppiare. Con una fotografia impeccabile e una colonna sonora degna di meraviglia, l'esordio di Ben Young – che scrive, dirige e nel 2017 convince più di qualche festival indie – mostra le porte chiuse e i volti tumefatti, una violenza sottintesa, ma psicologicamente appare tuttavia accuratissimo. Coglie in contropiede la banalità di tutto il male. Spiace sinceramente per la prigionia della seconda donna della casa, la padrona: una straordinaria e fragilissima Emma Booth, che si accontentava delle briciole – e dei cani di compagnia: il contentino a cui il titolo originale allude – scambiandole per amore. (7)

In un futuro imprecisato qualcuno ha voluto raderci al suolo. I sopravvissuti, ridotti a selvaggi armati di asce e disperazione, si sono divisi in squadriglie agghindate di tutto punto – ognuna ha uno stile distintivo, un simbolo – e in guerra fra loro. Voci fuori dal coro, i civili di cui parla il titolo. Persone senza bandiera, e per questo cacciate indistintamente da tutti. La coppia in crisi composta dagli ostinati Tyler Hoechlin e Kate Bosworth, bellissimi anche quando sporchi e rattoppati, cerca di raggiungere la famiglia di lei nella ridente Milwaukee: un viaggio in macchina di poche ore da breve, con l'apocalisse fuori, si trasforma in odissea. La loro terapia per tornare ad amarsi, così, somiglia a una lotta alla sopravvivenza: da un lato loro, dall'altro tutti gli altri, indistinguibili fra alleati di fortuna e nemici giurati. Sopravvivranno? Più di qualcuno tenta di allontanarli dalla meta a suon di speronamenti e spari a bruciapelo; qualcun altro, invece, ci scommette perfino sopra. Nonostante gli manchino la delicatezza della dimensione familiare di A Quiet Place e un po' di ordine nelle dinamiche e nei partizionamenti, il sottovalutato The Domestics è un intrattenimento frenetico e di buon livello; un thriller distopico che cita espressamente il capolavoro di Kubrick in un dialogo, ma preferisce puntare senza troppe pretese agli inseguimenti tribali di Mad Max o al gusto dello spettacolo di The Purge. In un'implacabile declinazione del genere home invasione, non ci sarà mai pace né per i coniugi braccati né per lo spettatore. Su ruote, infatti, mancano confini e tregue; manca una casa – o meglio, un'unica casa – da profanare mascherati da belve. (6,5)

Ogni generazione ha il suo Uomo nero. Negli anni Ottanta c'erano state le nenie allo specchio di Candy Man e gli incubi di Freddy Krueger. Nei Novanta sono spuntati i riccioli rossi di It. Per i ragazzini dei primi Duemila c'è stata Samara, e si è giunti infine alle fobie dei Millennials: in particolare, dal web, si è andata diffondendo la superstizione verso questa figura elegante e longilinea, i cui misfatti sono sfociati nella cronaca nera. In suo nome, leggevo, qualche adolescente americana ha ucciso o si è uccisa. Tutto per il culto di Slender Man: un'ossessione mediatica che, a scatola chiusa, affascina. L'inquietante protagonista delle creeypasta seduce e soggioga, si diffonde a macchia d'olio: come una storia fattasi in fretta leggenda, come un virus da debellare. Da lì le controversie per un film prima boicottato, poi censurato a furia di tagli. Da lì la storia di quattro amiche che evocano la creatura, rischiando di intraprendere un percorso senza ritorno. Colpa dei suddetti tagli, allora, le falle di una sceneggiatura insensata? Si spiegherebbero così i difetti di una pellicola rabberciata alla bell'e meglio, che in principio aveva forse l'ambizione di raccontare, se non le origini del mostro, almeno l'alienazione, le relazioni e le ansie di una gioventù che non ha niente di sano, niente di genuino. Peccato che, a ben vedere, non siano gli unici contro. Lavorazione travagliata a parte, Slender Man resta un teen horror al di sotto del minimo sindacale: lui ridotto a un dissennatore mostrato troppo e troppo presto; le attrici – ricordiamo la King di The Kissing Booth – un gruppo anonimo di influenzabili vergini suicide. La scrittura vive di inesattezze e luoghi comuni. Regia e fotografia, a tratti decorose, sembrano prendere le migliori stranezze dalle sequenze deliranti della videocassetta di The Ring nell'impossibilità, purtroppo, di farle poi convergere in un intreccio dotato di inizio, svolgimento e fine. Parabola dubbia su una generazione fragile e volubile, antipaticissima, Slender Man e i suoi adepti non hanno né la paura né la fantasia. Tutto, tanto, è un pigro remake delle annate precedenti: giovinezza interrotta compresa. (4)

È l'imminente apocalisse, eppure ha inizio come un giorno qualunque per uno yuppie come tanti: giacca e cravatta, amanti segrete, sottoposti maltrattati, un ascensore da prendere per salire ai proverbiali piani alti. Ma qualcosa s'inceppa a metà strada, e lui rimane intrappolato lì: con l'insopportabile compagnia di se stesso e gli zombie fuori. In un esame di coscienza che avrebbe potuto farsi, in teoria, interessante film dell'orrore. Amatoriale, serioso, senza alcuna ironia, l'esordio alla regia di Misischia è un esperimento che si prende troppo sul serio, quando non ne avrebbe né i mezzi né le possibilità. Piuttosto scadente, e non per la regia televisiva; non per i trucchi artigianali ma discreti o il sangue incontenibile; non per un cast poverissimo, capitanato da un Roja non all'altezza dei one man show di Reynolds, Franco o Redford. Semplicemente, perché annoia da morire. Cade a picco, così, appesantito com'è dal già visto; dalla piattezza della scrittura, che poco conserva del brio dei Manetti Bros; da spazi ristretti che da un lato nascondono le ristrettezze del budget, dall'altro favoriscono gli sbadigli e le occhiate frequenti all'orologio. E spiace, sì, per la sua riuscita: cattiva non perché si tratti di una modesta opera prima nostrana con tutti i limiti del caso, ma perché The End? sa proprio di stantio. Quando, a dispetto del titolo, avrebbe potuto essere per ironia della sorte l'inizio di un felice sperimentare. (5)

