martedì 25 febbraio 2025

And the Oscar goes to: The Brutalist | A Real Pain | Flow | The Girl with the Needle

Qual è il prezzo del sogno americano? Recentemente se l'era chiesto Anora, commedia amara in cui il risveglio dalla favola somigliava a un pianto. La domanda riecheggia anche in The Brutalist, un film con la solennità di un cinema che non c'è più. Ambientato in quarant'anni, diviso in due capitoli con tanto di intervallo al centro, è un'epopea degna di Philip Roth. Corbet, classe 1988, sceneggia dal nuovo l'odissea di un architetto ungherese al soldo del filantropo Guy Pierce. Finalmente riunitosi alla moglie Felicity Jones, sopravvissuta ai campi di concentramento, vivrà una parabola oscura dopo un viaggio tra i bianchi marmi di Carrara. Mentre il suo capolavoro si eleva, infatti, la sua vita sprofonda in un abisso di vergogna. È un genio o un parassita? Sulle spalle nervose di Adrien Brody, a lungo a digiuno di ruoli memorabili, poggia il peso immane di una struttura grigia e austera, con corridoi angusti e soffitti altissimi. Il simbolismo del progetto sarà spiegato in un finale, purtroppo, troppo didascalico. The Brutalist, per il resto, è una morality play degna di Scorsese, Coppola, Anderson, in cui lo spirito di onnipotenza del committente e l'ossessione dell'architetto si scontreranno con l'impossibilità di cambiare le proprie origini. L'innesto, giacché forzato, non fiorirà. (8)

Dopo la morte dell'affezionata nonna, miracolosamente sopravvissuta ai campi di sterminio, due cugini americani dai caratteri agli antipodi volano insieme fino a Varsavia, Polonia, con lo scopo di omaggiarla. Jesse Eisenberg, per un po' pupillo di Woody Allen, scrive, dirige e interpreta una classica commedia indie dai toni dolce-amari, ritagliando per sé il classico personaggio del newyorkese nevrotico, privilegiato, ipocondriaco. Il ruolo migliore? In un atto generosissimo, lo regala all'amico e collega Kieran Culkin: già in odore di Oscar, nonostante un personaggio cucito addosso, veste qui i panni trasandati di una sorta di Zach Galifianakis votato all'ipersensibilità e agli eccessi. Affascinante e imprevedibile negli sbalzi d'umore, Culkin è il bellissimo cuore emozionale di un film on the road assai poco memorabile per approccio e scrittura — il pensiero corre ai cult Ogni cosa è illuminata o Little Miss Sunshine: A Real Pain è ben lontano dalla loro iconicità —, ma con il pregio di sapere riflettere con un sorriso a fior di labbra di colpa, memoria, elaborazione. Quanto pesa il fardello di essere immigrati di terza generazioni, magari non all'altezza dei sacrifici dei propri antenati? Quanto pesa, soprattutto, questa leggerezza? (6)

Il film animato più bello dell'anno (scorso) arriva dalla sconosciuta Lettonia. Meritatamente candidato a due Oscar, è il diretto rivale di Il robot selvaggio. I due film, favole ambientaliste in cui gli animali imparano per forza di cose a collaborare, hanno a ben vedere più di qualche punto in comune. Ma mentre il film DreamWorks si perde in una seconda parte inutilmente roboante, questo film è un esempio perfetto di tecnica e delicatezza. Sensibile, minimalista, sperimentale, racconta l'odissea di un gatto nero all'indomani di un inspiegabile diluvio. Come un novello Noè, il gatto vincerà la diffidenza per radunare una piccola arca con un labrador, un lemure, un capibara: con loro anche un misterioso airone, che li guida – e giudica – come un dio imperscrutabile. In mancanza di dialoghi, parlano l'espressività dei protagonisti e i rumori d'ambiente, in un gioiello d'immagini e suoni che ha il nitore del documentario. I 90 minuti di durata sembrano forse troppi per uno spunto che si sarebbe prestato meglio al mediometraggio; la morale si perde di vista nel lirismo dell'epilogo. Eppure la visione di Flow angoscia, incanta e stupisce, portandoci alla deriva in un mondo in cui a mancare, per una volta, è l'animale più infestante: l'uomo. (7,5)

