Miglior
sceneggiatura originale. Avere
quindici anni a Santa Barbara, California, con gli anni '70 agli
sgoccioli. La rivoluzione sessuale in atto, fumo di sigaretta ovunque
e, a tavola, conversazioni spudorate a proposito di orgasmi
impossibili, prime volte e mestruazioni. Il technicolor, la musica
punk, gli amabili resti del conflitto generazionale. Jamie vive
quell'anno di transizione in una casa trasformata in una allegra comune. Dalla sua finestra entra ed esce la ribelle e bellissima
Elle Fanning; in una camera data in affitto balla una
scatenata e fragile Greta Gerwig, consigliera dai capelli
rosso fuoco; in un'altra, invece, c'è il sempre affascinante Billy
Crudup, factotum che dispensa attenzioni e tenerezze. Padrona di casa, una strepitosa Annette Bening a digiuno di nomination: mamma single allevata
durante la Grande Depressione, ex aviatrice, si preoccupa
dell'educazione sentimentale del figlio e della ritrovata felicità
di quegli ospiti (abusivi). In un anno sospeso, in cui
ogni cosa sembrava vicina e possibile, far sì che il protagonista si faccia trovare preparato grazie
all'influenza costruttiva di quei parenti improvvisati e di quelle
ninfette magnetiche. Plasmarlo, facendone un galantuomo che crede
nelle pari opportunità, nel punto G e nell'indiscreta
poesia dei sentimenti a senso unico. Nel titolo ci sono le donne, ma
Mike Mills - già autore di quel gioiellino che fu Beginners
- realizza una commedia ad
altezza adolescente in cui gli uomini, pochi ma buoni, pendono dalle
labbra delle loro coinquiline e prendono appunti.
Inutile descrive cosa succeda e cosa non succeda. Superfluo cercare
di suggerire quella leggerezza, quel brio, quella semplicità
intelligente che solo il cinema indie sa. L'ho adorato così, senza
un preciso perché. Resta lo sgomento, quello sì, per la clamorosa
esclusione nelle categorie principali. Nel cast, in equilibrio
perfetto, non c'è un viso fuori posto. Sprizzano tutti confidenza,
armonia, intesa. Sono i compagni che tu, solitario cronico, avresti
voluto con te in un'età sottile. Non ti risparmiano l'imbarazzo,
vero. Il terzo grado. Ma che bella musica, che bella compagnia, che
bel film. Lo sottolineano i narratori onniscienti nel momento di
tirare le redini: anticipandoti le morti, le strade che si dividono,
la vaga amarezza che proverai. Non
senza una certa fretta, ma con la malinconia che rende gli
insegnamenti preziosi e il bicchiere sempre mezzo pieno. (7,5)
Miglior Film d'animazione. Icaro, detto
Zucchina, ha appena nove anni ma conosce la sofferenza.
L'ha sperimentata con sua madre: una donna abbandonata dal marito,
che si è trasformata nell'ombra di se stessa. Presto, però, fa i conti con una sofferenza di altro tipo. Orfano all'improvviso, viene
accompagnato in casa famiglia. Lì non riesce a
dormire. A tormentarlo, i compagni che prendono di mira i nuovi
arrivati e il pensiero di averla uccisa lui, una mamma disattenta eppure
presente.
Finché non arriva la bella Camille, che preferisce la compagnia del
gruppo a quella di una zia opportunista. E le cose, con lei attorno e la neve che cade, cambiano. La mia vita da
Zucchina racconta con onestà le
difficoltà di un'infanzia spesa in orfanotrofio. Tra bambini
abusati, figli di tossicodipendenti, orfani bianchi che non si danno
pace e, quando una macchina parcheggia nel vialetto, scappano
fuori chiamando i loro genitori con la speranza nella voce. Può
esserci un attimo di respiro, il pensiero del domani, dove tutto è
un grigio e provvisorio piano alternativo? Prima il romanzo per
bambini di Gilles Paris, poi le animazioni dell'esordiente Claude
Barras, ci dicono che sì, si può. Per lo straordinario spirito di
adattamento dei più piccoli, che vanno avanti ma senza dimenticare.
Per via di quella sensibilità tipicamente europea, che non tace i
traumi e le ingiustizie pur inseguendo un doverosissimo lieto fine. Applaudito a Cannes, arrivato zitto zitto agli Oscar,
La mia vita da Zucchina ha
uno stop-motion che non mi piace. Lo
popolano pupazzi grotteschi, tozzi e dalle braccia lunghe, che però hanno una luce triste negli occhi. Inespressivi,
tutti bizzarri e tutti uguali, oggettivamente brutti, in realtà gli
abitanti della casa famiglia di Barras hanno quello che non troverai
né in un altro pupazzo di plastilina, né in un altro cartone a tema. Un vissuto che non fa sconti a nessuno, nello stile dello
splendido dramma indie Short Term 12.
Un epilogo non scontato, felice solo a metà, che vìola la regola non
detta dei cartoni animati di ogni dove. Se si parla di bambini ai
bambini, al bando la tristezza. (8)
Miglior
Film Straniero. La visione del
Miglior Film Straniero, solitamente sinonimo di pesantezza,
preferisco rimandarla all'indomani della premiazione: guardo per
dovere solo il film vincente, così, e glisso sugli altri quattro.
L'eccezione: l'anno in cui c'erano Il sospetto
e Alabama Monroe, ma
la spuntò il nostro Sorrentino. Quest'anno, A man called Ove. La commedia svedese,
ispirata al bestseller L'uomo che metteva in ordine il
mondo, parla di vecchietti
burberi e gatti a pelo lungo. Se mi conoscete, sapete che potrei fermarmi qui. A furia di leggere romanzi troppo simili di anziani in
viaggio e seconde opportunità, storie agrodolci che rischiavano di
risultare tutte uguali, nei mesi scorsi mi sono però detto annoiato. Toccava disintossicarsi. La compagnia di questo Ove, però,
è davvero irrinunciabile. Che proprio vecchietto, con i suoi
cinquantanove anni portati con eleganza, non è. Che tiene tutto
sotto controllo – la vita del quartiere, i vicini, le spese mensili
– finché non gli sfugge di mano il senso stesso della vita. Vedovo
licenziato all'improvviso, vorrebbe farla finita. A disturbarlo
dall'intento suicida, ora una corda difettosa e ora una dirimpettaia
che scoppia di gioia. E le giornate si riempiono a dismisura. E la vita,
anche in solitudine, tanto male in fondo non è. Qual è il segreto
del film di Hannes Holm, che con la sua semplicità sembrerebbe stare
agli Oscar come il cavolo a marenda? Una scrittura delicatissima, uno
straordinario Rolf Lassgard e un cuore smisurato – come ci insegna
il protagonista, qualità che è un pregio e un difetto insieme. A
man called Ove vive di risposte
sardoniche, piccoli sorrisi e flashback nei quali si ricercano le
ragioni dei bronci, delle cucine in miniatura, delle culle
impolverate in soffitta. Quanta fatica ci vuole per farsi venire i
capelli bianchi e le rughe d'espressione? Mi direte che la storia del vedovo, classica ma generosa
com'è, non doveva arrivare dov'è arrivata. Ancora commosso, rispondo che non è così. Il film è bellissimo nel suo non essere
esattamente niente di che. Come un Up in
cui Carl e Ellie sono diventati veri e lo struggimento di quei dieci
minuti iniziali si protrae per due ore. (7,5)