venerdì 26 ottobre 2018

Recensione [Romanzo e film]: Sei ancora qui, di Daniel Waters

| Sei ancora qui, di Daniel Waters. Sperling Kupfer, € 17,90, pp. 324 |

Immaginate un'esplosione pari, per perdite e conseguenze, a quelle di Hiroshima e Nagasaki. All'attentato al World Trade Center. I sopravvissuti e i mass media, a distanza di sei anni, ne parlano con un nome generico: l'Evento. Cosa sia successo esattamente, quanto grandi siano stati i danni, non lo sapremo mai. Ma immaginate, appunto, un'onda d'urto così potente, così distruttiva, da strappare il velo fra una dimensione e l'altra. È da quel momento che i morti camminano tra noi. Presenze onnipresenti e impalpabili, benché non sempre sinistre, che popolano i giardini, le biblioteche e i cinema d'essai. Qualcuno le ignora, qualcuno le teme, qualcuno le studia per scoprire da un'osservazione diretta tutti gli sporchi segreti dell'aldilà, fra spiegazioni ora metafisiche, ora scientifiche. Veronica Calder, sedici anni e un look da aspirante ribelle, era soltanto una bambina ai tempi ma, proprio come i suoi coetanei, ha perso qualcosa nell'esplosione: il padre, che ogni mattina sotto forma di ectoplasma appare al tavolo della cucina con il suo giornale tra le mani; l'innocenza. Spregiudicata e disincantata, preferisce perciò vivere il presente con tanto di relazioni occasionali, al contrario di una mamma affetta da disturbo post-traumatico, e indagare insieme al curioso amico Kirk sul motivo di quelle apparizioni in aumento. Alcuni redivivi sono intrappolati negli schemi della routine, altri cercano pur nel loro limbo di sbrogliare le immancabili questioni irrisolte, altri ancora tentano invece di illuminare i superstiti sui pericoli imminenti. Cosa cerca di comunicare Ben, il fantasma che popola il bagno di una Veronica senza più privacy al risveglio? Perché un serial killer che colpisce ogni ventinove febbraio vorrebbe fare di lei, nata proprio in un anno bisestile, la prossima vittima? Sei ancora qui, young adult dotato su carta di uno spunto vincente e di una polifonia di punti di vista – accanto a quello della sedicenne, ben più interessanti risultano essere quello del fugace Ben e di un assassino di cui si conoscono immediatamente identità e moventi –, è un'arma a doppio taglio. La grande originalità dell'idea, se non dallo sviluppo in sé, è stata purtroppo tradita dalla forte antipatia dei giovani personaggi, al centro di relazioni affatto plausibili e di un'indagine sul campo che, nel finale, li conduce dritti dritti nella tela dell'omicida; da una coppia di aspiranti investigatori piuttosto male assortita, consolidatasi per una ragione piuttosto risibile e innamoratasi in un momento imprecisato senza un preciso perché, con cui è stato difficile entrare in sintonia. Alle mosse irrazionali degli adolescenti, per fortuna, sanno controbilanciare gli stati d'animo e le nostalgie degli adulti. Poco attratti dagli spauracchi e dai misteri pericolosi, dagli amori istantanei, ragionano piuttosto sull'inviolabilità dei ricordi e sul senso del lutto. A volte da elaborare piano, attraverso una routine da cui sganciarsi a malincuore e a piccolissimi passi; altre da ingannare con l'omicidio rituale, se un caro estinto, in quello stesso errare di anime, ha modo di reincarnarsi attraverso il sacrificio di un'innocente.

La vita è breve. E la morte è per sempre.

Delicato o più probabilmente indeciso sul da farsi, scrive un Daniel Waters che funziona molto meglio in sala. Dalla ricerca delle cause dell'Evento ai silenzi assennati sul ruolo dell'assassino – fra le pagine, ribadisco, ne conoscevamo in anticipo il nome –, passando poi per la caratterizzazione di una protagonista meno popolare e disinibita, le differenze tra romanzo e film abbondano. Dopo il mediocre Midnight Sun, il regista Scott Speer firma un altro adattamento per un pubblico adolescenziale, con un altro ruolo clou per la prezzemolina Bella Thorne – bella di nome e di fatto, sì, sotto il frangettone scuro da outsider e le canottiere semitrasparenti: per le spettatrici, invece, occhio a Thomas Elms, enigmatica presenza in boxer attillati, o al professore di un Dermot Mulroney felicemente invecchiato. Questa volta, oltre a un'attrice feticcio dall'indiscreto appeal, Speer può contare anche su un accattivante lato visivo e su una fotografica gotica, che si compiace della gran quantità di comparse macabre e delle continue interazioni con le scenografie nevose. Per l'ottima foggia e il predominio delle tinte orrorifiche, così, gli si perdona senza rancori anche quel finale sentimentale e aperto, troppo simile a quello del recente Dark Hall. Modifica più, modifica meno, la trasposizione sul filo dell'ambiguità di Sei ancora qui è l'eccezione alla regola che vorrebbe i romanzi sempre e comunque superiori ai rimaneggiamenti. Da recuperare per un Halloween in leggerezza, sempre che lo troviate ancora lì, in sala.
Il romanzo: ★★½ Il film: 6,5
Il mio consiglio musicale: Unions – Close My Eyes

mercoledì 24 ottobre 2018

I ♥ Telefilm - Speciale Halloween: The Haunting of Hill House

Da bambino mi è capitato spesso di cambiare casa. È per questo che tutt'ora mi scopro sottilmente invidioso nel sentire parlare molti dei miei coetanei, che magari hanno avuto la fortuna di nascere e crescere fra le stesse quattro mura – per quanto monotone fossero, per quanto strette gli stessero –, anziché scoprirsi fra i cinque e gli otto anni maestri di scatoloni da fare e disfare, di addii impacciati. Ho vissuto in appartamenti grandi e piccoli, ho dormito in stanze con poche tracce del mio passaggio. Case con ricordi altrui, al pari di vestiti smessi – e ogni graffio nella carta da parati era una toppa sui jeans, ogni tacca sugli stipiti per segnare gli impercettibili cambiamenti di altezza un orlo da rimboccare. Il mio trasloco più recente risale all'aprile di due anni fa – no, purtroppo non sarà quello definitivo – e ricordo molto bene, da bravo nostalgico quale resto, l'ultima volta nei cento metri quadri che per un decennio abbondante avevano custodito i nostri litigi, le nostre chiacchiere a tavola o sul divano, le nostre sortite a tradimento. A quel domicilio ho lasciato le immagini del mio cane, Gerry, un bastardino morto dieci anni fa; il profilo di mia madre, affaccendata in qualche compito dei suoi, che dal dicembre di tre anni fa incontro ormai soltanto in ambienti neutrali; i giorni neri di mio padre, le porte ammaccate dalla rabbia di mio fratello, la consapevolezza che la famiglia al completo che ricordavo non mi avrebbe mai accompagnato altrove. La nostra storia privata, i segni del nostro tempo insieme, adesso appartengono a qualcun altro: nuovi affittuari che hanno ritinteggiato, buttato via il superfluo, non riuscendo però a scacciare completamente le tracce del soggiorno lì. Nei primi tempi, sapete, guidando sovrappensiero mi è successo perfino questo: di imboccare la solita curva, di fermarmi nel parcheggio di sempre, prima di ricordare di non appartenere più a quella modesta via del centro. È per questo che, se qualcuno mi chiedesse se credo nei fantasmi, risponderei di no. Nelle case infestate, invece, sì.
The Haunting of Hill House, terza trasposizione del romanzo dell'intramontabile Shirley Jackson – autrice di nuovo sulla cresta dell'onda, con all'orizzonte un biopic con Elisabeth Moss e la versione cinematografica di Abbiamo sempre vissuto nel castello –, è una serie horror che, più che infondere paura, vorrebbe parlare a sorpresa di questo: eredità genetiche, memorie irrinunciabili, genitori e figli. Dimenticate presto, infatti, l'esperimento antropologico a cui erano sottoposti gli eterogenei sconosciuti delle pellicole precedenti: questa è né più né meno la storia di una famiglia disfunzionale. Cos'è stato degli sciagurati Crane, che avrebbero dovuto passare a Hill House soltanto un'estate e che invece, a distanza di trent'anni, non riescono ancora a venire a patti con i misteri e i dolori di quella dimora maledetta? Si è trattato di suicidio o assassinio per quella mamma un po' fata – la sempre bellissima Carla Gugino –, della cui morte si continua ad accusare il gelido capofamiglia Timothy Hutton? Abbiamo cinque protagonisti per dieci episodi: la metà di questi, se in una serie lunga e introspettiva, saranno dedicati perciò all'indagine psicologica dei singoli personaggi. Ciascuno con i propri mostri personalizzati, ciascuno con le proprie colpe davanti alla tomba della fragile Nell: sorella minore che, come la loro madre, ha scelto infine il cappio al collo. Abbiamo lo scrittore scettico e senza scrupoli che ha fatto la cresta sulla tragedia, la proprietaria di un'azienda di pompe funebri in crisi coniugale, una psicologa omosessuale terrorizzata dal contatto umano, un tossicodipendente – il gemello della defunta Nell – che da novanta giorni ha rinunciato all'aiuto delle droghe. Molto semplicemente, ci si rincontra per un'occasione spiacevole: il funerale. E con una scrittura dall'inattesa potenza teatrale, fra monologhi struggenti e confessione amare, abbonderanno i faccia a faccia furenti e i salti temporali a cui un Mike Flanagan qui al suo meglio ci aveva già abituati con Oculus (troverete gli stessi raffinati raccordi di montaggio) e Il gioco di Gerald (innumerevoli comunque le influenze kinghiane, con i ritorni all'ovile di It e l'elaborazione soprannaturale secondo Pet Sematary).
Le puntate, a mio dire troppo dense per darsi al binge watching, andrebbero viste una al giorno: meditando sulla qualità della scrittura, sugli equilibri di un cast raccolto in cui si eccelle senza mettersi in ombra – un plauso alla scelta delle interpreti femminili, somigliantissime fra loro, e alla versatilità di Michiel Huisman, non più il bello che non balla di Game of Thrones – e ai guizzi della regia, che impressiona per l'alto livello tecnico nei piani sequenza del sesto episodio. Le voci infondate che parlano di spettatori in stato di shock, colti in preda ad attacchi di vomito o insonnia, andrebbero sfatate: l'inquietudine di The Haunting of Hill House è infatti suggerita appena, attraverso i cattivi presagi disseminati qui e lì e gli eterni ritorni del poetico A Ghost Story, mentre scarseggiano il sangue e i sobbalzi gratuiti. I fantasmi patiscono l'abbandono, l'ergersi dei muri ha un significato tanto letterale quanto metaforico, la casa ha non un cuore ma un segreto apparato digerente. Il soggiorno somiglierà dunque a una lunga trance della quale i protagonisti, suscettibili ai mormorii degli antichi tenutari, tentano per tutto il tempo di svegliarsi. Si confondono realtà e immaginazione nelle nebbie del dormiveglia. Si viene a patti, in una seduta di ipnosi che fra le righe ha del terapeutico, con la delusione di cinque bambini impreparati al mondo esterno. Non si può che crescere a metà, allora: nel mito delle promesse divorate poi dalla notte; cercando invano nelle proprie relazioni l'idillio improponibile fra una mamma trasognata e un papà monolitico – lei un aquilone, lui il suo rocchetto. Prigionieri prima di quelle stanze buie, poi del ricordo, i giovani Crane spergiurano, falliscono, commuovono e perdonano, su una via per l'elaborazione che porta in conclusione dove tutto ha avuto inizio. Ci viene richiesta un'identica assenza di logica per prestare fede all'amore, per credere all'orrore. Il resto, direbbe Nell, sono coriandoli. (9)