Irresistibili atmosfere da fiaba nera. Una fotografia ispirata al meglio del cinema espressionista. Una donna sessualmente repressa, sempre a un passo da un abisso di oscurità. Non sto parlando del sopravvalutato Nosferatu, bensì del danese The Girl with the Needle, in lizza per il Miglior Film Straniero. Ambientato nella Copenhagen del dopoguerra, sceglie un claustrofobico bianco e nero – accompagnato al 4:3, immancabile in questi angosciosi film di nicchia – per rievocare una spaventosa catena di infanticidi realmente accaduti. Indeciso tra il dramma sociale e l'horror, sin troppo manierato per strappare veri brividi, racconta comunque con solidità la vicenda di un'operaia sedotta dal suo datore di lavoro. Rimasta incinta, con un marito invalido appena tornato dal fronte, affiderà il nascituro a una donna misteriosa. Più simile del previsto al film della nostra Maura Delpero, che in definitiva avrebbe meritato un posto in cinquina ben più dell'algido ibrido di Von Horn, non è tanto la storia di una efferata serial killer, quanto uno spaccato su un gruppo di donne mute e abbandonate, private della facoltà di scegliere, qui costrette a commettere l'indicibile pur di assaporare in extremis un briciolo di libertà. Per non essere le vittime della Storia, infatti, tocca forse diventare le carnefici? (7)

venerdì 21 febbraio 2025

Recensione: I ragazzi della Nickel, di Colson Whitehead

| I ragazzi della Nickel, di Colson Whitehead. Mondadori, € 13,50, pp. 216 |

A lungo ho avuto il timore di leggerlo. Troppo impegnato l'autore, vincitore di ben due Pulitzer a distanza di pochi anni. Troppo drammatico il tema, tra discriminazioni e violenze sullo sfondo di una America non così lontana. I ragazzi della Nickel è un romanzo che disattende le aspettative. E, per fortuna, è la cosa più bella che possa fare. È possibile rendere luminosissima un'orribile vicenda realmente accaduta? Ai piedi di un riformatorio, in tempi recenti, fu rinvenuto un cimitero di morti mai reclamati. Le ossa appartenevano agli studenti – anzi, ai prigionieri – di un istituto della Florida: negli anni Sessanta del Novecento, laggiù, lo schiavismo era un incubo ancora reale.

Era una follia scappare ed era una follia non scappare. Come poteva un ragazzo guardare oltre il confine della proprietà, vedere quel mondo vivo e libero e non pensare di evadere? Per decidere del proprio futuro, una volta tanto. Sopprimere ogni idea di fuga, anche un’idea così, effimera come una farfalla, significava uccidere la propria umanità

Colson Whitehead modifica i nomi, non lo sconcerto, e affida la narrazione a un protagonista che fa la differenza. Dotato di un ottimismo incrollabile, fragile ma resiliente, Elwood è un faro di speranza in una storia nerissima. Studioso, occhialuto, profondamente legato alla nonna materna, è cresciuto con le foto degli attivisti sulle pagine di Life e con i discorsi di Martin Luther King, ascoltati al posto del peccaminoso Elvis. Destinato a studi brillanti, si scontrerà con l'imprevedibilità del destino a causa di un crimine mai commesso. La reclusione nella Nickel Academy, un campo di lavoro nascosto dietro la facciata di scuola rispettabile, cambierà tutto. Non servono cancellate né filo spinato: in un inferno gestito da alcuni dei fondatori del Ku Klux Klan, infatti, nessuno osa scappare. Diviso tra rivalsa e sottomissione, Elwood rispetta a denti stretti le regole e riga dritto, a differenza del più scapestrato Turner: un piccolo truffatore già finito dentro due volte.

