Ci
sono film in cui è impossibile separare le prodezze del comporto
tecnico da una sceneggiatura che poco cattura, poco esalta. È il
caso del Primo re, chiacchierato ritorno al cinema di Matteo Rovere, già
finito sotto silenzio nonostante una serie Sky in produzione. Si parla
delle origini di Roma. E lo si fa in protolatino, conferendo un fascino arcano a ciascun dialogo fra i
bravissimi Alessio Lapice e Alessandro Borghi. I fratelli-nemici
Romolo e Remo, dalla magistrale sequenza d’apertura in poi,
tenteranno di ricongiungersi nonostante la tragedia annidata in un
finale noto. Lontani dall’epica del latino d’età imperiale,
i protagonisti sono tanto gloriosi quanto basici e si scorgono rare
sfumature nei banchi di nebbia, nei corpi a corpi splatter, nelle
notti perenni: il grosso, appunto, lo fa una lingua che suona magica
sulle loro labbra, anche se di magie non può farne. Almeno per
convincere uno spettatore come me, sensibile alle regie ardite ma
anche alla noia diffusa del cinema d’azione. Godibile il minimo,
per quanto all’avanguardia, Il primo re è il solito viaggio
dell’eroe, ma raccontato secondo stilemi che non hanno né grandi
imprese, né antagonisti memorabili. Apprezzabile, purché come
prima pietra di un’impresa maggiore. (6)
Siamo
in una Campania da terzo mondo. Nascosta sotto un cappuccio, con un molosso al seguito, la protagonista gestisce
gli affari di una trafficante di neonati in una landa di extracomunitari e prostitute. Fino a quando non
si scopre incinta. In lei, così, si risveglia il desiderio di fare
la differenza. Come può portare a termine il travaglio? Come può mettere al mondo un innocente in
una folla disumana, fatta eccezione per un giostraio dal cuore d'oro e
una ragazzina zoppa? Prendete la violenza morale di Dogman e
aggiungeteci i palpiti di Roma. Questo presepe
laico ha la crudezza del documentario, infatti, ma sorprende per l’accuratezza delle scenografie e la grazia di una regia
ispiratissima, capace di rintracciare la poesia anche nel totale
squallore. Pina Turco regge il film con la
tempra delle interpreti navigate: le rese dei conti con la spregevole
datrice di lavoro, il giro in giostra alla Truffaut e le
raccomandazioni al nascituro, per altro, le hanno dato man forte nello strapparmi lacrime di rabbia e gratitudine. Peccato non averlo visto
in sala: il ritorno di De Angelis sarebbe finito nel meglio della scorsa annata. Mi ha fatto un male
cane, ma gliene sono riconoscente: ci vizia con un altro
spaccato indimenticabile. Regalando speranze al cinema italiano, e
alle vite prigioniere dei forse. (8)
Passando
da Venezia, Valerio Mieli è tornato con un’altra coppia di
protagonisti memorabili e una storia d’amore ancora meno incasellabile di Dieci inverni. Quale sarebbe il
risultato se Malick potesse mettere mano ai capitoli della nostra
convivenza, montandoli in un flusso di coscienza dei suoi?
Incantevole e sperimentale, Mieli porta al cinema quella che Freud
chiamerebbe libera associazione. Sorretto da una partitura minima, il
suo film è fatto proprio della caotica poesia dei ricordi: quelli
che affiorano all’improvviso, disordinatamente, e accostano senza
un disegno le tessere di una relazione a un crocevia. Il
malinconico Marinelli e l’adorabile Cariddi fanno l’errore di bruciare le tappe. Lei è forse
pronta a rinunciare alla sua allegria per lui? Lui, invece, è pronto a tinteggiare la casa – la stessa
dell’infanzia – per lei? Il melodramma del
regista è della stessa materia ingannevole di cui è fatta
la memoria: ci attingiamo per conoscerci meglio; ci attingiamo, si
spera, per ritrovarci. Lui e lei si rubano il meglio. Si gettano addosso il peggio. Ne
escono svuotati, sfitti. Ma cambiati. In amore ci si influenza e ci
si limita, ci si perdona in nome della nostalgia: di per sé, il
sentimento del passato. Se una relazione, al contrario, è il futuro,
la nostalgia sarà abbastanza per costituirne le fondamenta? Lo è
senz’altro per realizzare un film imperfetto – troppo allungato,
quel finale da orchestra sinfonica – ma unico nel suo genere. (7,5)
Avere
in mano le sorti degli equilibri internazionali e non poterlo dire a
nessuno. È il dramma di un’agile Paola Cortellesi,
costretta a mentire a famiglia e amici pur di salvaguardarli: sebbene
su carta sia una dipendente del ministero, in realtà è un’agente
segreto. Come non dire che è passata a
prendere in ritardo la bambina perché inseguiva criminali in
Marocco? Costretta all’anonimato, osa
durante una rimpatriata fra compagni del liceo: ognuno ha subito un
torto, ognuno si è fatto un nemico, e allora
perché non vendicarli attingendo alle sue risorse? A Milani, regista degli altrettanto gradevoli come Come un gatto in tangenziale e Scusate se esisto, ha fatto bene il
successo precedente. Potendo contare
su un budget maggiore, questa volta realizza una commedia più ricca
e curata, con frequenti cambi di location – nel finale si punta
anche a Siviglia – e un cast popolosissimo, fra comprimari e cameo. Lo spunto è di quelli paradossali, con tanto
d’incursioni alla buona nella spy story, ma risulta credibile
grazie alla performance di una Cortellesi all’altezza di ogni travestimento. Serve forse essere una spia, però, per
combattere la maleducazione del prossimo? Divertente con garbo, Ma cosa ci dice il cervello è un
intrattenimento meno incisivo del precedente ma comunque godibile;
un’avventura che parte dall’assurdo, e si rivela poi
una lodevole lezione di civiltà. (6,5)
Siamo
all’inizio degli anni Novanta. È un'estate euforica, quella dei
mondiali di calcio. Siamo a Roma: città rumorosa e dispersiva, splendida
e orribile insieme, in cui ovunque ci sono feste esclusive;
conversazioni altezzose; nomi altisonanti, reali o inventati.