lunedì 22 ottobre 2018

Recensione: Il ladro gentiluomo, di Alessia Gazzola

Il ladro gentiluomo, di Alessia Gazzola. Longanesi, € 18,60, pp. 304 |

Non fumo, non bevo, non mangio mai fuori pasto. Di vizi, insomma, grossomodo non ne ho. Ci sono appuntamenti annuali, però, a cui neanch'io – studente oculato, lettore paziente – so rinunciare a cuor leggero. Quando, eppure, dotato di una natura facilmente annoiabile, non mi dedico alla leggera a cose come il binge watching su Netflix, troppa infatti la paura di averne abbastanza, e di rado in amicizia o in amore tendo il dito, dicendomi che il mio prossimo desidererà poi la proprietà esclusiva di tutto il braccio. Con i romanzi di Alessia Gazzola, da otto anni a questa parte a prova di blogger incostante, per fortuna non ho mai corso il rischio, anche se, in realtà, di rischio ce n'era uno sin dall'inizio: imparare, in un autunno indefinito, a stare senza. Non abbiamo conosciuto alti e bassi di sorta; non ci siamo persi di vista come succede negli anni in cui la vita ci mette lo zampino, né traditi: entrambi, per l'appunto, distratti e affaccendati; entrambi, davanti a un'altra macabra avventura, diventati adulti di pari passo. Ho scoperto la compagnia di Alice appena diciassettenne, mentre io sgomitavo al liceo e lei si dava ai primi gialli, ai primi incorreggibili batticuori. Da lì in poi è nata quasi da sé una lunga amicizia che ci ha colti nella buona e nella cattiva sorte, in forma e derelitti, matricole e laureandi. Quest'anno, nella tappa fissa in libreria, uno studente della magistrale con meno due esami all'orizzonte – la laurea, se tutto va bene, prevista per al massimo aprile – ha conosciuto un'altra faccia del medico legale ficcanaso, che a giorni, nonostante la mia indifferenza per la trasposizione tivù, tornerà anche su Rai Uno.

Caro destino, è inutile che mi metti alla prova. Non ci casco, non mi cambierai.

Eccezionalmente, tuttavia, qualcosa è cambiato. Scalzata dalla propria comfort zone, la protagonista fa i conti con le conseguenze di un capriccio un po' infantile dei suoi: delusa dall'ennesimo sgarbo di Claudio, nel finale di Arabesque aveva fatto domanda di trasferimento. Inconsapevole che la Wally, direttrice dell'Istituto all'indomani del pensionamento dell'amatissimo Supremo, cogliesse la palla al balzo per farle imparare la lezione. Che trasferimento sia, allora, anche se nel frattempo il volubile Conforti si sarebbe perfino ravveduto abbracciando dopo tante titubanze l'idea della convivenza: meta, Domodossola. Il grande Nord è pronto per Alice, decisa anche lì a sventare l'immancabile mistero di sorta e a dare nuova linfa a una squadra arrugginita per l'inazione – ricordiamo il dolce Velasco, innamorato non corrisposto di una Wally finalmente più umana, e il sornione Malara, PM calabrese che non conosce rifiuti? Quei mesi da fuori sede, soprattutto, fra disastrose lezioni di sci e malinconici paesaggi lacustri, sono una punizione o un'opportunità? Con un futuro lavorativo e sentimentale in forse, per una Alice nuovamente punto e a capo è tempo di imparare a camminare da sola, benché le sette ore di distanza da Roma spaventino. Via la voce conciliante di Lana Del Rey in cuffia: meglio tenere a mente il motto speranzoso di Rossella O'Hara. Basta considerare l'obitorio e la statistica nemici giurati: a volte, infatti, la routine somiglia a un porto sicuro. Facile, per di più, se i guai non si dimenticano di venirci a cercare al nuovo indirizzo: qual è il prezzo effettivo e simbolico del Beloved Beryl, diamante tanto sfavillante quanto maledetto recuperato prima nello stomaco di un piccolo rapinatore dell'Est, poi consegnato per sbaglio al sedicente truffatore Alessandro Manzoni?

Non ho mai pensato che la fiducia fosse un sentimento così volatile. Un attimo c'è, quello dopo non c'è più. Magari funzionasse così anche con l'amore.

Da un lato, così, ci si addentra nell'avidità della famiglia Megretti Savi, sulle tracce di un ladro alla Cary Grant – attraente, l'incarnato olivastro, i modi signorili – già noto nella Capitale. Ma la risoluzione del giallo, a opera di terzi e ricostruita in quattro e quattr'otto, questa volta non soddisfa. Dall'altro, invece, leggiamo emozionandoci l'evoluzione del rapporto fra due che si lasciano e si pigliano come, da tradizione, spetta alle coppie storiche: Alice sogna a occhi aperti il principe azzurro, peccato che Claudio somigli però più all'orco burbero e villano. A modo suo, eppure, fra un romanzo e l'altro, ha imparato ad amarla nonostante lo scarto fra le fantasie di lei e la realtà dei fatti. A sufficienza? Per Alice, così, sono da mettere in conto cicatrici in più; una “sindrome da cuore in sospeso” ormai fattasi dolore cronico. E spetta propria a un Claudio inedito – sapevamo poco, infatti, delle sue origini provinciali, degli sforzi per conquistare dal niente una camera con vista ai Parioli – un compito talora ingrato: farle male a fin di bene. Aprirle gli occhi, insegnandole le dosi necessarie di cinismo e disincanto. Per essere un medico legale migliore, e una giovane donna resistente agli urti. Aggiungete, poi, i commenti di un'affittuaria impicciona che, in uno spassoso easter egg, millanta una straordinaria somiglianza tra Contorti e l'attore Lino Guanciale; una nonna che non si perde una puntata di Poldark, specchio stando a lei di qualsiasi storia d'amore; l'immagine divertentissima di una Alice intabarrata come Totò e Peppino a Milano, che davanti a un assortimento a fantasia di cupcake si consola come può per le nascite, gli sposalizi, le dipartite.