Dobbiamo credere nel profondo dell’anima che siamo qualcuno, che siamo importanti, che meritiamo rispetto, e ogni giorno dobbiamo percorrere le strade della nostra vita con questo senso di dignità e di importanza.

Spesso, tuttavia, sarà impossibile volgere lo sguardo altrove. Il suo spiccato senso della giustizia metterà il protagonista nei guai. E allora, nei meandri di una fabbrica del dolore che si fa magistralmente emblema di tutto il marcio che c'è, sperimenterà addosso le vendetta dei sorveglianti, con un rumoroso ventilatore industriale a coprire le urla. Caratterizzato da una sorprendente delicatezza, nonostante i supplizi a cui sono condannati i suoi ragazzi, Whitehead firma un'opera con il respiro dei classici più intramontabili – di quelli con orfani sfortunati, amicizie salvifiche, fughe mirabolanti. Il lessico, preso in prestito dai romanzi d'avventura. La formazione di Elwood deforma le ossa e disegna sulla schiena una mappa di cicatrici ritorte. Il titanismo non è nel parare le scudisciate, ma nella capacità di abbattere con una risata i muri della segregazione, nelle nobiltà d'animo, nella gentilezza. A volte, come in questo caso, diventa perfino contagioso. Soltanto imparando da Elwood – vincendo il cinismo, ispessendoci la pelle – è possibile sopportare con prontezza di spirito un ribaltamento finale magnifico e agghiacciante insieme, che altrimenti avrebbe fatto più male delle cinghiate del sovrintendente Spencer.

Il mio voto: ★★★★½
Il mio consiglio musicale: Alex Somers – Stare

giovedì 13 febbraio 2025

And the Oscar goes to: Emilia Pérez | Conclave | Maria | Nosferatu

Il fu Manitas Del Monte. È l'epitaffio che Emilia potrebbe leggere sulla tomba della sua vita passata. Prima narcotrafficante, poi benefattrice. Prima uomo, poi donna, in un film — travolto, francamente, dalle più sterili polemiche — con una tesi reazionaria: cambiare il corpo, e l'anima, per cambiare il mondo. Proprio come la sua eroina tragica, il film è un mutaforma; un anfibio splendido e kitsch come il primo Luhrmann. Senza pretese di verosimiglianza, Jacques Audiard — francese che filma il Messico con un cast americano — sceglie un cinema di innesti, dove la dimensione del musical sottolinea la natura farsesca del tutto, ma le performance del cast garantiscono grande trasporto emotivo. Se le candidature di Gascón segnano già un primato, gli occhi sono puntati su Gomez e Saldana: la prima, benché goffa con lo spagnolo, abbandona l'etichetta di icona Disney con un ruolo conturbante; l'altra, favorita agli Oscar, è un'avvocata con un numero iconico in cui, ballando, sbugiarda la classe politica. Fiaba di colpa e sorellanza, sempre in bilico tra il musical e il thriller, Emilia Pérez trascina in una spirale ipnotica in cui la musica, per fortuna, è più prepotente della violenza. Può un film su una persona a metà farci completamente suoi? Bingo. Tutto può succedere, nell'opera pop in cui i ritornelli cantano di vaginoplastica, i mitra emettono sonorità tribali e i boss, in pectore, sono regine. (8)