Tre aspiranti sceneggiatori – un siciliano, un toscano, una romana
– sono indagati per la morte di un produttore, Giancarlo Giannini,
precipitato con la macchina nel Tevere. Sembra l’imitazione
del peggiore Sorrentino. Ma, amaramente, siamo invece al cospetto
dell’ultimo film di Paolo Virzì: accolto nel migliore dei casi con
freddezza, nel peggiore con stroncature spietate, è di ritorno dalla
traversata americana di Ella & John. Da bravo illuso, da
bravo fan, ho preferito non dare troppo credito alle stroncature: ho
fatto male. Storia mal recitata di giovinezze ambiziose, carriere
bruciate e grandi speranze, Notti magiche saccheggia i salotti della Grande bellezza e i triangoli del cinema
di Truffaut. Il risultato è inqualificabile, non
all’altezza delle citazioni e inutilmente ridondante, con
un miscuglio di generi incomprensibile. Un giallo stinto,
che nelle sue notti non trova magia. (4,5)
Un
altro film che parla di film. Un’altra Roma di
parvenu e donne fatali. Richelmy,
scrittore dalle sfumature imprevedibili, accetta che il villain di un
esilarante Barbareschi – accanto a lui, le pericolose Bellè
e Gerini: quest’ultima con una scena di nudo già iconica –
realizza la trasposizione del suo esordio: il risultato è disastroso. Come
salvare un film maledetto se non con tanta pessima pubblicità? L’ingegnosa strategia, ahimè, non ha riguardato
questo DolceRoma, passato a torto in sordina. Volutamente
esagerato e meta inematografico, rompe la quarta parte e spazia fra
i generi: un po’ commedia nera, un po’ noir, mescola verità e
finzione, realtà e aspettative. Venirne a capo, insieme a un bel
cast, è uno spasso. L’ottimo Resinaro s’ispira alla
regie forsennate di Ritchie e Boyle, e la sfrontatezza dell’impresa
fa del film un videoclip psichedelico – non
bello, ma fighissimo – visto di rado. Questa
Roma dolcissima e metropolitana, di luci al neon e rapimenti
inventati, per fortuna sa come non risultare stucchevole. Ma punge, a
tratti, come un’ape che a torto sembrava amichevole, quando invece
difendeva il proverbiale posto al sole. (7)
Cos’hanno
in comune Gassman e Bentivoglio, sesso a
parte? Tanto cafone il primo quanto snob il secondo, s’innamorano
nonostante le differenze. Ma come conciliare le famiglie, all’oscuro
della sessualità dei genitori? Si va insieme in villeggiatura,
e sarà la catastrofe annunciata. Il
problema sono i figli – su tutti, una straordinaria Trinca:
nevrotica e abbandonata – o i protagonisti stessi, opposti
destinati ad attrarsi solo per un po’? Riuscitissima commedia dei
caratteri, Croce e delizia diverte facilmente con le
contrapposizioni, i cliché, il conflitto ideologico e generazionale.
Lo fa con più emozione del previsto, schierando in campo alcuni dei
migliori attori di casa nostra – raramente, eppure, si sono
prestati in passato alla commedia brillante – e riproponendo il
sodalizio Godano-Steigerwaltz, già superiore alle aspettative in
Moglie e marito. Per rovinare tutto una famiglia media ha
forse bisogno dello shock di un outing fuori tempo massimo? No, lo fa
naturalmente. Evviva i film che sanno raccontarlo
senza pretese e con uno sguardo alle unioni civili. Evviva Simone
Godano, che al secondo film ci delizia davvero. (7)
Lui
è un aspirante cantautore. Lei è una hippy di
ritorno in patria. Lui segue lei a Roma, mettendo i suoi sogni in
pausa, e si reinventa intanto autore frustrato di jingle televisivi. Patiranno
l’imborghesimento e la città, amandosi, odiandosi e riprendendosi.
