lunedì 30 novembre 2015

Recensione in anteprima [libro e film]: Quel fantastico peggior anno della mia vita, di Jesse Andrews

Questo libro contiene zero lezioni di vita, zero piccole verità sull'amore, zero momenti di calde lacrime in cui abbiamo tipo capito di aver abbandonato l'infanzia per sempre. E, a differenza di quasi tutti i libri in cui una ragazza si ammala di leucemia, non ci sono quelle frasi lunghe come un paragrafo e super mielose, che dovrebbero sembrare profonde solo perché sono in corsivo. Scordatevele.

Titolo: Quel fantastico peggior anno della mia vita
Autore: Jesse Andrews
Editore: Einaudi – Stile Libero Big
Prezzo: € 17,50
Numero di pagine: 250
Data di pubblicazione: 1 dicembre 2015
Sinossi: Greg è il ragazzo più nerd e più asociale della scuola e tutto cambia quando un giorno sua mamma gli comunica che Rachel, una sua compagna di classe, si è gravemente ammalata di leucemia e lui dovrebbe fare qualcosa per starle vicino. Ma come fare? Anche perché proprio qualche giorno prima che Rachel scoprisse di avere questa terribile malattia, Greg ci aveva maldestramente provato con lei e si era sentito dire in faccia un gigantesco no a lettere cubitali. Il ragazzo non ha voglia di uscire dal suo guscio di solitudine, dover parlare con gli altri, relazionarsi a loro costerebbe troppa fatica e troppo sforzo, con il rischio poi di fallire. L’unico forse con cui potrebbe rapportarsi è Earl, l’altro nerd della scuola, altrettanto solitario e restio alle relazioni sociali. Insieme decidono di fare l’unica cosa che li appassiona e di cui forse sono capaci: un film per Rachel, un appassionato e divertente film a lei dedicato. Il risultato è probabilmente deludente e atrocemente brutto, ma la devozione e i ringraziamenti della ragazza nei loro confronti li spingono a dare il meglio di se.
                                      La recensione
Doveva chiamarsi Io, Earl e la tipa, poi Il mio peggiore amico. Doveva uscire prima in estate, poi in autunno. Il romanzo d'esordio di Jesse Andrews, dico, che ancora prima delle librerie aveva conquistato il mio amatissimo Sundance. Il premiato lungometraggio di Alfonso Gomez-Rejon, talmente sui generis, in teoria, da non trovare – per lunga tradizione – posto in sala. Invece, colpo di scena, arriva a giorni anche da noi, rovinato da un titolo libero e indicibilmente logorroico che, conoscendo il protagonista, a posteriori, non sembra così insensato; sapete? Davanti alla possibilità di vederlo in lingua, un mese e passa fa, la nascita di un amletico dilemma. Mi si dava il permesso di dare la precedenza alla trasposizione cinematografica, per passare solo poi alla lettura della storia di Greg, regista dei corti più brutti del mondo; Earl, il suo socio in affari; Rachel, la ragazza con la leucemia che, un po' per pietà e un po' per amicizia, entrambi coccolano e tormentano, nel suo ultimo anno al mondo? Sul Colpa delle stelle d'autore, popolato da figure geniali che non credono nella forza salvifica dell'amore, ma nel cinema d'avanguardia e nell'umorismo nonsense, pesavano, da parte mia, aspettative un po' esagerate e compiti impossibili. Sarebbe riuscito, come mi si assicurava ovunque, a intenerire e divertire, senza struggimenti di sorta e rapporti dai giorni contati? Purtroppo no, non proprio. Non ci si scopre innamoratissimi e non ci si lascia andare a toccanti conti alla rovescia, tranquilli. A volte si sorride, altre si è come dietro un vetro anti-proiettile. Una finestra che dà su un bislacco trio, in una stranza meravigliosamente kitsch e piena zeppa di poster di Hugh Jackman. Attraverso, le emozioni erano attutite e i dialoghi buffi, ma quasi rubati. Mi sono sentito spesso fuori luogo, durante la visione: i loro discorsi sopra le righe mi lasciavano stranito e, a coinvolgermi, solo la chiusa. Per forza di cose toccante, ma un po' banale – diversa, comunque, rispetto a quella del romanzo; più delicata. Me and Earl and The Dying Girl, in sala, si divide perciò tra ultime gioie e riflessioni esistenziali, omaggi a un cinema che a volte mi piace e altre odio di vero cuore: i colori da diabete di Wes Anderson; le missioni segrete e i dialoghi sopra le righe dell'unico Gondry che non sopporto - quello di Be Kind Rewind; le emozioni algide, perché forse eccessivamente messe al vaglio, di Restless. Trovo noioso il tergiversare, fastidioso il cercare vie alternative quando non è il caso. E avevo trovato, in quel caso, personalissima la regia di un Gomez-Rejon che va matto per il virtuosismo e per la tecnica dello stop-motion; ottimi due giovani protagonisti – lui è stato un Link perfetto in quel Beautiful Creatures troncato sul nascere; lei era già moribonda e adorabile in Bates Motel – che hanno il difetto, purtroppo per loro, di avere ruoli che non fanno né ridere, né piangere. Si doveva chiamare così o colì, doveva uscire e non uscire. 
Alla fine, Quel fantastico peggior anno della mia vita è arrivato sotto Natale – arriverà domani, in realtà: sono io a essere un passo nel futuro – e con in copertina il poster di quel film da me incompreso. Restava l'urgenza di procedere al recupero, al tipico confronto, se la pellicola, nel frattempo, l'avevo già scordata, ma conservavo, sui denti, ancora la sensazione zuccherosa di quei suoi conturbanti – e non i senso erotico - colori pastello? Il romanzo di Jesse Andrews è tra i più assurdi che abbia letto, e il record è un punto a suo favore. Uno di quei libri, come l'altrettanto inclassificabile Il manifesto degli attori anonimi, che reputano loro stessi inutili, mera carta straccia – il narratore, ogni tanto, si domanda infatti se qualcuno sia ancora in ascolto, dall'altra parte e, in caso affermativo, ci fa sapere che non siamo nel pieno delle nostre facoltà mentali -, e che trovano ragione d'essere in quel miscuglio metaletterario di autocritica e falsa modestia. Il tasso di gradimento dipende un po' dalla tua tolleranza verso il cinismo, le parole zozze, i voli pindarici, i capricci di una prosa che – cito testualmente - “è una calamità per la lingua inglese”. Io, nonostante avessi i miei dubbi, ho alquanto gradito. Quel fantastico peggior anno della mia vita è infatti solo un caso, l'ennesimo, in cui il romanzo è superiore al film. Sarà che leggendo capisco e familiarizzo molto più che guardando. Chessò: trovo l'umanità in un serial killer, la dolcezza in due innamorati che nella vita vera odierei di sicuro, interesse nei riguardi di creatori senza cuore di corti sperimentali. I protagonisti, tra le pagine, sono più definiti, più bizzarri, più scorretti. 
Greg è sovrappeso, molliccio, inensibile; Earl – non un amico, ma il suo braccio destro – è un nano da giardino del ghetto, che fuma quanto Jigen e stordisce a colpa di calci rotanti; Rachel ha i denti a zappa e i capelli crespi – il caso vuole che la leucemia, più efficace di qualsiasi shampoo, dia loro una radicale sistemata – e, con Greg, giullare di corte, ebbe una mezza liaison alla scuola ebraica. La differenza, tra film e libro, è la stessa che passa tra un pantalone rotto sulle ginocchia, perché consumato, e un jeans acquistato già strappato, ché fa cool; quella tra gli accostamenti di colore di un daltonico e quelli di una fashion blogger dal gusto discutibile. Nel romanzo si è trasandati senza applicarsi; nel film, invece, i vestiti spaiati e le minime pieghe seguono la moda del calzino vintage, del risvoltino. I protagonisti sono impresentabili per finta e curiosi per copione, anche se in gamba. Stuati, però. In Andrews, allo stato brado e nocivi, per gli altri e loro stessi – non sottovalutate il potere dei brutti film su commissione: portano alla morte, non solo a quella sociale -, stilano corpose liste per punti, intavolano dialoghi le cui battute sono indicate come in una sceneggiatura, annotano come me sul blog – con data, dettagli tecnici, stelline di valutazione – progressi o regressi. Ci sono battute fulminanti, consigli cinematografici e neanche l'ombra di una frase che nobiliti l'amicizia dei tre – poco costruttiva, tutt'altro che disinteressata – e dia un senso alla malattia. Greg, impegnato o a prenderle e a farci sghignazzare, non ha pensieri profondi per Rachel – anzi, è indelicato e dissacrante per tutto il tempo – e ci ricorda che nella malattia, nella vita e nella morte, non c'è senso. Perché dovrebbe averlo, allora, il libro su cosa non ha imparato durante il senior year, che si augura nessuno leggerà per intero - sgraziato, diseducativo, pasticcione e, suo malgrado, divertentissimo? Quel fantastico peggior anno della mia vita ha tre protagonisti in posa, in mano un ghiacciolo, e uno sfondo blu in cui, una volta che ci fai l'occhio, scorgi casette stilizzate, qualche faccia, il sogno di diventare uno scoiattolo. Una volta che ti fai l'occhio, capirai che oltre la cacofonia del dolore, le orecchie che fischiano – che non sia un sick lit diamolo per assodato sin dal principio, okay – c'è qualcos'altro. 
“Quando trasformi un buon libro in un film, accadono solo cose stupide. E Dio solo sa cosa accadrebbe se provassi a trasformare questa vomitosa tirata in una pellicola. C'è qualche possibilità che venga considerato un atto terroristico”, ironizza il protagonista. Non è andata tanto catastroficamente, caro Greg. Anzi, ti sei beccato due premi. Per me, che sono della dua idea, è un prodotto carino, ma profondamente hipster. Troppo, perfino per me. Che eppure ho la barba lunga, la mia nutrita collezione di camicie a quadri, il pallino per un certo tipo di cinema che nessuno si disturba, di solito, a doppiare. Il romanzo, invece, è carinissimo. Con il superlativo, senza rancori.
Il mio voto: ★★★★ Il film: 6,5
Il mio consiglio musicale: The Smiths - Asleep

sabato 28 novembre 2015

Recensione: La ragazza nella nebbia, di Donato Carrisi

Il peccato più sciocco del diavolo è la vanità.