Un famoso proverbio dice: morto un papa, se ne fa un altro. Chi, se potesse, non vorrebbe spiare i retroscena blindatissimi delle elezioni del nostro pontefice? Le macchinazioni, i segreti, le ambizioni covate dai numerosi cardinali in lizza per il soglio più ambito al mondo? Il regista Edward Berger ci apre eccezionalmente le porte del conclave, ispirandosi al best-seller di Robert Harris. L'impianto è quello di un giallo alla Agatha Christie. Ci sono gruppo di uomini con tutto da nascondere, la claustrofobia di un ambiente precluso, un sospetto strisciante. L'ultimo papa, rinvenuto misteriosamente morto nel suo letto, è stato forse assassinato? Indaga un Ralph Fiennes in crisi mistica, mentre battagliano il favorito Tucci, il machiavellico Lithgow, il cinico Castellitto; un piccolo ruolo spetta finanche a suor Isabella Rossellini, unica donna in un ambiente maschilista. Elegante, scenografico, serrato, Conclave – plurinominato ai premi – è ben più blando e semplicistico del previsto. Doveva farmi ragionare un'uscita in sala senza polemiche. Meno caustico di quanto si legga, con rivelazioni che indignano ma non troppo, ha un unico colpo di testa: il twist conclusivo. Peccato che, benché significativo, appaia una concessione al politicamente corretto retorica e un po' forzata in un film che, per il resto, è più classico che non si può. Nonostante sbancherà, non è fumata bianca. (6)

Dopo Jackie e Spencer, Larraìn chiude la sua trilogia con un altro ritratto di signora. Maria: la donna prima della Callas. Ma anche quella che, fragile e volitiva, voleva disperatamente tornare a incarnare quel mito indimenticato. Benché il corpo, ormai prosciugato dai lassativi, protestasse. Benché la sua voce, prima venduta al miglior offerente e poi messa a tacere, l'avesse tradita quanto Onassis. Il cileno realizza un flusso di coscienza vorticoso e febbrile, narrativamente frammentario ma formalmente impeccabile. Strutturato in lunghi colloqui come il film sulla First Lady, onirico come quello su Lady Diana, si posiziona a metà. Elegante e asimmetrico, racconta la vita pubblica, quella privata e, soprattutto, quella immaginata. Messi in scena in una Parigi autunnale di rara malinconia – un'unica nomination, Miglior fotografia –, gli ultimi giorni del soprano ne fanno un'eroina tragica degna delle arie che intonava. Nella sua testa si agitava un teatro inarrestabile, popolato di pulsioni irrazionali e vecchi fantasmi. Si può chiudere la porta al passato, se implica escludere anche la musica? Soltanto una diva poteva interpretare una diva. Jolie, scandalosamente snobbata ma in stato di grazia, ne adotta gli accessori e i costumi, il desiderio di adulazione e i vezzi. Per l'autista Favino c'è sempre un pianoforte da spostare; per la cuoca Rohrwacher, invece, una prova a cui assistere. Visse d'arte, Maria; visse d'amore. Morì in solitudine, forse. Ma a modo suo. (7,5)

Da grandi film derivano grandi responsabilità. Avrebbe dovuto saperlo bene Robert Eggers, presto salutato come nuovo paladino dell'horror d'autore. Troppo presto, mi domando con il senno di poi? Verrebbe da chiederselo, infatti, davanti a Nosferatu: la sua opera più ambiziosa, ma, per forza di cose, la più derivativa. Quella che maggiormente avrebbe avuto bisogno di uno sguardo personale, di un immaginario nuovo, di una rinfrescata nella forma e nel contenuto. La trama è la solita: un agente immobiliare viaggia fino al Transilvania, assoldato da un conte misterioso; peccato che quest'ultimo sia un vampiro centenario ossessionato dalla fidanzata del protagonista, una fragile sposina tacciata d'isteria. Oscuro ed elegante come il genere comanda, impeccabile nelle scenografie e nei costumi – meritatissimi gli eventuali premi tecnici –, è un sogno gotico che non diventa mai un incubo. Più fedele del previsto al materiale di partenza, rilegge la storia in una vaga chiave psico-sessuale e regala al conte Bill Skarsgård un paio di baffoni subito da ridere. Lily Rose Depp, insopportabile e sgraziata, si agita, sbava e si dimena in un perenne overacting; convincente soltanto Nicholas Hoult, in missione di salvataggio insieme agli abbozzati Willem Dafoe e Aaron Taylor-Johnson. L'ultimo Nosferatu è antiquato, non retrò. Tedioso, esangue, senza linfa da succhiare. Eggers, questa volta sei stato solo la copia di mille riassunti di un plagio di Stoker. (5)

