Quando andavo a scuola, la mia professoressa prediligeva un aggettivo alternativo per spiegarci la tragedia delle guerre civili: preferiva definirle intestine. Mentre prendevo appunti, tra me e me mi figuravo un groviglio di budella dolorosamente intrecciate; un corpo umano che, a un certo punto, si autosabota. Qualcosa di violento: contronatura. Ho ripensato alla violenza di quella definizione – guerre intestine –, leggendo il mio primo Fernando Aramburu: stando a oggi, il romanzo più bello dell'anno. Ambientato tra passato e presente, scava nei traumi del terrorismo di estrema sinistra: i Paesi Baschi, in cerca d'indipendenza dalla Spagna, seminarono per decenni molotov e intimidazioni. Alcuni baschi videro nell'ETA l'incarnazione dell'eroismo: i giovani terroristi, infatti, erano disposti perfino a perdere la libertà pur di salvaguardare la cultura, la lingua e l'identità del proprio popolo. Altri invece, lontani dagli eccessi nazionalistici e accusati di tramare dunque contro la patria stessa, furono giustiziati a sangue freddo dai reazionari. Omicidi spietati o atti di giustizia?
Mi sono resa conto di una storia. Ci sforziamo di dare un senso, una forma, un ordine alla vita, e alla fine la vita fa di noi quello che le va.
In maniera esemplare, l'autore spagnolo esemplifica il conflitto facendo specchiare in esso le dinamiche di due famiglie agli antipodi: prima amiche, poi rivali, naufragheranno in un rancore senza fine quando il figlio dell'una ucciderà il patriarca dell'altra. Sul cemento, una macchia rosso ruggine che neanche la pioggia più persistente riuscirà a cancellare. Tutt'intorno, nel “paese dei muti”, i compaesani volgeranno lo sguardo altrove. Cos'è dei protagonisti oggi? Bittori, la vedova della vittima, madre di un chirurgo impegnatissimo e di un'avvocata perennemente innamorata dell'amore, si è trasferita altrove e altrove ha sepolto il compianto Txato per proteggerlo dai vandali: ai piedi della tomba, a riparo sotto un ombrello rosso, dialoga col morto e borbotta al ricordo di come rifiutò di finanziare la lotta armata. Miren, la madre dell'assassino, ha altri due figli – la prima immobilizzata da un ictus, il secondo scrittore omosessuale – e un marito pensionato, dedito alla cura dell'orto: non ha mai smesso di professare l'innocenza di Joxe Mari, torturato dalla polizia e condannato a 126 anni di carcere.
Però un uomo può essere una nave. Un uomo può essere una nave con lo scafo d'acciaio. Poi passano gli anni e si formano delle incrinature. Di lì passa l'acqua della nostalgia, contaminata di solitudine, e l'acqua della consapevolezza di essersi sbagliato e di non poter rimediare all'errore, e quell'acqua che corrode tanto, quella del pentimento che si sente e non si dice per paura, per vergogna. E così l'uomo, ormai nave incrinata, andrà a picco da un momento all'altro.
La trama prende avvio nel momento in cui Bittori osa tornare in paese, riaprire le tapparelle impolverate, esporre un geranio in balcone: perché semina inquietudine e medita vendetta, mentre tutti gli altri – passato il peggio – vorrebbero soltanto dimenticare? Fluviale, struggente e caleidoscopico, Aramburu architetta una saga familiare indimenticabile dove i capitoli brevissimi e l'alternanza dei punti di vista ci gettano a capofitto nel caos della storia contemporanea. Come in una puntata del family drama This is us, il tempo si frantuma: a volte accelera e a volte rallenta, per indugiare spesso lungo il perimetro di un “ground zero” di rancore e solitudine. Mentre gli uomini, miti, se ne stanno ai margini dell'intreccio, Bittori e Miren – stoiche, orgogliose, titaniche – vivono esistenze a metà e simboleggiano le contraddizioni di un luogo spaccato in due dalla paura del diverso, del vicino di casa, dei fantasmi del passato. Sarebbe stato meglio sostenerli oppure denunciarli, quei figli idealisti e ribelli? Gli imprenditori come Txato avrebbero fatto meglio a piegarsi alle minacce?
In realtà, la cosa strana e eccezionale è essere vivi.
Ormai anziane, le protagoniste si aggrappano a ciò che resta della loro vita in nome dell'orgoglio: cresciute insieme ma diventate tristemente rivali, domandano giustizia in un'appassionata epopea a corto tanto di vincitori quanto di vinti. Con l'arma più potente di tutte – la parola scritta –, Aramburu marcia lungo le strade sbeccate e guida un movimento reazionario di liberazione personale. La lotta armata è finita da tempo, ma non ha portato la pace sperata. Perdonare significa forse dimenticare? Quando il tetto dell'abitazione ti frana sul tavolo della cucina, non curarti dello stato. Senza pasti consumati gomito a gomito, non c'è casa. Senza casa, non c'è umanità. E senza umanità, non c'è patria.
Il mio consiglio musicale: Franco Battiato – Povera patria