Ricorderò sempre questo giorno come quello in cui per seguire la mia strada ho fatto cose assurde. Il momento in cui le sliding doors stanno per chiudersi e io ho infilato il piede. E le ho riaperte. Certo, la caviglia mi farà un male cane. Ma le ho riaperte.

Alessia Gazzola e la sua eroina hanno fatto le valigie e, a giudicare dal tono dell'arrivederci, potremmo non leggere di loro per un po'. I diamanti saranno anche i migliori amici di qualcuno, cantava Marilyn, ma qui sono intanto sette carati a generare amarezze e velenosi scontenti. Si preferisce loro sempre un bel romanzo, a scanso di delusioni. E si preferiscono i ringraziamenti sinceri di Alessia e la mancanza di cerimonie di Claudio, che non credono alle etichette ma alle promesse solenni sì. Soprattutto se fatte ai lettori, croce sul cuore, e a un'allieva per cui gli esami (autoptici e di coscienza) non finiscono mai.
Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Levante – Le mie mille me

sabato 20 ottobre 2018

Mr. Ciak - Speciale Halloween: Apostle, Ghostland, Upgrade, La settima musa, Dark Hall

L'isola ai confini della realtà di The Wicker Man, la comunità ortodossa di The Village, la superstizione a confine con il paranormale di The Witch. Apostle, punto d'approdo dopo un lungo e turbolento viaggio della fede, racconta l'inquietudine di uno Stevens dallo sguardo allucinato – e il passato tragico del personaggio, simile per dubbi e vissuto al Garfield dell'ultimo Scorsese, poco giustifica gli occhi, i vezzi e i sussurri di un interprete che, ancora una volta, trovo l'anello debole di una produzione altrimenti interessantissima –, in missione per salvare la sorella minore: prigioniera di una setta legata a una misteriosa entità femminile e con a capo Michael Sheen, non così al sicuro sul suo scranno di profeta. L'isola sta morendo, un po' per un colpo di stato già nell'aria, un po' perché l'aridità minaccia di consumare i campi e i cuori dei fedeli. Se in un horror esoterico, con una morale ecologista piuttosto vicina a quella di Aronofsky, non mancheranno i sacrifici umani per placare un'anziana dea – agghiaccianti e rare le sue apparizioni, fra rovi d'improvviso fioriti –, sacrificando sull'altare della superstizione compaesani ribelli, fanciulle vittime di amori proibiti e ultimi arrivati. Ecco, allora, le teste trapanate e le mani monche, i laghi di melma che portano verso direzioni sconosciute, le streghe oscure e affascinanti di una mitologia quasi argentiana. Per fortuna, benché sia il nostro primo incontro ufficiale, a dirigere c'è il regista cult Gareth Evans: il gore del survival si tempra così con l'angoscia claustrofobica dei thriller psicologici, il lerciume dei contenuti si raffina grazie all'indiscutibile bellezza della regia, i risvolti fantastici parlano in realtà tra le righe dei mali della colonizzazione e di un proselitismo militante che miete vittime innocenti. In nome di un Dio, in definitiva, schiavo degli uomini. E di una fede cieca che, insieme, unisce e divide. Il risultato: una delle produzioni di genere più dense di quest'anno e, accanto ad Annientamento, a oggi, probabilmente il miglior film Netflix. La parabola oscura, eppure non senza speranza finale, non senza purificazione, di un autore con un disegno registico che non avrà del divino, no, eppure tanto basta. Per mietere, da qui in avanti, nuovi proseliti. (7,5)

Si apre con una dedica al genio di Lovecraft l'ultimo film del francese Laugier. Il regista dell'acclamato Martyrs, da me invece apprezzato giusta in teoria, torna con stile grazie a un horror che attinge impunemente dal genere – all'appello, maniaci, burattini, spettri e streghe, cannibalismo – e non si può dire che questa volta vada tanto per il sottile. Sconcertante per chiasso, efferatezza e sovrabbondanza, Ghostland è un campionario di luoghi comuni rozzo e disordinato, urlante e sempre in fuga. La storia: quella di due sorelle prigioniere di una coppia di psicopatici. Non sarà facile dimenticare, soprattutto quando una delle due – la Crysal Reed di Teen Wolf, diventata scrittrice dopo l'accaduto – torna a casa per sostenere la problematica Taylor Hickson, gravemente sfregiata proprio durante le riprese. Le protagoniste, ragazzine amanti delle storie dell'orrore, diventano loro malgrado parte di una di esse. In un'ora e trenta si sgolano, vengono picchiate e inseguite, si divincolano: infine, ricominciano da capo. Altre giovani donne prigioniere, dunque; altre martiri di un autore che si diverte a tormentarle, a tormentarci, con un film fragile ma efficace. Kitsch, zeppo di eccessi e cianfrusaglie come lo è, d'altronde, la casa del titolo italiano, questo baraccone di sevizie, cliché e salti in poltrona paura non ne fa, ma affascina. Grazie ai toni fiabeschi e al colpo di scena a metà, per quanto intuibile, che celebra il potere immaginifico della scrittura – e, insieme, del cinema – contro l'impedimento di qualsiasi gabbia. (7)

Un meccanico e sua moglie vengono aggrediti in un quartiere malfamato: la donna muore e lui, ridotto a un vegetale, vive per vendicarsi. Messa così, nulla di nuovo sotto il sole. Ma Upgrade, che a sorpresa in rete colleziona medie esagerate e spettatori già fan, ha dalla sua le ambientazioni: non siamo negli anni Settanta del Giustiziere della notte, ma in un futuro distopico alla Black Mirror in cui la tecnologia ci ha superati e i miracoli della medicina hanno un nuovo volto. Quello di giovani scienziati che al vedovo propongono una soluzione prodigiosa: un microchip per dargli finalmente mobilità. Guidato da un'intelligenza artificiale, il protagonista e il suo sistema operativo si danno a una canonica caccia al colpevole. Le luci al neon sono le stesse di Refn, i commenti ironici quelli degli ibridi più tamarri, le mosse – scontate, in un finale pieno di tentati colpi di scena – quelle di un giallo già visto. Non è nemmeno l'originalità degli sfondi, dunque, a giustificare la popolarità del fanta-thriller a tinte splatter con Logan Marshall Green: non troppo a suo agio, a onor del vero, con un personaggio sarcastico e manesco in stile Bruce Willis. Perché allora tanti plausi per l'ennesima riscrittura del mito di Frankenstein, che qui attinge da RoboCop a Ex Machina divertendo nel mentre, sì, ma senza innovazione? Vendicarsi, nel futuro, sarà infatti più semplice ma non meno letale. Per un upgrade del revenge movie – qualcuno ha fatto il nome della Fargeat? –, meglio tuttavia cercare altrove. (6,5)