Ci sono di mezzo le ambizioni di La La Land, da premettere qui all’amore; una gelosia che ispira tanghi alla Moulin Rouge
nelle balere di borgata; campi e controcampi, nel finale, che
ricordano gli sguardi sui tetti di Across the universe. Se Michele Riondino, convincente anche dal punto di vista vocale, fa sempre una discreta figura, lo stesso non può dirsi purtroppo di una Laura Chiatti antipaticissima e dalla dizione robotica. E il regista
Marco Danieli, invece, passato dall’impegno di La ragazza del mondo
al musical in salsa italiana? Trainato interamente dalle canzoni
sempiterne di Battisti, Un’avventura è un esperimento
singolare. Ma, a dispetto dell’idea apprezzabile e della validità
del comparto tecnico, risulta goffo e didascalico soprattutto nella
parte musicale: imperdonabile, soprattutto, l’amatorialità del
montaggio sonoro. Si canta (molto), si balla (poco), si sguazza in un
mare di nostalgia (a tratti). Come in ogni avventura, memorabile o
meno, degna di questo nome. (5,5)
uh ma questi li voglio vedere tutti! su tim vision qualcuno c'è, devo recuperare al più presto!!
RispondiEliminaVai! :)
EliminaA guardarli tutti rischierei un'overdose di italianità. XD
RispondiEliminaAlmeno Il vizio della speranza e DolceRoma comunque devo recuperarli. Mi tenta anche Un'avventura, nonostante il rischio brutta copia di La La Land e Across the Universe. Però a pensarci una brutta copia di La La Land e Across the Universe potrebbe non essere così male. :)
Il primo re temo che lo patirei tantissimo...
Ricordi? bellino, ma poteva essere ancora meglio. No, l'incomprensibile "finale da orchestra sinfonica" non glielo perdono. XD
Notti magiche nella sua evidente Grande Bruttezza ho finito per non detestarlo troppo. E' così poco riuscito, in particolare nella parte da giallo, che m'ha fatto quasi tenerezza. :)
Peccato che Un'avventura, in definitiva, faccia più l'effetto dei musicarelli con Nino D'Angelo.
EliminaIl primo re meritevole, ma palloso proprio come sembra.
Preferisco le fiction italiane al cinema Made in Italy, comunque tra questi film potrebbero piacermi "Ma cosa ci dice il cervello" con Paola Cortellesi e "Un'avventura" perché mi piacciono i musical! :)
RispondiEliminaLe fiction, al contrario, io le cerco col lanternino. E salvo solo La magia uccide solo d'estate. :)
EliminaAlcuni di questi li ho visti! Anche se alcuni purtroppo mi hanno un pò deluso!
RispondiEliminaIl cinema, soprattutto italiano, sempre un terno al lotto!
EliminaDavvero tanta Italia, molta della quale persa e che con i tuoi voti non so se recuperare. Il vizio della speranza continua ad ispirare solo pesantezza, Dolceroma e Croce e delizia troppa leggerezza.
RispondiEliminaTrovandoci d'accordo su tutto il resto, compresa la stroncatura di Virzì, dovrei ascoltarti, lo so.
Per motivi diversi, inutile dire, te li consiglio tutti e tre. Ti do ragione sulla leggerezza di Croce e Delizia, ma i personaggi dei figli sono così umani e sfaccettati che gliela si perdona.
EliminaSai bene che non concordo su "Il primo re"; ma high five altissimo per "Ricordi?" 😂😂
RispondiEliminaIntanto, grazie ancora per avermi consigliato De Angelis.
Il primo re, brutto dirlo, non mi ha deluso. Mi ha annoiato.
EliminaPer fortuna, mi perdoni perché debitore di De Angelis (e delle gemelle!).
per il momento ho intenzione di vedere solo "Il primo re" perché l'ho noleggiato su chili (tra l'altro devo anche sbrigarmi perché a breve scade). Sono curiosa, però allo stesso tempo ho paura perché sembra abbastanza pesante
RispondiEliminaGenere e durata, al cinema senza intervallo, li ho patiti.
Eliminanon vado molto d'accordo con i film italiani..c'è sempre qualcosa che stona e mi fa odiare il tutto. Non sempre però.. vedrò di dare qlc possibilità alla Cortellesi e al Vizio della speranza.
RispondiEliminaIo, invece, cerco sempre di tenermi al passo. Apprezzo sempre i registi che hanno voglia di sperimentare e, vedasi Rovere, non mancano.
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