Titolo: La ragazza nella nebbia
Autore: Donato Carrisi
Editore: Longanesi
Prezzo: € 18,60
Numero di pagine: 373
Sinossi: La notte in cui tutto cambia per sempre è una notte di ghiaccio e nebbia ad Avechot, un paese rintanato in una valle profonda fra le ombre delle Alpi. Forse è stata proprio colpa della nebbia se l'auto dell'agente speciale Vogel è finita in un fosso. Un banale incidente. Vogel è illeso, ma sotto shock. Non ricorda perché è lì e come ci è arrivato. Eppure una cosa è certa: l'agente speciale Vogel dovrebbe trovarsi da tutt'altra parte, lontano da Avechot. Infatti, sono ormai passati due mesi da quando una ragazzina del paese è scomparsa nella nebbia. Due mesi da quando Vogel si è occupato di quello che, da semplice caso di allontanamento volontario, si è trasformato prima in un caso di rapimento e, da lì, in un colossale caso mediatico. Perché è questa la specialità di Vogel. Non gli interessa nulla del dna, non sa che farsene dei rilevamenti della scientifica, però in una cosa è insuperabile: manovrare i media. Attirare le telecamere, conquistare le prime pagine. Ottenere sempre più fondi per l'indagine grazie all'attenzione e alle pressioni del "pubblico a casa". Santificare la vittima e, alla fine, scovare il mostro e sbatterlo in galera. Questo è il suo gioco, e questa è la sua "firma". Perché ci vuole uno come lui, privo di scrupoli, per far sì che un crimine riceva ciò che gli spetta: non tanto una soluzione, quanto un'audience. Sono passati due mesi da tutto questo, e l'agente speciale Vogel dovrebbe essere lontano, ormai, da quelle montagne inospitali. Ma allora, cosa ci fa ancora lì?
                                         La recensione
Faceva freddo come adesso, più di adesso, e il bavero del giaccone non bastava a ripararmi dal vento. Dopo anni ci si abitua – all'umido, alle nuvole pesanti – ma la pioggia, in quel weekend a un passo dalle feste, si infilava con impegno negli occhi, sotto la pelle. Spaccava le ossa, una ad una. Fulmini e saette, percussioni ritmiche e riflettori accesi, per uno scenario degno di un noir da manuale. Ogni storia da brivido trova il suo inizio in una notte buia e tempestosa. Ogni presentazione di Donato Carrisi meriterebbe perciò un cielo a tema. Una nerissima visione da fine del mondo. Ricordo i brividi di febbre passeggera del ritorno a casa, in autobus, e il piacere di un incontro sorprendente – se avete letto il mio post, all'epoca, è un po' come se ci foste stati anche voi, con me –, insieme alla sensazione che il cattivo tempo avesse disturbato, stranamente, anche l'autore: uno che, per lavoro, gioca con le ombre, ma a cui poi manca il sole pugliese; uno che maneggia argomenti grevi, sempre con i guanti bianchi, e che in privato – o davanti al suo pubblico di lettori affezionati – si scopre leggerissimo. Donato Carrisi, di persona, è meno tenebroso che in foto: alto come me, più o meno, e dal sorriso facile. Soprattutto, non si lascia scoraggiare dalle bizze dei microfoni: le interferenze tecniche o la presenza, in libreria, di un pubblico che chiacchiera e gli scatta foto non lo turbano. Ci sono scrittori schivi e scrittori, invece, che sanno modulare frasi significative e creare immagini indelebili anche così, all'impronta. Donato Carrisi lavora con le parole, che siano d'inchiostro o di fiato poco importa. E con quelle stesse parole, in unione a innate capacità di uomo di spettacolo, aveva catturato il pubblico – perfino mio fratello, all'inizio preso dai suo acquisti – in un'ora in cui si parlava del più e del meno, del processo creativo, dei gialli di cronaca. “Ricordate tutti la Strage di Erba, i coniugi Romano”, aveva domandato, “ma scommetto che nessuno terrà più a mente un particolare. Il bambino ucciso, come si chiamava?”. I nomi – arabi, perlopiù, giacché ci si ricordava tutti un bimbo dai profondi occhi scuri e il suo sospetto padre tunisino – volavano come i numeri a tombola. 
“Youssef”, aveva rivelato infine. L'incontro si era concluso con una riflessione dolente – il ricordare i colpevoli, ma non le vittime quanto ci rende complici? - e un'anticipazione che non avevo saputo cogliere. A un anno di distanza, infatti, Donato Carrisi torna con La ragazza nella nebbia. Storia nuova con un vecchio interrogativo che si risveglia, all'ora delle streghe. E se mettersi sulle tracce di una ragazza scomparsa avesse minore priorità rispetto all'altro tarlo che logora: assicurare alla giustizia – e alle brame delle telecamere – un mostro? E se una storia, in realtà, la scrivessero i cattivi, con atti esecrabili che sovvertono gli equilibri, e non i buoni, povera gente dall'esistenza tranquilla? Abbiamo visitato, con lui a farci da Cicerone, un girone infernale senza confini e la Città Eterna. 
Abbiamo avuto professionisti dalle abilità fuori dalla norma – l'instancabile Mila, il penitenziere Marcus –, che sul male hanno formulato ipotesi schiaccianti; organizzato cacce. La bruma che si dirada a valle ci restituisce la foto di un paesino all'ombra delle Alpi. Avechot è un presepe immaginario su cui il Padreterno ha fatto cadere la neve, a fiocchi grossi, e un'inaspettata fortuna: si è fedeli al denaro e alla religione, da quando le ricchezze del sottosuolo hanno allontanato i turisti e i cantieri a cielo aperto hanno sottratto spazio vitale agli splendori naturali. Sembra Cogne. Quando il Natale chiederebbe a tutti di essere più buoni, quando il bianco è troppo bianco per il nero della cronaca, la sedicenne Anna Lou scompare nel nulla: ha un diario segreto in cui scrive di gatti e perline, una famiglia profondamente religiosa, i capelli rossi. Si parte dalla fine – il protagonista, confuso, è sotto interrogatorio – ed è il suo racconto al Dottor Flores, in un magistrale alternarsi di punti di vista e piani temporali, che scioglie, poi, il mistero de La ragazza nella nebbia. Sul romanzo, da parte mia, pesavano alte aspettative: superfluo dirlo. Con Carrisi – uno di quegli autori di cui non mi stanco – cerco la lettura del thriller dell'anno, non di un thriller, e, prima o poi, lecito incappare non in una delusione, ma in un romanzo vagamente sottotono. Anche se dispiace ammetterlo, abituati al meglio sin da un esordio indimenticabile. Lo stile resta riconoscibile, la struttura cambia. Si assottiglia, si semplifica: non ha, questa volta, tanti fuochi. Un unico perno – Chi ha ucciso Anna Lou? come Chi ha ucciso Laura Palmer? - e il confrontarsi, dopo intrecci machiavellici e bambole russe di tranelli, con il giallo tradizionale. Sembrerebbe prendere fiato tra due serie – e, dunque, da quei polizieschi tridimensionali, difficilissimi, ad incastro. 
Un gioco da ragazzi. Invece, ragionandoci, si nota che è meno semplice di quanto appaia: stupire con poco, anziché intrattenere con tanto. Carrisi stupisce e intrattiene, non dimentica le regole base del suo straordinario successo, ma – fino alla fine, anche davanti alla sue quasi quattrocento pagine – ho conservato l'impressione di un racconto lungo, di un esercizio ben portato a termine. Ho fatto le ore piccole per finirlo – con, fuori, le stesse atmosfere dello scorso anno e, tra le pagine, lo stesso Carrisi padrone – ma mi è mancato il colpo di scena eclatante, il brivido, in un ultimo capitolo frettoloso che, per la prima volta, non mi ha lasciato a bocca aperta. Se le risposte al caso mi sono sembrate modeste, La ragazza nella nebbia è interessante, molto, per le riflessioni sulla morte ai tempi dei mass media. I misteri dello storico Twin Peaks, gli uomini qualsiasi del Sospetto di Vinterberg, vessati dalle occhiate di fuoco del vicino di casa, e un quid – in questo caso, il sezionare la materia fragile di cui sono fatti i talk show, penna e telecomando alla mano – che è inequivocabilmente suo. La trama si fa circostritta, ma il male, chiodo fisso, rompe di nuovo gli argini. E l'agente speciale Vogel, che eppure dovrebbe combatterlo, lo coltiva con dedizione sotto le luci della ribalta. Non integerrimo uomo d'azione, ma mestierante dotato di sangue freddo e tratti telegenici, cercherà di offrire alla telecamera un colpevole – un mite professore di lettere con la sfortunata di non avere un alibi abbastanza solido – e il suo profilo migliore. Non cerca prove, ma indizi, con l'aiuto del giovane Borghi, di una giornalista d'assalto che gli ha rovinato la reputazione e di una giacca di cachemire – sotto: camicia inamidata, gemelli d'oro, cravatta di seta – per combattere il clima rigido, e nascondere le macchie di sangue altrui. Qualche sbavatura c'è – i colori del giallo, a volte, diluiti nel mare magnum del realismo – ma tanto si salva dalla nebbia della mia memoria. I lumi e i peluche. Un regalo mai scartato, con ancora il fiocco in cima, e un albero puntato verso la finestra, come un faro per i naviganti – e in città così piccole è assurdamente facile smarrirsi. I reporter, come gli avvoltoi, che avvertono l'odore dello scoop, pare ricordi quello rugginoso del sangue, e iniziano a volteggiare su Avechot, in cerchi implacabili e perfetti. Non ci si prende la briga di cercare la vittima, data per spacciata sin dalle prime ore, ma il suo assassino. Per santificare Anna Lou e dare a quel borgo spuntato da una fiaba, all'improvviso scena del crimine, la sua pace. La stampa adora i finali lieti, per quanto possibile, e l'illusione dei mostri.
Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Negramaro – Io non lascio traccia