Era stata la visione di Veronica e Marrowbone a ispirarmi in tempi recenti una piccola ode all'horror d'importazione iberica. In un panorama a corto di idee che ormai poco ha da offrire, quando il mistero e la paura parlano spagnolo le sorprese sono spesso garantite. Avrebbe forse fatto eccezione il veterano Balaguerò? La critica, insoddisfatta, scriveva amaramente di sì: La settima musa non piaceva ai più. Come accade in questi casi, l'ho visto allora per amore di completezza: le aspettative ridimensionate per forza di cose. È bastata la lettura di Alighieri in apertura per lasciarmi affascinare da una storia che di letteratura parla, e che dunque non poteva non piacere a uno studente di Lettere che crede nel potere delle parole, nella bellezza di una Irlanda battuta da pioggia e vento, nella purezza di un filone che sa stupire senza inganni sulla scia di dame velate, case buie e manicomi abbandonati. Cosa conduce un professore in lutto e una mamma stripper sulla scena di un omicidio rituale? Quale entità animava la penna di Shakespeare? Cosa speravano di ottenere prima di andare incontro a morte certa i membri del Cerchio Bianco, lettori con il pallino dell'esoterismo? Le incarnazioni delle mitiche muse si muovono in mezzo a noi. Ingannano, ammaliano, uccidono. Due personaggi dall'ambiguo ruolo chiave si fanno strada così in un horror punta-e-clicca, che prende in prestito qualche immagine dalla triologia di Argento e, grazie alle atmosfere natualmente lugubri e a colpi di scena indovinati in un epilogo agrodolce, fa dimenticare i difetti di uno spunto destinato presto a essere semplificato, assieme alla recitazione incerta del cast seminoto – in ruoli di supporto, citiamo la Potente e Lloyd. I segreti stanno, al solito, nei buoni sentimenti, nella presenza di bambini da preservare, nello stupore un po' infantile al cospetto di horror a cui mancherà senz'altro qualcosa ma non, complice stavolta lo zampino delle figlie di Zeus e Mnemosyne, l'ispirazione. (6,5)

Ho varcato le porte della Blackwood leggendo il romanzo di un'autrice da noi poco celebrata. Lois Duncan, eppure, ha una produzione di tutto rispetto e pioniera del genere, maestra del guilty plesure, al cinema ha regalato già un cult negli anni Novanta: chi non ricorda, infatti, l'uomo uncinato e il cast di So cosa hai fatto? Senza sorprese, Dark Hall – atteso senza aspettative, nonostante la regia di un Cortés che dai tempi di Buried insegue invano un altro film vincente – non rischia di bissare il successo del teen horror scorso ma, purtroppo o per fortuna, nemmeno di avvicinarsi ai batticuori in salsa gotica di Stephanie Meyer. Rispetto al romanzo, piccolo Young Adult degli anni Settanta debitamente aggiornato, abbiamo una protagonista più problematica; cinque e non quattro studentesse prodigio; una scuola meno prestigiosa, alternativa giusto al carcere minorile, gestita con il polso di ferro e l'accento francese da una carismatica Thurman. Il soggiorno, all'insegna di una educazione fatale per qualcuna delle protagoniste, regalerà paura e ispirazione. Mentre il romanzo non calcava la mano sulla natura diabolica della Blackwood, il film arricchisce, modifica e migliora quando serve: si andrà perciò di frequente incontro a destini cruenti; non mancheranno gli sprazzi horror, relegati però ai soli incubi; si amplia quell'epilogo tutt'oggi poco all'altezza, ma senz'altro meno frettoloso, tra flashback aggiunti e fiamme realizzate in una discutibile computer grafica. Buona la regia, nonostante la modestia del progetto; bella la ex bambina prodigio di Un ponte per Terabithia, nelle vesti di una protagonista invischiata in un'indagine meno macchinosa che su carta. Ma al cinema, pur aumentano i piccoli brividi e la conta delle vittime, tocca fare i conti con un pubblico ormai smaliziato. Perfino davanti a una ghost story non così classica, non così adolescenziale, ma dalle implicazioni ampiamente sorpassate. (5,5)

mercoledì 17 ottobre 2018

Recensione: Napoli mon amour, di Alessio Forgione

| Napoli mon amour, di Alessio Forgione. NN Editore, € 16, pp. 223 |

Lo scorso anno, di questi tempi, leggevo dell'esistenza mediocre di William Stoner e mi scoprivo commosso, arrabbiato, punto sul vivo. Si parlava, infatti, delle giornate di un professore universitario vittima della cappa asfissiante della routine. E fra le pagine, differenze a parte, gioivo e soffrivo nello scoprirmi un uomo piccolo proprio come lui – protagonista di una grande romanzo, tuttavia, in cui si parlava anche di beni da acquistare, di matrimoni e figli: il tutto, con l'eleganza insuperabile di quegli anni Cinquanta filtrati dal color seppia. È accaduto lo stesso, qualche giorno fa, con Napoli mon amour: un esordio senza ancore di salvataggio. C'è sempre la vita al centro, nero su bianco, ma al contrario non ci si può permettere un mutuo, un matrimonio o una discendenza, il sogno americano. Siamo infatti in un Sud amato e odiato – qui elevato a simbolo dell'Italia tutta –, che dei sogni dei giovani fa inutilizzabile carta straccia. Coriandoli che suggeriscono a torto l'allegria, quando in realtà insudiciano le strade e intasano le pattumiere della differenziata. Con storie ai limiti della disumanità, purtroppo, in cui il lieto fine è una speranza scartata a priori. Il protagonista, che di cognome fa Amoresano, ha trent'anni e nessuna prospettiva futura. Dopo tre anni da marinaio su una nave da crociera, ha avuto la malsana idea di tornare a casa: così, per cambiare aria.

In piedi, circondato da estranei, pensai che non avevo mai davvero preso in considerazione l'ipotesi di andare via. Che avevo provato a costruire delle cose, a farle crescere per crescerci sopra anch'io, come se mi spuntassero da sotto i piedi, ma che era anche tanto tempo, troppo, che tutto s'era bloccato. Provai orrore al pensiero che forse mi ero seduto sul ciglio della strada ad aspettare che le cose accadessero o che qualcuno si fermasse a raccogliermi.

Le sue due lauree a pieni voti a poco servono, il discreto gruzzolo messo da parte è per forza di cose in rapido esaurimento e, troppo timido per lavorare in un call center, troppo recalcitrante alla prospettiva di due settimane di prova non pagate, vagheggia di abbandonare la Campania per l'Inghilterra – chissà se, nel mentre, la Brexit ha già smantellato i sogni di gloria perfino dei nostri lavapiatti in trasferta – e fa le ore piccole in compagnia di Russo, insospettabile migliore amico dedito al modellismo e al sesso occasionale. Le sue giornate sono un labirinto di ozio e frustrazione in cui, a colpo d'occhio, non si scorge via d'uscita: fra gli aperitivi a basso costo, il Napoli che non segna e qualche immersione all'ombra ingombrante del Vesuvio, Amoresano è suo malgrado il “giovin signore” di Giuseppe Parini con gli sporadici pensieri suicidi del capolavoro generazionale di Goethe. Colleziona porte in faccia, frustrazioni e fallimenti. In segreto, ha paura tanto di vivere quanto di morire. E quanto gli duole l'autostima nel dipendere ancora dai genitori, o nel pretendere cinquanta euro del nonno arteriosclerotico con la scusa dell'onomastico imminente? Cresciuto in una famiglia di donne e mosso da una rispetto reverenziale verso l'intero genere femminile, a un certo punto gli succede di innamorarsi corrisposto di Nina: una studentessa universitaria così irresistibile da distrarlo dalla partita in onda alla tivù e da spingerlo, d'un tratto, a essere spavaldo.

Sei più bella del Napoli che vince 4 a 1 il Bologna.