mercoledì 5 febbraio 2025

Recensione: Avete presente l'amore?, di Dolly Alderton

| Avete presente l'amore?, di Dolly Alderton. Rizzoli, € 18, pp. 370 |

A quindici anni ho visto 500 giorni insieme. Ricordo distintamente la gioia e la rabbia, lo schermo spaccato in due da un indimenticabile split screen: la realtà contro le aspettative, lui contro lei. Ho ripensato spessissimo all'anti-commedia romantica di Marc Webb — e ad Ahia, l'album dei Pinguini Tattici Nucleari consumato in pandemia —, mentre leggevo della rottura tra Andy e Jen. Dopo quattro anni di relazione, appena rientrati da un viaggio nella città dell'amore, si lasciano: anzi lei, rigorosa assicuratrice, lascia lui, comico che non fa ridere. Mi aspettavo una lettura brillante, leggera, divertente. A sorpresa, ho trovato un manuale bellissimo sulla scienza del crepacuore in cui finalmente è svelato il supremo tabù: anche gli uomini piangono. Possibile che la disamina più profonda sulla vulnerabilità maschile sia opera di una donna?

Non lasci andare qualcuno tutto in una volta. Dici addio nell'arco di una vita intera. Magari puoi non pensare a lei per dieci anni, poi senti una canzone che te la ricorda o finisci in un posto dove una volta siete stati insieme, ed ecco che qualcosa che avevi completamente dimenticato riaffiora in superficie. E dici un altro addio. Devi essere pronto a lasciarla andare un migliaio di volte.

Credibilissima, l'inglese Dolly Alderton fa di Andy l'archetipo del trentacinquenne medio: spaventato dalla calvizie e dalla solitudine, si rifugia nelle chat e rinuncia ai carboidrati, si strugge con Bon Iver e sperimenta la convivenza con coinquilini sconosciuti. La gente si lascia in continuazione, lo consolano. Ma queste parole, intanto, arrivano da coetanei troppo impegnati per fare un salto al pub. Quand'è successo di trovarsi in un'età più vicina ai cinquanta che ai venti? Com'è possibile guarire se tutto, perfino un profumo o una fantasia masturbatoria, ci ricorda lei? Questa storia, però, appartiene anche a Jen. Siamo sicuri, infatti, che nel film Zoey Deschanel fosse una stronza senza cuore? Pur non tradendo mai il punto di vista di Andy, fallito nel lavoro e nell'amore, Alderton ricorda anche le difficoltà dell'essere donna oggi: l'orologio biologico, le pressioni sociali, l'angoscia di trovarsi in un vicolo cielo se senza figli né anello al dito.

Qualche volta è piacevole non essere una cosa che cerca disperatamente di essere una persona.

Mentre si accumulano gli episodi esilaranti — la notte in una casa galleggiante, la convivenza con un vecchio complottista, la frequentazione con una ragazza della generazione Z che giudica tutto “cringe” —, Andy prende nota. Spera che, prima o poi, possa condividere ogni dettaglio con la sua Jen, nel frattempo bloccata su Instagram. E che, magari, la sua alienazione, le sue lagnanze, il suo dolore possano ispirare uno spettacolo più convincente dei suoi sketch triti. Se pensate che l'arte imiti la vita e che autocommiserarsi sia un diritto inalienabile del maschio, troverete un po' di voi tra queste pagine. I coniugi di Storia di un matrimonio scrivevano una lettera dove il lutto rimava con la celebrazione del passato. Dolly Alderton, destinata a restare una sorpresa delle sorprese letterarie del 2025, ne fa un irresistibile spettacolo di stand-up.

Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Pinguini Tattici Nucleari – Islanda