mercoledì 25 novembre 2015

Mr. Ciak: Hunger Games. Il canto della rivolta - Parte 2

"Di solito il pensiero collettivo ha vita breve. Siamo creature stupide e incostanti, con la memoria corta e un grandissimo talento per l'autodistruzione."


                                 La recensione del film 
L'anno scorso, di questi tempi, di ritorno a casa con un'amica – spettatrice, insieme a me, del terzo capitolo di una saga young adult dai toni universali e dal significato profondo – borbottavo qualcosa sul danno fatto, dividendo in due il capitolo conclusivo di Hunger Games. Il mio preferito, ma il più povero di eventi. Però, da una parte, ci si poteva mettere il cuore in pace: trecentosessantacinque giorni dopo, percorrendo la stessa strada, sarei stato forse a pezzi. Per gli addii e, soprattutto, per i tanti morti da piangere. E invece... Torna l'inverno e, con l'inverno, l'attesissima Katniss Everdeen. Un anno ad attenderla e una fila assurda, di sabato, per non rimandare troppo; il biglietto pagato a prezzo pieno, sicuro fossero soldi ben spesi. Si parte in medias res, dove eravamo rimasti. E dove eravamo rimasti, se del film precedente – poco incisivo, ma ben fatto – ricordiamo appena il ritornello di The Hanging Tree e la scena di un Peeta furente, che si avventava contro la beniamina di Panem? I distretti si sono sollevati contro Capitol City e Alma Coin, adesso, si contrappone al Presidente Snow. Si punta al cuore del potere, un giardino di rose bianche e tranelli, e si cammina sulla terra - tra ceneri, rovine fumanti, cadaveri di innocenti - e sotto, per raggiungerlo. Pochi isolati diventano una lunga crociata, se quella guerra intestina è stata il pretesto per dare vita a una nuova edizione, questa volta incensurata, dei giochi: trappole, meccanismi diabolici, mostri. Katniss non combatte in prima linea: simbolo da proteggere, sfila nelle retrovie, con una troupe che immortala e denuncia e due ragazzi che si contendono i suoi sentimenti. Il canto della rivolta – Parte 2 è il resoconto in tempo reale di un colpo di stato; una scalata al potere che esalta poco, con due ore abbondanti che spesso si patiscono, una regia statica e un cast provato. Perfino la Lawrence, per me sopravvalutata, ma di una potenza clamorosa nei passati capitoli, ha addosso i segni della stanchezza. La sua Katniss è poco ispirata, poco ispiratrice, anche prima che fatti tragici – i quali, comunque, non emozionano quanto sperato – ne intacchino la famosa energia. Gli spumeggianti comprimari – la frivola Banks, il brillo Harrelson – non sono abbastanza presenti per alleggerire i toni, in generale grevi, e accanto a un'impeccabile Julianne Moore, solo Josh Hutcherson – interprete di uno dei personaggi maschili più teneri di cui abbia letto – brilla, con la ragione che lo inganna e un amore che, neanche sotto tortura, si dimentica. La saga di Hunger Games ha un solo difetto: un film di troppo. Alla resa dei conti, questo: dispiace ammetterlo, il più deludente dei quattro. Non che sia spiacevole, ma quanto avrebbe giovato un montaggio migliore al risultato totale? A colpi di forbici immaginarie, troncare una prima ora superflua – la protagonista, a lungo, non si batte, e quando il pericolo salta fuori ha tutta l'aria dei vampiri di Io sono leggenda; immancabili perciò il sacrificio eroico e le esplosioni a catena – e aggiustare un po' il resto. Una mezz'ora conclusiva, ad esempio, bella, ma non abbastanza. Poteva essere bellissima, tristissima, ma non c'è tempo per piangere, quando invece di tempo, all'inizio, se ne è perso in quantità ingenerose. Il canto della rivolta non è né abbastanza concitato – manca di fluidità, di ritmo – né abbastanza emotivo – i fazzoletti, inutilizzati, sono ancora nella tasta della mia giacca. Il romanzo, invece, nonostante le pecche di una prosa così così, mi aveva scosso: moriva la speranza, si sceglieva la ragione e non l'amore. La morale resta invariata, ma giunge attutita: quell'umanità sofferente non tocca e la risoluzione del triangolo appare quantomai ovvia. Per fortuna ci sono Peeta e Ranuncolo, il gatto randagio che probabilmente li seppellirà tutti quanti, a regalare qualche emozione in un mondo di comprimari robotici; quasi presi da altro. In giorni oscuri come i nostri, di terrore e terroristi, Hunger Games ci ricorda, per l'ultima volta, i nostri sbagli e le nostre debolezze: le continue guerre, quando avevamo augurato ai nostri figli la pace, e l'abbandonarsi alle decisioni dei demagoghi; i fallimenti della democrazia e la sterilità delle vendette. Ci vorrebbe una Katniss, con i messaggi forti di cui è portavoce, a guidarci; possibilmente, non questa: irriconoscibile. Le strategie promozionali e la sete di guadagni raddoppiati, infatti, fanno male a una saga – la più significativa, per le nuove generazioni – che ci ha dato molte soddisfazioni, nel tempo, ma poi si è rimangiata la promessa. Così, se qualcuno, come accade al buon Peeta, mi facesse una domanda precisa – Hunger Games lo consigli, vero o falso? -, gli risponderei vero, nonostante giochi sordidi – non del Presidente Snow, questa volta, ma delle grandi major – abbiano fatto di tutto e di più per indurmi a dire il contrario. 
Colpa degli scontati, inevitabili inconvenienti del brodo allungato. (6,5)

lunedì 23 novembre 2015

Recensione: Fino alla fine del mondo, di Tommy Wallach

Guardò il cielo, cercò la scintilla implacabile e vide che erano impegnati in uno scontro di volontà. In quell'istante smise di averne paura, anzi, la sfidò ad arrivare, sicura che quel sasso non potesse avere fame di morte più di quanto lei avesse fame di vita.