Quanto lo ringiovanisce, e quanto gli fa davvero bene la sua influenza? Lei, infatti, è in quell'età in cui ci si può ancora permettere di sognare il mondo del cinema, l'Erasmus a Barcellona; lui, invece, ha esaurito in fretta i risparmi e il desiderio di fuggire. Al giorno d'oggi servono i soldi anche per permettersi un briciolo di orgoglio. Anche per garantirsi l'amore: in definitiva, un investimento sbagliato. Il compleanno festeggiato a Roma, il manifesto della Nouvelle Vague visto in un elitario cineforum a San Valentino, un appuntamento galante qui e la spesa per una perfetta carbonara lì: agli equilibri della coppia corrisponde purtroppo l'allarme del conto ormai in rosso, il pericolo fatale di un cuore in frantumi. Lo salveranno magari il sogno di stringere la mano al novantaseienne Raffaele La Capria, la passione per la scrittura, se nell'angusta cameretta di Amoresano le giornate in spiaggia con la nonna, le relazioni a distanza di cui parlottano i pendolari in treno, le lezioni di inglese presso i mormoni si trasformano, con un po' di poesia, in racconto di formazione?

Dicono che i napoletani parlino al passato remoto, ma è un'idea sbagliata […] Secondo me è più che vedono il futuro, il presente e il passato come un'unica striscia dritta, come se esistessero tutti nello stesso istante e quindi sapessero che niente potrà mai davvero cambiare.

L'esordiente Alessio Forgione, napoletano emigrato a Londra per spirito di autoconservazione, si svuota il cuore e le tasche, le scarpe piene di sassi, in una prova narrativa che trasuda urgenza e sincerità. Ci mette un filo di simpatia, cosa che non guasta, e citazioni pop a non finire – le maratone di The Wire in streaming, le commedie nere del primo Martin McDonagh davanti a cui sonnecchiare –, preso a godersi non senza sensi di colpa la monotona indolenza della disoccupazione giovanile e a smantellare i luoghi comuni su una città senza pizza, caffè zuccherato, atteggiamenti truffaldini o dialetti stretti. Milionaria in De Filippo, proletaria in Forgione, è in attesa del candore di una nevicata che continua a negarsi ostinatamente ai suoi abitanti, con gli yacht ormeggiati a largo e le ville per villeggianti precluse ai poveri di spirito. I personaggi di Napoli mon amour, romanzo condannato all'implosione, sprovvisto di risposte consolanti o gioie, hanno il mare a un passo: peccato non sappiano cosa farsene. Dalla tua, grato per il bagno di verità ma profondamente amareggiato a fine lettura, non sai bene se gli perdonerai mai una sincerità che ti ha fatto bene e male insieme. Vedi Napoli, e poi?
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Baustelle - Il futuro

lunedì 15 ottobre 2018

I ♥ Telefilm: Élite | The Affair S04

Indossano le divise inamidate e le facce da schiaffi dei rampolli di Gossip Girl. Condividono i legami pericolosi e i segreti di How to get away with murder. Si parla di sesso e stupefacenti come in Skins, e non si ha paura di esporre generosamente i corpi o di rivolgersi all'occorrenza allo spacciatore di fiducia. È da una versione meno politicamente corretta di Tredici, però, che si prendono in prestito il cadavere di un'adolescente scomoda e tabù a fantasia. L'enorme differenza è che non siamo né nell'Upper East Side né in una serie a tesi pensata per un pubblico di adolescenti pudibondi. A spalancarsi, infatti, sono le porte di una scuola privata spagnola in cui non esistono censure o benpensanti. Si assisterà agli intrighi e agli amori dei teen drama di ogni dove, quindi, ma calcando la mano. Spesso esagerando non poco, vero, fra omosessualità e fondamentalismo religioso, truffe e gravidanze in forse, zuffe e discriminazione. Ma sono uno spettatore che rinnega talora le mezze misure e, se si tratta di guilty pleasure, pretendo siano così: divertenti e svergognati. Dopo La casa di carta, Netflix e la Spagna sono pronti a mostrarci lo scoppio della rivoluzione in un laccatissimo microcosmo impreparato all'ingresso del proletariato. A scuola ci sono tre nuovi studenti da scrutare con la puzza sotto il naso, infatti, e vengono dai bassi fondi: il timido cameriere Samuel nasconde un fratello galeotto e una cotta per una ragazza impossibile; Cristian, belloccio pronto a svendersi in cambio di un posto al sole, si lascia coinvolgere in un allettante mènage à trois da una coppia di fidanzatini in crisi, pronti a contenderselo per infantile capriccio; Nadia, musulmana praticante, indossa il velo a lezione, diventa l'oggetto di una scommessa erotica alla Cruel Intentions e protegge un fratello gay (in coppia proprio con un tennista della stessa scuola) dalle reazioni repressive di una famiglia troppo religiosa. Li unisce, li divide e li fa scoppiare, gettando prima il sasso e nascondendo poi la mano, la sfuggente Marina: sedicenne ribelle che si trasforma pian piano in vittima imperfetta, con una doppiezza e un'ambiguità che la collega Hannah Baker – capro espiatorio come lei – probabilmente si sognerebbe. Chi l'ha uccisa? Anzi, maestra di frequenti inimicizie quale era, chi l'avrebbe voluta viva? Gli spagnoli si confermano insuperabili con il giallo e gli eccessi delle telenovelas: alla combinazione tra le due cose, al trash che crea dipendenza vera, perciò non si resiste. Ricco, sfrontato, a nudo, Elite scotta per forma e contenuto, rivelandosi con malizia ben più colpevole delle serie affini. I suoi capi di imputazione: detenzione e spaccio, falsa testimonianza, omicidio colposo, atti osceni in luogo pubblico. Che dopo questi otto episodi introduttivi, allora, torni presto in aula: magari sexy e recidivo proprio come lo abbiamo conosciuto, pronti a dichiararlo l'imbattibile guilty pleasure di questa annata. (7)

Riallacciare i ponti con The Affair senza prima passare dalla terza stagione, definita disastrosa da spettatori di fiducia che, come me, avevano apprezzato per due anni consecutivi questo dramma che sempre di sesso, voltafaccia e menzogne parlava. L'ho fatto, sì, in nome di una serie che sembrava essere ritornata fortunatamente agli antichi fasti, sui propri passi, violando una regola non scritta nel manuale degli spettatori seriali: mai barare. C'era il senso di colpa. C'era il presentimento che mi mancassero i nessi logici, le basi, avendo saltato quasi per intero il precedente arco di episodi. Più forte, però, era il desiderio di qualcosa di valido, di qualcosa di ben scritto, se su altri fronti le incensatissime Sharp Objects e Maniac deludevano. Ho fatto bene, decisamente, e da qui sorge una domanda quanto mai piena di sconcerto: perché il passato scivolone, con un pessimo Fraser nel cast e nuove parentesi affatto convincenti, responsabile forse di aver fatto abbandonare a tanti un prodotto che a sorpresa aveva ancora molto da dare? Sono passati un numero imprecisato di anni dai fatti della prima stagione. Sono cambiati i partner, le città, il numero dei figli a carico, la conformazione delle famiglie. A restare è una struttura bipartita che mostra i quattro protagonisti allo specchio, al bivio: ognuno con una propria storia, ognuno con una versione dei fatti. Partiamo da Dominic West, lasciato prima dalla moglie e poi dall'amante, che dopo un best-seller e il carcere scopre la vocazione all'insegnamento e si trasferisce a Los Angeles per il bene di figli che, tuttavia, poco lo considerano: sarà uno studente talentuoso e ribelle a motivarlo, quando tutto sembra perso. Maura Tierney, la ex livorosa, fa invece i conti con la malattia del nuovo compagno – il chirurgo Vic, personaggio a cui si vuole un gran bene – e le tentazioni di Emily Browning, libertina vicina di casa. Ruth Wilson, da sempre donna fragile e problematica, ha avuto intanto un'altra bambina, frequenta un altro uomo – Ben, reduce di guerra perfino più fragile e problematico di lei – e, colta sull'orlo dell'abisso, rischia purtroppo di oltrepassare il punto di non ritorno. Questa, però, è la stagione per eccellenza di un Joshua Jackson in cerca di rivalsa e di se stesso: ora tradito, ora traditore, tenta di esorcizzare lo spettro del primo amore e, attraverso cinque compiti da portare a termine, di dire addio al ricordo di una Alison irraggiungibile. Che fine ha fatto quella Wilson ferita nell'anima, presenza evanescente sin dal primo episodio? In un viaggio a tre verso Princeton nasce un'impensata collaborazione tra West e Jackson, storici rivali costretti a riporre l'ascia di guerra per la donna a cui entrambi tengono ancora. Ci sono meno rancori, meno bugie, ma ugualmente tanti segreti. Scarseggia il sesso spinto, nella stagione più matura delle quattro, e ci si dà a confessioni struggenti (il nono episodio è uno shock) e a qualche rara caduta di stile (vedasi i padri che ritornano per un trapianto di reni, oppure le gravidanze inattese) grazie a una coralità compatta, prima dislocata e poi d'improvviso riunita, galeotta una Alison che fa da mastice e mistero. Ci si prova a rimpiazzare come si può, nell'impossibilità di dimenticarsi. Lo stesso, con un sospiro di sollievo, può dirsi anche di una serie tornata agli alti livelli di un tempo, che invece, sfiduciato nel profondo, io davo già per persa. Chiodo scaccia chiodo: lo sanno bene i protagonisti, tentati dall'idea della pace. E così, allo stesso modo, un grande ritorno scaccia al suon di dialoghi intensi e prove viscerali un errore di percorso che, a proposito di The Affair, ci era parso un tradimento imperdonabile. (7,5)