Titolo: Fino alla fine del mondo
Autore: Tommy Wallach
Editore: Piemme – Freeway
Numero di pagine: 388
Prezzo: € 17,00
Sinossi: L'asteroide Ardor ha il 66 per cento di probabilità di colpire la Terra, distruggendola. Potrebbe accadere entro due mesi. Potrebbe accadere sul serio. Due mesi è un tempo irrisorio oppre eterno. Dipende. Può essere impiegato per disperarsi oppure per commettere ogni sorta di nefandezza, oppure per ridefinire ciò che siamo, liberandoci dalle etichette che abbiamo lasciato che ci appiccicassero addosso. A Seattle quattro ragazzi stanno aspettando la fine del mondo. C'è lo sportivo, la puttana, lo sfigato, la studentessa brillante. Hanno due probabilità su tre che quei mesi siano l'ultima occasione per fare qualcosa che abbia un senso. Non per essere degli eroi e nemmeno per dimostrare niente a nessuno, ma solo per diventare se stessi, trasformando le proprie vite in qualcosa che abbia avuto senso vivere.
                       La recensione
Qualunque cosa sia, non ne vale la pena. A metà della scorsa settimana, di sera, ho ricevuto una chiamata inaspettata. Il cellulare ha vibrato e, sullo schermo, ho letto il numero di una persona con cui, faccia a faccia, credevo di non avere mai parlato prima. Giusto per messaggio. Magari era partita una chiamata per sbaglio: con il touch, spesso capita. Una volta, due... Alla terza, ho risposto, ricordandomi che tra noi c'era una questione in sospeso: a quella ragazza, infatti, avevo promesso delle dispense, ma quando avevamo detto di incontrarci, in settimana, era caduto il discorso; non mi aveva fatto sapere altro. Alle ventidue spengo la tivù e, un po' imbarazzato, rispondo: odio parlare al telefono. Non so quando i miei silenzi siano troppi o troppo pochi, quando è giusto spezzare parola oppure no. Con gli sconosciuti, a volte evito: mi si deve conoscere per interpretarmi. Ma quella sconosciuta alla cornetta, d'un tratto, non lo è stata più, sconosciuta. Mi sono ricordato di averla incontrata una mezza volta - amici in comune e lei, più grande di me, parlava dei suoi viaggi –, mentre mi raccontava di come, in Italia per gli errori della segreteria didattica, aveva preferito tornare a Parigi, da un giorno all'altro, all'indomani della tragedia. Lì ha una casa, un impiego – ho capito che scrive, che lavora in ambito umanitario – e al suo paese originario, in Abruzzo, non poteva starci, con il pensiero che vola altrove. Al concerto, quella sera, c'era il primo ragazzo che aveva conosciuto in Francia e la memoria del cellulare conservava ancora le sue promesse: doveva andarla a prendere in aeroporto. Ma quel ragazzo era morto, e adesso lei si scusava con me per i libri, per il ritardo. Ma la voce tremava, e tremavo anch'io. Lo avrà capito, si è subito scusata, ma aveva bisogno di parlare. E così abbiamo parlato. Di parigini che si fanno in quattro per la loro amica italiana, che di giorno si stanca, a lavoro, per non pensare, ma che quando è sera ha paura. Dei tanti feriti e, in particolare, di un'amica che è sopravvissuta alla sua compagna – e con la naturalezza che nel nostro Paese non ci sarà forse mai, senza dovere specificare sai, lei è lesbica, perciò aveva una compagna. Dei suoi inevitabili e se lì ci fosse stata anch'io; della preoccupazione di andare in ufficio in metropolitana, ché cosa ne so se quello di fronte a me, dal nulla, mi spara in fronte. Ho riattaccato un'ora dopo, ma non sono riuscito a dormire. Solo rigirandomi tra le coperte, pietrificato, mi sono scoperto realmente scosso dalla drammatica notizia che, quante volte, un centinaio?, avevo sentito al TG. Non erano le frasi fatte della televisione a parlarmene, non i titoli dei giornali. Il racconto di quella ragazza, per la prima volta, mi aveva fatto sentire Parigi vicina, e la preoccupazione – incancellabile - mi voleva sveglio. Così ho iniziato a leggere Fino alla fine del mondo
Il libro giusto nel momento sbagliato, a tal punto che non riesca a dirvi, su due piedi, quanto sia effettivamente bello e quanto, quella notte, sia sembrato bello a me. Ma non è la stessa cosa, dopo tutto? In uno young adult – il più illuminante letto quest'anno – dove si parla di scienza e fede, si muovono significativi protagonisti in cerca di un senso, in un'annunciata apocalisse che somiglia un po' all'estate delle grandi scelte. Metteteci però le rivolte in piazza, la legge marziale, una festa spaziale. Una seconda parte dura, cupa, in cui l'isteria collettiva miete ingiuste vittime e il salvataggio di una sorella che frequenta brutte compagnie porterà i personaggi in un covo di tossici, a giocare con il fuoco. L'autore, giovane e colto – ne sa infatti di musica, filosofia, letteratura -, cita Vonnegut e con uno stile profondo, buffo, assolutamente originale nello spirito, scrive un romanzo che non è una lista di cose da fare. I diciotto anni e i buoni propositi di ogni dove – perdere la verginità, inseguire un sogno, trovare l'amore – somigliano, in Wallach, a quelle immagini veloci, frammentate, in cui nei film si vide un'umanita che, nel profondo, emoziona. Peter, sportivo e popolare, ha il successo in pugno, ma inizia a domandarsi se il suo scontato futuro – una borsa di studio, una fidanzata sciocca e possessiva – non sia l'equivalente di una vittoria di Pirro, come gli ha suggerito il prof a lezione.
Eliza, nuova a Seattle, ha dato un bacio al ragazzo sbagliato, sotto lo sguardo di un'osservatrice indiscreta e, in un lampo, il pettegolezzo l'ha dipinta come una poco di buono. Sul petto ha una lettera scarlatta. Si è perciò adeguata in fretta. E' diventata la ragazza disinibita e sfacciata che tutti, sbagliando, pensavano che fosse. Ma ritrova se stessa nella camera oscura, quando l'unico lampo positivo – il flash della macchina fotografica – le permette di immortalare attimi irripetibili. Andy, punk e skater, indossa jeans troppo stretti e fuma troppe canne, invece: innamorato pazzo di Eliza – che anche Peter ama, tra l'altro -, è autore di testi intensi e di dichiarazioni d'amore brille nelle segreterie telefoniche. Anita, afroamericana, è ricca e precisa: avrebbe Princeton nell'imminente futuro, ma c'è questa voce potentissima, da cantante soul, che non riesce a zittire. Perché cantare nel proprio armadio, se c'è una folla che vuole sentirsi dire, e cantare, un'ultima cosa buona? L'esordio di Tommy Wallach – cantante e compositore che, all'interno della sua opera prima, mette tutta la musica che può – parla della vita, essenzialmente, che non si ferma mai. Che siano i terroristi, che sia un'asteroide che ha il 66 per cento di possibilità di ridurre in cenere la Terra. Ma la vita continua, anche senza di noi, e ci sono i giovani, per fortuna, che non smettono di proiettarsi a domani. Come l'amico della ragazza di cui vi ho parlato, che aveva promesso di andarle incontro, domenica, e a domenica non ci è arrivato. Quante le promesse infrante? Quanti gli appuntamenti mancati? A colpire, qui, soprattutto il concetto di karass. La social catena di Leopardi; lo splendido momento di Sense8, in cui gli otto protagonisti, in città lontane, si ritrovano a canticchiare sovrappensiero la stessa canzone. Persone che operano per uno stesso fine e che, ovunque siano, qualsiasi cosa facciano, si ritrovano a guardare la stessa asteroide che incombe. Siamo sotto lo stesso cielo - e non è sempre più blu, ma, a tratti, nerissimo. 
Sono a sentirti piangere, una sera, dall'altro capo del filo.
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio: The Smiths – There Is A Light That Never Goes Out


To die by your side
is such a heavenly way to die.”

sabato 21 novembre 2015

I ♥ Telefilm: Breaking Bad - Reazioni Collaterali


[2008 –2013] 
Non sono uno di quelli che fa i salti di gioia quando ha gli episodi di qualche serie televisiva in arretrato. Mi piace vederli volta per volta, a meno che non si tratti di una leggerissima sit com da nulla. Figuriamoci se, in sospeso, non ho qualche episodio, bensì qualche stagione. Diciamo pure cinque, tonde tonde. Raro, allora, che mi prenda la briga di darmi ai recuperi corposi, non essendo il tipo da maratona notturna – vado a dormire presto e mi sveglio altrettanto presto – e detestando tutto ciò che, per la sua grandezza, è destinato inevitabilmente a sfuggirmi di mano. Però uno che ama il cinema, uno che ha un blog in cui parla delle cose che più gli vanno a genio, uno che si vanta di essere uno lettore e, in primis, uno spettatore compulsivo, può non avere mai visto Breaking Bad, la serie che tutti hanno visto? Quella che ha spodestato, ai penultimi Emmy, un gioiello intitolato True Detective e alla quale nella mia città, sul mare, è stato dedicato un murales con le bombolette spray, che occupa una parete grossa così. Scherzando, mentre si andava tutti in spiaggia, trovavo anche qualche somiglianza tra l'uomo raffigurato – calvo, il pizzetto sale e pepe, un paio di occhiali sottili – e papà – la non pettinatura, la stessa barba curata, ma senza la presbiopia, ché ha appena spento cinquanta candeline e ci vede senz'altro meglio di me. Non sapevo ancora chi fosse Heisenberg. Lo avrei scoperto entro d'estate, con due stagioni introduttive che mi sono sì goduto, anche se il desiderio di proseguire a tutti i costi, chissà perché, al tempo mancava. Un anno fa ho conosciuto i protagonisti di Breaking Bad e, per un anno, li ho poi tenuti in pausa. Non che non non mi piacessero; non che, nonostante un infondato presentimento iniziale, mi annoiassi in loro compagnia. I tentativi di essere sempre aggiornato, la necessità di una recensione al giorno, mi hanno portato, semplicemente, a inserire l'imperdibile Breaking Bad in una lista diversa da quella delle mie prerogative base. Finché mio fratello, che minacciava spoiler spietati e che, per inciso, mi tocca anche ringraziare per la pressione psicologica, non mi ha ricordato dov'ero rimasto e, soprattutto, cosa rischiavo di perdermi. Per lui – ma per tanti, e alla fine anche per me, pigrissimo ma lucido nei giudizi – serie delle serie; ve la butto lì. Di quelle che segnano un prima e un dopo, come la natività nel cattolicesimo; di quelle che, indipendentemente dai gusti, vanno affrontate come compito per casa. Sapete tutti cos'è, e allora io vi dirò cosa non è. Breaking Bad – storia di droghe, strategie, sogni americani rivisti e corretti – non parla di dipendenze e narcotraffici, come Trainspotting o, non so, un Traffing. Non è una serie d'azione, o almeno non solo. A colpirmi, perfino in episodi in cui non succedeva granché, sapete cos'era? La sua sconcertante naturalezza, che un taglio non sempre cinematografico e registi anonimi a scambiarsi le redini non scalfiscono per un minuto, anzi: queste scene lunghissime, questi dialoghi semplici ma densi, il manierismo che latita hanno il grande pregio di non rendere l'acclamato Breaking Bad pretenzioso neanche un po'. Assodato che Heisenberg, già leggenda, non faccia il filo al Johnny Depp di Blow – lui, infatti, non si sballa, filosofeggia sempre il giusto e, soprattutto, non ama sporcarsi le mani – e che i suoi intrecci shakespeariani, sul finire, non facciano parlare di loro per i volteggi di una macchina da presa ballerina – assente il maniacale perfezionismo di Hannibal, le ipnotiche spire di fumo di Rust Cohle -, restano interpreti granitici e una scrittura che ha dello straordinario. Come se fosse cosa di poco conto. Personaggi irripetibili a cui puoi provare a offrire solo parte della tua attenzione – Breaking Bad non ha parole di troppo, cavilli tecnici che stordiscono, e si potrebbe seguire con un solo occhio: spesso, mi ha tenuto compagnia a pranzo, mentre cucinavo o lavavo i piatti – prima che, in un'ultima stagione priva di difetti, ti prendano per la gola. Forse, mi ha fatto anche bene aspettare. Ho messo meglio a fuoco le metamorfosi; ho prestato più attenzione ai particolari. Ma non sono riuscito a capire quando Heisenberg, come in un mito greco di trasformazioni mostruose, abbia preso il sopravvento sul Signor White. Dove finisca il bene e dove cominci il male, dov'è che il padre di famiglia – il Fantozzi perseguitato dalla sua personale nuvola nera, il mite Flanders dei Simpsons dai brutti maglioni a rombi – abbia venduto l'anima al genio spregiudicato con la sua stessa faccia che, da un “la” elementare, avrebbe poi costruito un impero dalla lunga fortuna. Sapendo com'è andata, cosa hanno fatto, cosa si sono fatti, è difficile parlarvi di un quieto professore di chimica, padre di un ragazzo splendido ma difettoso e di una bambina che arriverà sul finire della seconda stagione, in cerca prima dei soldi, poi del brivido. Fino a non averne mai abbastanza. Con i giorni contati, quest'uomo medio in cerca di qualcosa in più si metterà sulle tracce di Jesse Pinkman – un suo vecchio studente che ha venduto il suo candore per due grammi di felicità – e insieme, in un rapporto embrionale che si nutre di amore e odio, inizieranno a produrre una metanfetamina blu, purissima, che va via come il pane, ad Albuquerque e dintorni, e rende più dell'oro. Ma Walter ha scoperto di avere il cancro ai polmoni, e non ha mai fumato; adesso non vuole dare al destino, già beffardo di suo, ulteriori scuse per accanirsi. Discreto a intelligente, non abbandonerà la sua vita modesta per altro; ma il camper nel deserto degli inizi cederà il passo prima a un laboratorio segreto, poi a una geniale fabbrica itinerante, e i suoi rapporti – con una famiglia all'oscuro, con un cognato che lavora alla narcotici e si fida ciecamente, con un ragazzino che aveva bisogno di una guida e non di altri tranelli -, poco a poco, degenereranno. Quando la famiglia, apparente ragione del tutto, ma parliamo di un'altra bugia, gli volta le spalle e Jessie, come un terzo figlio che ha però traviato negli anni, si allontana, si consumerà una moderna tragedia del potere. Perché chi regna è condannato alla solitudine, e da soli non esiste salvezza. Confidando di avervi dato un'idea di come sia Walter, stratega e meticoloso, acqua cheta che logora i ponti, ora capirete – se non lo sapete già – com'è Breaking Bad. Politicamente scorretto, ironico: onnipotente. All'altezza di aspettative elevate e ben riposte. E non si può che lasciarsi condurre, perciò, verso una chiusa necessaria e inevitabile, in cui Dean Norris si conferma un commovente comprimario, Anna Gunn – sopravvalutata, o forse è l'odio nei confronti della sua Skyler a parlare? - una delle mogli più irritanti e battagliere del piccolo schermo, Aaron Paul – spacciatore da poco, coi neuroni andati e il cuore pulito – l'eroe dell'inazione per eccellenza. A caldo, quante gliene ho dette, al suo povero Jesse. Non fa che piangere, non fa che sbagliare; permette che altri decidano sempre la sua sorte. Si lascia vivere e non vive. A mentre fredda, invece, Pinkman è inerme e confuso, invece, come saremmo noi spettatori, invischiati in qualcosa di losco e pericoloso, se indossassimo i suoi panni sformati e quei limpidi occhi blu. Su tutti, ovviamente, svetta un clamoroso Bryan Cranston: viene direttamente dalla mia infanzia, lui che un decennio fa interpretava il papà dello sfrontato Malcolm e, con il camice e la mascherina protettiva, sembra un po' un Dexter invecchiato – non il serial killer della Showtime, ma quello di Il laboratorio di Dexter, altro ricordo targato Cartoon Network del me bambino – che si sente Gesù Cristo in terra. Tra colpi di scena e doppi giochi, svolte belle e svolte bellissime, so anche dirvi il mio episodio preferito. Sono stato attento: il decimo della terza stagione. Un piccolo capolavoro in cui la caccia ossessiva a una mosca, in un ambiente che dovrebbe essere asettico, serve a parlare di nevrosi che tormentano e a creare un'ultima vicinanza tra Jesse e Walter, dipendente e boss, la quale spalanca uno spiraglio piccino a reciproche confidenze. E ronza, indisturbato, il senso di colpa. Il non detto. Breaking Bad sposa lo storico enunciato di Lavoisier e, nel mentre, si fa anch'esso legge. Nulla di crea. Nulla si distrugge. tutto si trasforma. Soprattutto, qui si trasformano tutti. (9)

giovedì 19 novembre 2015

Recensione a basso costo: Alfredo, di Valentina D'Urbano

Ma io non ho la testa per fare certe cose. Ci vorrebbe forza di volontà, ci vorrebbe un motivo vero. Ci vorrebbe che fossi un po' più come lei e un po' meno come me.