sabato 13 ottobre 2018

Mr. Ciak: A star is born | Sulla mia pelle

Su carta era un progetto nato sotto una stella avversa. Posticipato a data da destinarsi e infine affidato a un esordiente d'eccezione, il terzo rifacimento della storia d'amore tra la cantante in ascesa e il pigmalione in caduta libera non sembrava da farsi. Servivano i nomi giusti. Serviva una vetrina sfavillante – la laguna di Venezia – per invitare gli spettatori a non sottovalutarlo. A star is born, protagonista così di una nuova alba, a sorpresa sfavillava e commuoveva ancora. Piaceva, e spesso agli insospettabili: più alla critica che al pubblico, più agli americani che agli italiani, più agli uomini che alle donne. La trama è presto detta: lei, cameriera non abbastanza attraente per sfondare, si rivela essere una fulgida supernova quando una vecchia gloria la trascina sotto i riflettori; lui, cantante fallito dedito all'alcol e all'autocommiserazione, è al contrario un buco nero. Benché della stessa natura, sono inconciliabili in quell'esistenza fortunata sul palcoscenico ma sfortunata in amore. La luce dell'una significherebbe l'oblio dell'altro, o viceversa. Le note sono sette, ci ricorda nel finale il fratello di un ottimo Sam Elliot. Le canzoni, a lungo andare, raccontano così tutta la stessa storia di cuori infranti: a cambiare è l'intensità di una voce, che aggiunge personalità e vissuto a un ritornello altrimenti sin troppo scontato. Lo stesso, a proposito di remake, si potrebbe dire del cinema odierno: poche idee e qualche stimolo da ricercare in un cast perfetto, dai protagonisti ai comprimari, o nel felice assemblaggio del comparto tecnico. Non fa eccezione questo A star is born, appesantito da un risaputo canovaccio che non prova nemmeno a rinnovare e che, trattandosi per l'appunto di un film musicale, ci distrae dal già visto a suon di canzoni coinvolgenti e rigorosamente suonate live; grazie alle bellissime intuizioni della prima parte – dal colpo di fulmine in un fumoso gay bar al ritornello messo a punto nel parcheggio di un supermercato, dalle famiglie popolose delle commedie di O'Russell ai goffi contrattempi dei boy meets girl –, che lo rendono l'incastro mancante tra i drammi indie e i film-concerto. Se un Cooper impegnato per la prima volta in una doppia veste non era mai stato così affascinante e ispirato, tutti gli occhi sono per una Lady Gaga all'altezza della scommessa: canticchia la Garland sovrappensiero, ha il naso importante della Streisand e gli implacabili primi piani, spogliandola della solita maschera di trucchi e lustrini, ne mettono in evidenza perfino un po' di pancia quando è seduta al piano. È nella lista delle sue imperfezioni, apprezzabili perché capaci di mostrarcela meno aliena, di renderla un'interprete più sincera, che si trovano i pregi di un film trainato interamente dalla sua sconosciuta vulnerabilità: la stessa che fa innamorare un Cooper roco e scapigliato; la stessa che presto attira un gruppo di discografici pronti a stravolgerne l'immagine, trasformando la Germanotta – ragazza di provincia acqua e sapone, e viva i suoi denti a zappa, ode al suo naso aquilino – nella Gaga che fa incetta di Grammy, di hit vuote ma orecchiabili. La storia, purtroppo, è vecchia come il mondo, e il suo essere stata proposta e riproposta nelle generazioni si avverte dall'inizio alla fine. Il melodramma, sottogenere che avrebbe bisogno di emozioni costanti, minaccia di diluirsi soprattutto a metà – momento fatidico della crisi coniugale, già dolente in quel La La Land senza diretti precedenti. A salvarlo dallo stucchevole e da una morale per me poco condivisibile sono il suo spirito da rozzo cowboy, che mi ha ricordato il Clint infatuato dei Ponti di Madison County, e la magica alchimia di una coppia bene assortita. Bradley Cooper e Lady Gaga – di stelle, a questo giro, ne sono infatti nate due – sono talmente complici, talmente in sintonia, da riuscire per fortuna ad allontanarsi dalla superficie (o meglio, dal superficiale), come canta il loro migliore duetto. (7)

Le fotografie del suo corpo hanno fatto il giro dei telegiornali. Facendo sì che della nostra Italia sempre più esecrabile si parlasse in tutto il mondo, ma per i motivi sbagliati: il braccio violento della legge, gli ingranaggi di una burocrazia che temporeggia, una sanità che aggrava anziché guarire. Quel cadavere senza giustizia, diventato presto l'esempio del peggio di cui siamo capaci, aveva un nome e una dignità. Una storia di cui i restanti misteri, pare, sono stati sciolti appena qualche giorno fa: a nove anni dall'omicidio. Stefano Cucchi, geometra romano di buona famiglia, era un giovane uomo con i suoi sbagli a carico: una dipendenza difficile da arginare e un'ingente partita di droga, trovata in casa sua soltanto dopo l'aggravarsi della sua salute, forse destinata allo spaccio. Lontano dall'agiografia, l'esordio di Alessio Cremonini – presentato in anteprima a Venezia e poi arrivato su Netflix non senza controversie, non senza prima passare da qualche sala – racconta i suoi ultimi giorni. L'arresto, il processo e la successiva detenzione: brevissima, perché consumata più negli ospedali che dietro le sbarre. Sulla mia pelle non cerca giustizia e non grida vendetta, rinunciando al piglio bellicoso del film d'inchiesta, così come Cucchi non domandava clemenza ma semplicemente i farmaci per l'epilessia o l'incontro con genitori che, purtroppo, lo rivedranno ormai cadavere. Come spiegare l'impossibilità di fare perfino pipì, i danni insanabili riportati alle vertebre, il sopraggiungere della morte: il tutto, in una cella di sicurezza in cui non sentirsi affatto al sicuro? Tutta colpa delle scale ripide, mormora Stefano abbracciando Tortora, di recente padre affranto anche nella Terra dell'abbastanza. Tutta colpa delle forze dell'ordine, dirà invece la sorella Trinca: a ragione furente, leggevo, ma dai più additata come opportunista – i rapporti tra i due, infatti, dovevano essere meno rosei di quanto qui ci venga suggerito. Tutta colpa della sceneggiatura scarna, inoltre, i difetti di una ricostruzione rigorosa ma fallace, schematica all'inverosimile? Quelle che sono le incertezze del film di Cremonini, in realtà, ci aiutano meglio a riflettere sull'assurdità di un'odissea zeppa di incongruenze, di buchi, di mezze verità. Non ne trova senz'altro giovamento il cinema, in una produzione che ha i suoi limiti oggettivi – troppo aperto il caso per affrontarlo con un punto di vista che effettivamente manca all'appello –, nonostante la prova di un incredibile Borghi, per cui, all'estero, avrebbero scomodato le nomination agli Oscar, l'Actors Studio, le trasformazioni di Bale o Fassbender. Ma è grazie a simili storie di criminalità, eppure, che si smuovono le coscienze collettive, livide per l'indignazione e non per le mazzate, e che l'evitabile destino di Cucchi potrà magari uscire dalle sabbie mobili. Nascosto sotto la pelle di un interprete camaleonte, aggrappato con le unghie e con i denti alla nostra. (6,5)