Titolo: Alfredo
Autrice: Valentina D'Urbano
Editore: TEA – I Grandi
Prezzo: € 10,00
Sinossi: Alla Fortezza – il quartiere senza identità, con l'asfalto riarso dal sole e spaccato dal gelo, e i palazzi dall'intonaco ruvido e sbrecciato – tutti li chiamano «i gemelli». Perché da sempre Beatrice e Alfredo sono inseparabili, come fratelli appunto. O forse qualcosa di più? La loro storia, struggente e tragica, diventerà quasi una leggenda nel quartiere. Ma a narrarla finora è stata soltanto Bea, la metà più forte dei «gemelli», la ragazza cui bastava sentire l'odore di Alfredo sulla maglietta verde che lei stessa gli aveva regalato per sapere che lui ci sarebbe sempre stato. La giovane donna che ha lottato fino alla fine per sentire il rumore, inconfondibile, dei suoi passi. Questa invece è la storia della metà più debole dei «gemelli» e a raccontare l'arrivo alla Fortezza è Alfredo, in prima persona, con la sua voce, le sue fragilità, i suoi piccoli e grandi sogni così difficili da realizzare e così facili da infrangere. Fino all'incontro che gli cambierà la vita: quello con Beatrice.
                                                  La recensione
Al ginnasio, ho scoperto che tradurre mi piaceva. Soprattutto, tradurre dal greco. Prendere un testo incomprensibile, scritto, per di più, in un alfabeto diverso dal nostro, e restituirlo lentamente all'italiano - ricercando prima il verbo, poi il soggetto, senza dimenticare l'importanza delle congiunzioni - era un gioco a premi; decodificare un mistero da cui dipendeva un po' la sufficienza in pagella, un po' la salvezza dell'universo, come fosse un'avventura fantastica. Il fatto che mi piacesse, però, non vuol dire che lo trovassi facile. Era bastata una versione fatta così così, un cinque scarso, per farmi titubare. Avevo riconosciuto regole e costrutti, quella volta, e scelto i termini appropriati. Ma cosa significasse quel testo boh, chi lo sapeva. La versione che non afferravo era un mito di Platone, che poi avrei finalmente compreso nell'ora di filosofia. Nella notte dei tempi, c'erano non due, ma tre generi – il maschio, la femmina, l'androgino – e l'essere umano era una sfera, con quattro braccia, quattro gambe, quattro occhi e due sessi. 
Rotondo, si muoveva saltellando goffamente, e saltellando goffamente aveva puntato al monte Olimpo. Zeus, temendo che qualcuno osasse usurparlo e non potendo condannare l'umanità tutta all'estinzione, aveva scagliato uno dei suoi fulmini contro quest'uomo a forma di mela. I figli del Sole e della Luna, adesso soli, privi dell'altra metà, erano destinati, in vita, a cercare il compagno da cui erano stati separati, un giorno, per vendetta. Come parafrasare a un quattordicenne il senso dell'amore? Alla Fortezza, Platone non si conosce. Ci si ferma alla quinta elementare, in quel quartiere sotto assedio di palazzoni abusivi, ma c'è la strada che insegna e non fa sconti. In Quella vita che ci manca però terzo romanzo che era stato un ritorno a casa – si raccontava un altro mito. Quello dei Gemelli, Alfredo e Beatrice: sempre insieme, ma sempre divisi. Gli sfortunati amanti che avevano imparato ad amarsi in ritardo, dopo un'infanzia insieme che aveva saputo renderli fratelli siamesi. Eppure erano opposti: lui biondo, lei mora; lui fragile, lei forte. Ma l'amore, anche se per poco, aveva fatto sì che, nello stesso letto, tornassero a comporre il loro legame simbiotico. Abbracciati stretti, allora, come lo sono i gemelli nelle ecografie. Si erano conosciuti da bambini, con Alfredo che – pestato a sangue dal padre alcolista – agonizzava sul ballatoio del condominio, il viso una maschera rossa, e la piccola Beatrice, allora, aveva preso a piangere al posto suo. Come quando tu ti sbucci un ginocchio, in bici, e il tuo migliore amico piange per te. Cosa c'è stato prima, cosa durante? Valentina D'Urbano – la stessa che troverete nella lista dedicata ai libri più belli letti durante l'anno, con il suo intenso e affascinante Acquanera – guarda al suo esordio e ritorna sui propri passi; quelli che, in definitiva, fanno ancora rumore. 
Ne sentite, in sottofondo, l'eco? E se c'è una cosa che tanto, tanto mi piace di lei – che, da quel che Facebook mi dice, lavora su un nuovo romanzo che la prosciuga e che non vedo l'ora di leggere – è che, con quella prosa spigolosa, ruvida, irregolare come gli edifici dei suoi quartieri, si affezioni sempre smisuratamente ai suoi personaggi. Ironico, perché non si direbbe, sapendola spesso spietata. Sbagliato, perché non si potrebbe, da quel che i maestri, almeno, suggeriscono: uno scrittore, pare, non dovrebbe innamorarsi delle sue creazioni; ma come fa? Il bello de Il rumore dei tuoi passi, opera prima che torna e ritorna, in seguiti o semplici dèjà vu, è che invece non l'ha mai abbandonata. In questo nuovo romanzo, un esperimento che è diventato altro, ampliazione di un racconto breve, il mito dei Gemelli rivive, ma raccontato non da Beatrice, né dai fratelli Smeraldo, testimoni indiretti: a parlare è il ragazzo alto e secco che indossava i maglioni a maniche lunghe d'estate, lo spettro a cui andavano le preghiere e i girasoli. Nel capitolo iniziale, una scena che sembra d'altri mondi. Ho pensato ai bambini africani che giocano nel fango, tra le sterpaglie, con la pancia gonfia d'aria, le mosche che tutt'intorno ronzano e le madri che muoiono di setticemia. Come in una pubblicità progresso in cui il personaggio famoso di turno ti chiede di donare, di salvarli. Ma Alfredo e i suoi fratelli – Massimiliano e Andrea – sono bianchi, biondissimi, e nessuno ha cura di loro. Quel fiume sporco, forse, è un tratto del Tevere che si usava a mo' di discarica e il loro Terzo Mondo è la zona cieca di una città che, negli anni settanta, ha confini di fuoco ma non regole. Successivamente, il trasferimento alla Fortezza e l'adolescenza che coglie di sorpresa, facendoci scoprire troppo grande per fare il bagno nella stessa vasca di quella bambina che ci fa dannare l'anima. Infine, il dopo: il vortice della dipendenza, i buchi dell'eroina, la pena eterna. In quell'epilogo già scritto, che non per questo emoziona di meno, l'inevitabile accade; ma saremo ancora certi che, a modo suo, Beatrice – un nome che parla e non dice frottole - non lo abbia salvato ugualmente? 
Con la lettura di Alfredo, si capiscono meglio le storie tramandate alla Fortezza e l'importanza delle metà mancanti. Adesso, vedete, la sfera è finalmente intera.
Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Radiohead – Creep

lunedì 16 novembre 2015

Recensione: Albion - Ombre, di Bianca Marconero

La sconfitta diventa una scelta, se la Spada sei tu.

Titolo: Albion – Ombre
Autrice: Bianca Marconero
Editore: Limited Edition
Prezzo: € 14,90
Numero di pagine: 502
Sinossi: Marco Cinquedraghi e i suoi amici hanno scoperto di essere portatori di una peculiarità genetica che si fonda nella leggenda. Sono le nuove incarnazioni di Artù e dei cavalieri della Tavola Rotonda. Ma qual è il prezzo del loro privilegio? A cosa si deve rinunciare per guadagnarsi un destino già scritto? Marco preferisce non chiederselo. Saranno gli errori commessi e le bugie a trascinarlo in una spirale che lo obbligherà ad aprire gli occhi, mentre anche l'eredità di mago Merlino si risveglia e reclama il proprio tributo. Tra amicizie che si incrinano, amori condannati per le colpe del passato, l'ombra di una fata leggendaria e un'indagine su una morte sospetta che sembra portare a una tragica verità, i ragazzi dell'Albion College proseguono il loro cammino per diventare grandi. Ma capire cos'è la vera grandezza comporta un sacrificio che ognuno di loro dovrà affrontare da solo, per salvarsi.
                                                    La recensione
A Michele, che è allergico ai seguiti e alle saghe ma che, bontà sua, continua a leggermi.
Una biro nera, in una grafia chiara e ordinata che non avrei mai potuto immaginare diversa, ha scarabocchiato questo pensiero alla prima pagina del libro che in tanti aspettavamo – anche io, ebbene sì, che a farmi andare a genio seguiti e saghe, alla fine, ho semplicemente rinunciato. Ci vorrebbe la pazienza che non ho, per cambiare idea; sviluppare gli anticorpi. Ma quella dedica mirata, tutt'altro che preconfezionata, era opera di un'autrice che conosce i lettori come le sue tasche, me compreso, e che ha cura dei suoi personaggi. A qualche saga, perciò, ho fatto il callo. A una saga come questa, in particolar modo, che non si dimentica e non ci dimentica. In cima alla dedica, il familiare nome di un college esclusivo, tra le alpi svizzere screziate di neve, e un sottotitolo che preannuncia passeggiate presso il lato oscuro: le “i” diventano spade nella roccia, ogni lettera un ricciolo e i protagonisti che già conosciamo, ancora, fiori senza luce. Albion – Ombre è il secondo capitolo di una saga tutta italiana, che ha mantenuto alte curiosità e aspettative nell'attesa che iniziasse un nuovo anno nella scuola in cui niente è come sembra e i re, alla vigilia di una leggendaria epifania, sono per un po' tuoi compagni di banco, a lezione di filologia romanza. Perché maghi e babbani, da bambini, aspettano la lettera per Hogwarts – particolarmente calzante il paragone – ma i futuri cavalieri della tavola rotonda, con la maggiore età, imparanano a giostrare e a padroneggiare le lingue morte in una Avalon ristrutturata. Nel volume precedente, ormai due anni fa, i protagonisti erano matricole a un giro di prime volte: il loro destino era poco chiaro, ma avevano nomi altisonanti e, soprattutto, cognomi che parlavano forte e chiaro delle loro vite passate. Si erano fatti volere bene e male, con i vizi e le virtù, porgendoti la mano, in segno di educazione, dall'altra parte del tavolo. Una tavola rotonda in cui, alla pari, avevano lo stesso numero di battute e la stessa importanza: le disparità non esistevano, in un fiabesco romanzo corale sulla faticosa gavetta, prima di assumere il comando, e su compagni che ti sono fedeli a prescindere, non per dovere, ma per disinteressata amicizia. Alcune cose sono scritte nelle stelle, altre si conquistano con tempo e pazienza: la fiducia, ad esempio. I cavalieri dovrebbero amare il proprio re, non può essere altrimenti, ma come giurargli fedeltà se l'Artù delle leggende antiche, saggio ed eroico, è diventato un adolescente con la faccia da schiaffi, l'accento romano, i modi sgarbati? Marco Cinquedraghi, altezzoso e battagliero, non era l'erede che l'Albion aspettava. Secondogenito, aveva preso il posto di un fratello maggiore la cui morte era avvolta nel mistero; sovrano legittimo, studente amato e temuto, che eppure nessuno piange più. 
Mentre i nodi venivano al pettine e le stelle, in fine, si adeguavano alla prematura scomparsa di Riccardo, Marco stringeva i denti, maturava e faceva amicizia con gli strani ragazzi dell'ala est. Si ritorna dietro i banchi di scuola, finalmente, e Albion è pronto a fare chiarezza sulle sue stermiante ombre – quella, insormontabile, di un fratello maggiore non così esemplare; quella di una fata tentatrice; quella di una bestia che, ai margini del lago, attenta alla vita di un Merlino in pubertà. E, tutto sommato, si fa presto a sentirsi di nuovo a casa: un altro giro di presentazioni, per portare alla mente nomi e ruoli, ma qualcuno ha avuto la premura di lasciare un posto libero per te, che hai la memoria corta e uno stoicismo ballerino. I protagonisti ti accolgono in mezzo a loro, tra sinfonie di accenti diversi e pensieri sottintesi, ma la festa di benvenuto è pochissimo che dura. Hanno inizio i corsi, l'azione e la squadra di sempre avrà il suo bel da fare. Questa volta, i protagonisti sono impegnati e distanti tra loro. Cinquecento pagine, tante, per farsi perdonare la lunga attesa e parlare di poteri che insorgono e attività extracurriculari che, anziché chiamare all'ordine, spargono a piene mani i semi della confusione. Come se l'arrivo di Morgana, quella Morgana, non fosse già abbastanza destabilizzante per l'equilibrio sentimentale tra Marco e l'orgogliosa Helena. Due occhi verdi, i ricci rossi e un ammiccante, pericoloso invito a infrangere regole e schemi. La gelosia, però, potrebbe far sì che l'erede di Ginevra si avvicini a Lance - come il Lancillotto originale, bello e onnipresente – e allontanare, da un Marco quantomai solo e combattuto, il guaritore Erek, l'assasina Samira e il mago Deacon: per me, quest'ultimo, a tratti mio mancato gemello, leggermente sottotono rispetto al solito; come me quando scendo dal letto con il piede sbagliato, al mattino, o mi desto, come mamma mi ha fatto, nel cuore di fascinose città d'arte, perché gli incubi mi vogliono nudista e sonnambulo. 
A sorpresa, il desiderio di malmenare Marco viene meno: anche se non capisce che Chevalier – che non solo è un Bronzo di Riace vivente, ma è anche straordinariamente gentile: invidioso, gli troverò probabilmente almeno un difetto, in seguito – è leale e che nessun uomo, nessun re, è un'isola. Le domande non mancano – ci si chiede, infatti, chi sia M. e chi la mostruosa nemesi di Deacon, cosa sia stato del primo Cinquedraghi e cosa, messa alle strette, sceglierà quella Helena con la sindrome molto diffusa del “gnè gnè, ce l'ho solo io” - e l'umano sconfina nel divino, e viceversa. Ogni risposta sarà un colpo di scena aggiuntivo e ogni avvenimento nella norma – un appuntamento galante, i preparativi del ballo di fine corso, barare al test di matematica – una specie di respiro di sollievo. Quali effetti ha il jumper, droga sperimentale che potenzia e inibisce, e cosa imparano, oltre a parare i colpi e ad attaccare, gli allievi di un esclusivo club di scherma? Quale verità porteranno a galla i nostri eroi frugando nell'archivio della scuola? Bianca Marconero – e ho avuto modo prima di conoscere la persona, poi l'autrice –, al solito, stupisce per descrizioni approfondite, tecnicismi che non vengono a noia e finali sospesi, causa di sofferenza per i più, che io invece apprezzo. La stessa autrice che, sotto diverso pseudonimo, aveva dato vita ai personaggi stravaganti e a me congeniali di La prima cosa bella – in quanti non vedono l'ora di averlo in libreria? - è uguale e diversa, mentre affila il fioretto e salva il mondo. Un secondo romanzo, più intricato del precedente e, a tratti, più coinvolgente, in cui Bianca, con stile inconfondibile, canta “le donne, i cavallier, l'arme, gli amore, le cortesie e l'audaci imprese”, non dimenticantosi però di catturare i suoi protagonisti in selfie improvvisati, che hanno la magia di restituirceli in borghese: belli, freschi e in armonia, com'è prerogativa dell'avere diciotto anni e una vita – o sette? - davanti. Si legge bene, si legge in fretta. Soprattutto, Albion – Ombre è un romanzo che ispira. Gli eroi parlano italiano, non hanno bisogno di traduzione, e non serve un ripasso veloce d'inglese per far sapere all'autrice quant'è in gamba e con quanta curiosità, noi comuni mortali, aspettiamo di saperne di più. Quando il sogno parla la tua stessa lingua, che scusa – la generica "non apprezzo la narrativa italiana" o, quella che preferisco, "non sono al passo con le saghe" - avrai per non prestare ascolto al richiamo dell'avventura?
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Mumford & Sons – The Cave

mercoledì 11 novembre 2015

Mr. Ciak: Suburra, Teneramente folle, Padri e figlie, Short Skin, Love and Mercy

L'ho visto, all'inizio, più per dovere che per voglia. La curiosità che nasce quando il film – italiano, per di più – è sulla bocca di tutti e lo recuperi per non essere da meno; per dire la tua quando, in giro, il chiacchiericcio collettivo dirà cose belle e brutte sull'ultimo film di quello Stefano Sollima che, per pigrizia, hai voluto scoprire soltanto qui; convinto che non ti sarebbe neanche piaciuto. Perché a me i film che dipingono l'Italia violenta, selvaggia, brutta non piacciono per posizione presa. Un po' perché sono per un cinema che è evasione; un po' perché, più che sputare nel piatto in cui mangi, è come prendere una vagonata di merda e gettarsela in volto. E non è cieco patriottismo, se a parlare è uno che non segue con foga neanche la nazionale e, qualche anno fa, aveva remato contro la vittoria del tronfio Sorrentino agli Oscar; semplicemente, sono contro un cliché che non diventa d'un tratto migliore se, a usarlo, siamo noi stessi. Per gli americani, siamo pizza e mafia; cambia forse qualcosa, nella visione dei duri hard boiled girati, di notte, nella nostra capitale? Come avremmo reagito, noi che ci surriscaldiamo se in un'innocua commedia americana compare l'accompagnamento del mandolino, l'italiano pizzaiolo e mariuolo, se un noir come Suburra con, in pillole amare, la crisi economica degli ultimi anni e gli scandali politici di sempre – fosse provenuto dall'estero, con l'indice puntato contro i nostri peccati? Ci saremmo ribellati, permalosi per natura, davanti a un ricco campionario di brutture e luoghi comuni a fantasia – dai segreti del Vaticano alle reminescenze delle feste ad Arcore, dalle stragi a mano armata a un potere che gronda sangue. Forse perché, a cantare le contraddizioni della nostra Italia, santa e escort, non sarebbe stato uno come Sollima: autorizzato a metterci il naso, a scavare, dopo Romanzo Criminale e Gomorra. A usare l'autorialità dei grandi e a mescolarla con il ritmo che avrebbe avuto La Piovra sotto l'egida di una Netflix che non commette errori. Sollima è incredibile – ha occhio, personalità, palato fine – e dirige una pellicola di alt(r)i livelli. Imperfetta, giacché qualche sottotrama si perde nella fiumana e qualche svolta appare prevedibile, ma visivamente accattivante e emotivamente esplosiva. Ci sono tre grandi interpreti – il parlamentare corrotto di Favino, il dandy sotto ricatto di Germano, il burattinaio Amendola che fa pensare al Gus di Breaking Bad – e tre giovani promesse salvate dall'anonimato del piccolo schermo – la disinibita Giulia Gorietti, la vendicativa Greta Scarano, il bello e glaciale Alessandro Borghi. Una Roma coatta, impraticabile, in cui l'acqua gioca con le luci e la pioggia – come l'invadente colonna sonora firmata dagli M83: meravigliosi – non si arresta un attimo: scenario da antico testamento, in vista del giudizio universale. Più della fitta rete di Bonini e De Cataldo, artefici di un romanzo che vede, provvede e, letteralmente, prevede, Suburra lascia però attoniti – nonostante aspettative ingigantite, ma ben riposte – perché, in cuor mio, non pensavo che la Grande Bruttezza potesse avere un aspetto così ammaliante: le tette perfette, e finte, della Gorietti; la coreografica mattanza a opera di Amendola con, in sottofondo, quella Wait così dolce in Colpa delle stelle; la secolare cupola del Pantheon. Suburra, potente, sinistro poiché premonitore, è uno di quei film che è una vergogna – ché siamo quello che siamo – e un orgoglio insieme – gli italiani sono ancora così provinciali e incapaci come il luogo comune vuole? - esportare altrove. Di quelli che si girano a ogni morte di Papa. O a ogni fragorosa caduta di governo. (8)