mercoledì 10 ottobre 2018

Recensione: Non mentirmi, di Philippe Besson

| Non mentirmi, di Philippe Besson. Guanda, € 16, pp. 155 |

Le storie d'amore, soprattutto quelle fra diciassettenni, soprattutto quelle fra uomini, iniziano tutte o quasi così. Qualche occhiata distratta che man mano trova il coraggio di indugiare un po' più a lungo, un venirsi incontro con cautela che ha l'aria di una sfida, la ragionevole paura. Di piacersi o non piacersi, di rivelarsi al mondo. Il colpo di fulmine di Philippe Besson, oggi scrittore di successo, non fa eccezione. Correvano i primi anni Ottanta. Lui, educato sin dall'infanzia a primeggiare, e per questo a suscitare antipatia nei coetanei, era il figlio prediletto di un insegnante che sognava un futuro accademico per quel secondogenito obbediente che, se al liceo faceva parlare di sé, era soltanto perché brillante nello studio e vagamente effeminato nel buon gusto, nei movimenti delle mani. Fuori dal branco, ma abbastanza misantropo da farne in fondo un vanto, mette alla prova la propria natura a undici anni e a diciassette è irrimediabilmente attratto dalla solitudine di un altro come lui: Thomas, due occhi nerissimi e una famiglia d'estrazione contadina da cui ha ereditato il fare laconico, i sorrisi centellinati, il rispetto remissivo per la fatica nei campi. Da un capo e l'altro del cortile, al solito, all'inizio si scrutano e basta. Non hanno scuse valide per parlarsi, no, appartenendo a classi e a ceti sociali opposti. Finché l'adolescente che fuma sempre in disparte, comunque meglio integrato di Philippe in quella scuola di provincia, non entra deliberatamente nel campo visivo dell'altro – lo fanno per prime le sue scarpe da ginnastica scolorite, la cicca che gli arde in bocca. Non può custodire il segreto sulla propria sessualità da solo, non più. Ne nasce una relazione clandestina identica a mille e a nessun'altra. Un patto segreto senza preliminari, senza preservativo, senza pensieri, che vive di foglietti volanti – l'ora e il luogo scarabocchiati a penna – e nessuna paura per l'Aids, l'abbandono, quel che sarà di loro. Quando la pioggia o una tenerezza improvvise li coglieranno di sorpresa, nel capannone della palestra o l'uno sul petto dell'altro, giocheranno a studiarsi a vicenda i nei, le sfumature della pelle, i destini contrapposti – Thomas si auspica infatti la fuga dalla mediocrità dell'aspirante scrittore, Philippe presagisce che per il giovane amante in un giorno non lontano sarà più facile troncare il rapporto. Qualcuno, tuttavia, si sbaglia.

Io sono il mondo invisibile, sotterraneo, straordinario. Di solito questa singolarità mi rende felice. Stasera mi fa soffrire in modo insensato.

Un altro viaggio nei migliori anni, un'altra passione omosessuale dall'annunciato finale amaro, un altro ragazzo triste che si strugge e ci fa struggere. Siamo nei territori di Aciman, ma a Non mentirmi mancano gli Eden sospesi in un'estate eterna, le meditazioni filosofiche, i genitori che comprendono – semmai, con il senno di poi, sono i figli ad accettare i trascorsi sentimentali dei familiari, non il contrario. Resta la suggestione, resta un'universalità che perfino il lettore più cieco del mondo non potrebbe negare: un viaggio nel meglio e nel peggio degli anni Ottanta, e nelle problematiche più intime di un figlio di quella generazione notoriamente vagheggiata e rimpianta. Al cinema danno Sophie Marceau, ma Philippe – con le immancabili pose da scapigliato, da incompreso – trascina Thomas a vedere vecchi film, più per la privacy del buio in sala che per il piacere della condivisione. Stretti su una motocicletta indossano il casco, ma più per nascondersi che per rispetto delle norme stradali. Quando quello accorto dei due acconsente a uno scatto fotografico, a una gita fuori porto, è in realtà per fargli meno male possibile nel momento in cui – l'estate ormai alle porte – gli spezzerà il cuore. Diviso in tre parti, con il connaturato decoro della narrativa francese e lo stesso struggimento delle occasioni perse, delle polaroid rinvenute per caso in un cassetto, Non mentirmi è la confessione dell'amante superstite, che preferì non confrontarsi mai con la vita vera con la scusa pavida non ci fosse altra alternativa.

Perché tu te ne andrai e noi resteremo.

Ho percepito il dolore del protagonista – il dramma di fingersi estranei nella stessa stanza, stringere forte i pugni per celare la gelosia – e la doppiezza del loro legame, che da una parte lo faceva sentire speciale (impara così a sorridere, a padroneggiare i nomi fittizi e le prime bugie della sua professione di narratore) e dall'altra tagliato fuori. Prima di questo romanzo, infatti, non c'era nessuno che sapesse di loro. A ferire, però, è la condizione dell'Ennis Del Mar di turno: un uomo contrito, che mente agli altri ma soprattutto a se stesso, e che Philippe lo segue nelle ospitate televisive consultando le guide tivù; che gli chiede scusa con messaggi in segreteria mai inoltrati, con lettere senza francobollo. Quanto sono davvero affini e quanto, da bravi incompresi, si illudono di esserlo in cerca di compagnia per un tratto del tragitto?

È stato amore, chiaramente. E domani sarà un grande vuoto.

Le parole chiave: rimpianto e defezione. La morale: il diritto ad avere un passato, a custodire cose che rimarranno solo e soltanto nostre. Besson, abituato a raccontarci di personaggi immaginari, questa volta si mette in scena. Abituato a raccontare, soprattutto, nell'ultima sezione si fa da parte: lascia che a parlare siano un po' i ricordi e un po' uno sconosciuto intercettato nella hall di un albergo, sorprendentemente simile al suo Thomas, che ha un messaggio da dargli e tantissimo da dirgli: ciò che la loro comune conoscenza ha fatto e non ha fatto, nel quarto di secolo distante da lui. 
Non mentire, dicevano i genitori a un Besson che sin da bambino inventava. Per rispetto di mamma e papà, allora, qui non mente. Falsa qualche immagine, forse, come succede se la nostalgia si mette in mezzo e ci incrina la voce, ma romanza di rado. Scrive tutta la verità, nient'altro che la verità. Regalandoci lacrime sincere per l'autobiografia di un mestiere, per l'autobiografia di un amore, che purtroppo ebbe troppa paura del sole. E così si fece pallido, e così si fece in bianco e nero: nero su bianco.
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Sufjan Stevens – Visions of Gideon