Cam e Maggie si sono conosciuti negli anni sessanta, quando, con la rivoluzione alle porte e una diffusa pazzia, i comportamenti sopra le righe di Cam erano presi per normalità. C'è stato un matrimonio, sono nate due bambine e mentre gli anni sessanta hanno lasciato spazio al decennio successivo - i colori più tenui, una maggiore perizia nel dare diagnosi - gli sbalzi d'umore di lui hanno trovato un nome: bipolarismo. Teneramente folle, che è tenero e folle per davvero, potrebbe essere una sorpresa per i più: arrivato in sala in sordina, banalizzato da un titolo italiano di scarsa fantasia, è una deliziosa commedia familiare, che segue allegramente tutti i canoni del cinema indie e sorprende, senza patetismi, per un equilibrio miracoloso e un grande protagonista. In realtà, io lo aspettavo da un po', sicuro di che pasta fosse fatto. Presentato al Sundance – e da quando il Sundance non fa colpo? - non è né un Kramer contro Kramer – logico pensarlo, parlandosi di affidamento, responsabilità e genitori agli antipodi – nè un'altra stupida commedia americana – ancora più facile supporlo, visto lo stucchevole titolo nostrano. Se c'è stato il dramma, e c'è stato, non ci viene mostrato: il bipolarismo di Cam è ormai stato diagnosticato e moglie e figlie hanno imparato a gestirlo. Non ci sono troppi strepiti, non si esagera passando da un estremo all'altro: perlopiù, si vive in disordine, ma felici. Se c'è la commedia, e c'è, presentissima, non è di quelle spensierate: la storia, infatti, vede una mamma allontanarsi, in cerca di migliori opportunità, e quel padre ingestibile restare a casa, per prendersi cura di due bimbe che, mature e un po' sboccate, non hanno granché bisogno di lui. Ambientato in una città in crisi, come le nostre, vede famiglie non convenzionali, come le nostre, tentare di restare a galla. Tutto il mondo è paese. I problemi sono quotidiani - come arrivare a fine mese, scuola pubblica o privata, chi lava i piatti dopo cena? - e se le mamme portano i pantaloni e i papà, al contrario, si occupano di orli e crepes, l'atmosfera sarà festosa, disordinata e senza regole, come quando le donne di casa sono via e i bravi padri, poi pessimi compagni di vita, ci viziano e se ne inventano sempre una. Come per farsi perdonare qualcosa, perché forse è vero che le donne ci nascono, mamme, ma che papà si diventa. Il genitore interpretato da Mark Ruffalo, straordinario, è un uragano di reazioni sconsiderate e dignità. Zoe Saldana, con una naturalezza che non pensavo, è invece un'adulta responsabile, in un ruolo che la vuole convincente, questa volta senza azioni frenetiche e pelle variopinta. Infinitely Polar Bear, anche a rischio di risultare poco memorabile, sceglie quindi una via semplice, all'insegna dell'onestà. Dolce, ma con il fumo di qualche sigaretta di troppo e parolacce che la censura e le mamme, si sa, non perdoneranno. Una chicca in cui, a volte, si rischia di ridere fino alle lacrime, per poi scordarsi se il leggero pianto sia frutto dell'ironia del tutto o di una segreta commozione, sopraggiunta zitta zitta in un epilogo in cui, forse, il volersi bene sconfiggerà lo stare male. (7)

Sarò uno dei pochi al mondo a non avere in antipatia Gabriele Muccino – anche dopo l'infelicità delle sue dichiarazioni contro Pasolini, comunque ingiustamente attaccate. Da quanto, autore di drammi onesti e urlati, sia diventato poi un regista di cui parlare male è un mistero che mi sfugge. Non gli si perdona, dopo un piacevole ritorno da Accorsi e Jovanotti, il pasticcio che tutti fingono di non ricordare: Quello che so sull'amore. Dopo tre anni, ritorna con un copione risicato e le solite stroncature, che la presenza di grandi professionisti a bordo non gli risparmia. O saranno proprio quelli, i grandi nomi, a suscitare livore? Il difetto maggiore del suo quarto film straniero è che non si mantiene sempre in equilibrio; in sella alla bici che papà Crowe trattiene, prima che la figlia impari a pedalare: come nel recente Southpaw – anche lì, infatti, il lutto, la rivincita e il terrore di perdere l'affidamento – c'è un ricco cast e troppo in ballo. Tra le altre cose, anche tanta melassa, da dosare come si può. Se Padri è figlie è toccante come dramma familiare – i siparietti tra il protagonista e la sua “patatina” sono di una tenerezza disarmante -, altrettanto efficace non è, invece, come commedia sentimentale – Katie, figlia ormai cresciuta, che salta da un letto all'altro, a costo di deludere il ragazzo perfetto. Poco necessaria, inoltre, la presenza di un cast che non voleva passare inosservato: attori Premio Oscar e anziane leggende fanno da cameo, se Russel Crowe – in forma come ai tempi di A Beautiful Mind – risulta ottimo e Amanda Seyfried, insieme a un Aaron Paul romantico e in ombra, una intensa controparte femminile, purtroppo penalizzata dal tremendo doppiaggio. Ho visto questa parata di stelle sullo stesso marciapiede e il regista che si sbracciava per far sì che non si pestassero i piedi a vicenda. Però Muccino è un bravo mestierante. Ed eccolo lì, con i lunghi piani sequenza, i personaggi che corrono a perdifiato e si scapigliano, a tentare di bilanciare il necessario – e a limare comprimari legnosi – con un'emozione che non manca nell'epilogo in cui ci viene restituito quel che avevamo dato; fiducia compresa. Padri e figlie è l'americanata di un connazionale all'estero. E' ridondante e melensa come le volte scorse, ma è una sorta di fiaba di cui aspetti, nella chiusa, il lieto fine e le lacrime. Con il naso all'insù – e quello è un tratto solo nostro, perché i newyorkesi camminano a testa bassa, poco affascinati dal patinato – e la vaga indecisione di chi, regista e bambino, non sa quale regalo, e quale grande attore, pescare per primo dalla pila. (6,5)

Edo, diciannovenne alle prese con l'estate delle grandi scelte, ha due genitori in crisi, un'adorabile e sfacciata sorella minore, un migliore amico con il chiodo fisso del sesso e una cotta storica per la bella vicina di casa. Propositi per le vacanze: decidere cosa fare del resto della vita e perdere la verginità. A frenarlo, un segreto: la “pelle corta” del titolo, infatti, si riferisce alla fimosi di cui Edo soffre. Senza entrare nel dettaglio, imbarazzante problema annidato laggiù che impedisce al protagonista di eiaculare senza patire acuti tormenti. Presentato prima a Venezia, poi a Berlino, Short Skin è un esordio che sorprende. Boccata d'aria fresca, in un cinema attualmente in forma ma polveroso, si rivela un raro esempio di teen comedy che, dai prodotti americani, prende per fortuna l'etichetta e basta. Poco malizioso, nonostante il tema, e per nulla pruriginoso, nonostante la frequente nudità dei corpi, ha uno sguardo malinconico, da pellicola indie, e un umorismo pieno di decoro. Lì dove poteva essere godereccio e ridicolo, Short Skin – capitanato da un protagonista impacciato e bruttino, ma bravissimo, che presta alle sue innamorate Murakami e si mostra come mamma l'ha fatto; gesto di estrema autoironia e coraggio, tra l'altro, se non sei Fassbender – sceglie la via della delicatezza, un impatto neorealista. Scorre così senza forzature o eccessi, ben recitato da un cast che non è amatoriale nemmeno un po', e risulta spontaneo, pulito, giovanile. Questa prima volta - di Chiarini come regista e di Matteo Creatini come attore - forse si scorderà con il tempo, ma lenzuola stropicciate, qualche sorriso intelligente nel mentre e un fare impacciato che fa tanta, troppa tenerezza testimoniano che è andata bene, per essere un timido approccio iniziale. La seconda volta, tolto l'impaccio di torno e il perché dei dolori del giovane Edo, ci si augura che il primo possa diventare un regista di cui sentire parlare spesso, un nuovo Virzì?, e l'altro un grande amatore. (7)

Lo strano incontro tra Melinda, impiegata in un concessionario, e un cliente particolarissimo – uomo sulla cinquantina dal comportamento esagerato – porta alla luce i dissapori tra i membri di una band e i lati oscuri di un talento incompreso. Chi era l'anima timida e creativa dei Beach Boys? Cosa si nascondeva dietro la spensieratezza dei brani di quei piccoli Beatles d'America, orecchiabili motivetti che parlavano solo di estate e surf, e perché i gruppi di ogni dove prima o poi si sciolgono? Love & Mercy è un dramma che si snoda tra ieri e oggi: una storia di idee travolgenti e eccessi, in un colorato periodo di transizione, che l'amore e la pietà del titolo, in un'eccezione in cui fa piacere credere, salvano il protagonista – genio e sregolatezza – da una tragedia annunciata. Ma c'è qualcosa che non va. Se l'affresco del periodo d'oro interessa – anni di nuove droghe e nuove sonorità, con voci instistenti che iniziano già a ronzare nelle orecchie del tormentato protagonista e un entusiasmante processo creativo da mettere a punto -, non convince particolarmente la parentesi contemporanea da cui è osservata la vita, ormai a un bivio, di Brian. L'esordio di Bill Pohlad, altrove acclamato, ha un approccio troppo televisivo, in assenza di autorialità: indeciso tra il visionario e il realistico, tra il drammatico e il musical, coglie il rischio di essere un po' tutto e un po' niente. Un impressionante one man show – Paul Dano, sbalorditivo, e John Cusack, rinato, recitano come un'unica anima – in cui c'è scarso spazio per gli altri personaggi – la Banks è una principessa senza macchia; Giamatti è un antagonista più inverisimile del Waltz di Big Eyes – e la grandezza dei Brian Wilson, presenti e passati, riempie le lacune. Quando l'attore è grande – gli attori, in questo caso – e il film dimenticabile. Quando la musica leggera ha un suo peso specifico. (6)