Ogni
anno tra i registi in lizza si disputa una gara alternativa: chi ce
l’ha più lungo, il piano sequenza? Dopo i recenti vincitori
Chezelle e Cuaròn, Mendes alza ulteriormente l’asticella girando
un intero film in piano sequenza – anche se, per essere precisi,
due stacchi di montaggio dichiarati ci sarebbero. La trama è presto
detta. Una coppia di soldati inglesi, di stanza in una bellissima
Francia assediata, sono incaricati di portare una lettera a un
superiore per scongiurare un attacco già pianificato: il nemico,
infatti, ha un segreto asso nella manica. Sempre di corsa, i giovani tagliano in due una terra di nessuno: tra
cadavere rosicchiati dai ratti, aerei a picco e ruderi invasi dai
fiori di ciliegio, la macchina da presa non li perderà d’occhio.
L’Oscar alla regia è presto servito. E meritano lo stesso
trattamento fotografia e scenografie, che soprattutto nella fuga
notturna del protagonista ci regalano un incubo di fuoco degno di un
dipinto espressionista. Ma se visivamente il film si conferma una delle
cose più splendide e pirotecniche del cinema contemporaneo, dal
punto di vista narrativo non aggiunge niente di nuovo al filone.
L’emozione scarseggia. Godibile e appassionate, ha più tecnica che
cuore, e dal regista di American Beauty e Revolutionary Road sarebbe stato lecito
aspettarsi un’impronta maggiormente autoriale. Troppo esile nella
scrittura, la guerra di trincea secondo Mendes è una
parentesi piena di orrore e meraviglia, ma lo spettatore è così
occupato ad ammirare i volteggi della macchina da presa da non
importarsene del resto. Baciato dalla fortuna, tuttavia, il film
riesce a non inciampare, a non affannarsi né ad affannare, grazie a
figuranti d’eccezione e a una magnificenza che distrae dai vizi di
forma sparsi. L’effetto videogioco, per quanto esaltante, è dietro
l’angolo come una mina antiuomo. (6,5)
L’antisemitismo
raccontato come in una fiaba: vent’anni fa, con
risultati indimenticabili, lo aveva fatto il nostro Benigni. Il
vulcanico Taika Waititi, reduce dai successi dell’ultimo
blockbuster, punta a un target simile: i toni restano leggeri e
trasognati, ma il cambiamento avviene nel punto di vista. La voce narrante, infatti, appartiene a un aspirante nazista. Al centro di una prova da
applausi, che ne fanno presto il migliore di un cast di stelle, il piccolo protagonista è una contraddizione: un condensato di rabbia e
dolcezza, che studia la morte ma cerca un amore da farfalle allo
stomaco. Semplicemente adorabile, fantasticherie prive di logica a parte, si
scopre confuso e perduto in un mondo in cui il Fuhrer non è il
migliore degli amici. La maturazione passa dalle parole di una mamma
coraggiosa, che sfoggia le scarpine da ballo e i lineamenti
incantevoli della Johansson, e attraverso l’apertura verso il
diverso – un’ebrea da nascondere –. I temi: l’insensatezza
dell’odio, il candore degli innocenti, la forza dei pavidi. Più
che a Benigni, ci si ispira allora ai mondi di Chaplin e dei Monthy
Pyton. La commistione di sorrisi e barbarie regalerà risvolti shock
nel finale. Ma dov’è l’innovazione di cui si legge, se i colori
appartengono ad Anderson e la colonna sonora comprenderà la solita
Heroes? Checché se ne dica, Jojo Rabbit è proprio la
favola satirica che immaginavamo a scatola chiusa, arrivata in tempo
per gli Oscar e la Giornata della memoria. Ma è un difetto non
risultare né inferiore né superiore alle attese? Essere più
grazioso che bello? In ogni caso gli si vuol bene, anche se
come l’altrettanto edificante Green Book dovesse spuntarla
ai premi. (7)
È
una storia che conosco in tutte le salse, sarà che a casa mia le
sorelle March sono state un’istituzione. In particolare di
Jo, scrittrice indomita e ribelle, ho sentito parlare
abbastanza da considerarla una di famiglia. Giunta
all’ennesima trasposizione non richiesta, la storia
di formazione firmata dalla Alcott non aveva segreti per me. E
qualcos’altro da dirmi? Rifacimento guardato all’inizio con
scetticismo, dal momento che il sopravvalutato esordio della Gerwig
non mi aveva convinto, Piccole donne avrebbe potuto
farmi storcere il naso o annoiarmi, ma non me ne ha dato
il tempo. Travolgente e gioioso, sempre scapigliato e di corsa, ha la
stessa indole della sua eroina: è rumoroso, caotico e logorroico, e
nella fretta si mangia purtroppo situazioni (l’attrazione verso per
Garrel), personaggi (la cagionevole Beth), scene madri (il lieto fine
sotto l’ombrello, qui rimaneggiato con intelligenza). Insomma: non
è il period drama perfettino che ci si aspetterebbe. Rimodernato a
dovere senza però mai tradirsi, il film accentua la vena femminista
del romanzo. Indipendenza e amore sono inconciliabili? Se lo domanda
una superba Ronan, e durante la visione le fa da controcanto la Pugh:
sorella minore non così capricciosa, non così sciocca, che si rende protagonista di una maturazione inattesa. Se il cast è
inappuntabile, il difetto è il
montaggio frammentario. Lungo e un po’ raffazzonato, il
secondo lungometraggio di Greta si muove su due piani temporali che
confonderanno gli spettatori neofiti e anticiperanno le relazioni tra
i personaggi – soprattutto il due di picche dato a Chalamet, con un
ruolo che gli calza a pennello –, rischiando di far perdere interesse strada
facendo. I difetti potrebbero battere i pregi. La trasposizione non è
né la più fedele né la più coerente. Eppure, complice
la bella atmosfera, è la più passionale, disordinata e sincera.
Come solo certi rapporti di sangue, tra donne soprattutto, sanno essere. (6,5)
Il
titolo originale, al solito, dice tutto con poco. Si parla di una
storia vera, di una sfida all’ultima accelerata. Da un lato abbiamo
la Ferrari, che colleziona vittorie innumerevoli sulle piste da
corsa. Dall’altro la Ford, marchio che fa ancora
fatica a imporsi nell’ambiente dei circuiti. Fino a quando la casa automobilistica, spinta dal desiderio di stare al passo, non
ingaggia la strana coppia composta da Damon e Bale: amici-nemici, i
due lavoreranno a un’auto da portare in Francia. Se il primo è
misurato e perbene, il secondo è un meccanico attaccabrighe che non conosce freni: soprattutto al volante.
Si punta a Le Mans; a una gara lunga ben ventiquattr'ore, in cui si
battono gli avversi per sfinimento. Guida Bale, sempre camaleontico a
dispetto di un copione che questa volta lo vorrebbe più naturale che
altrove, ma dirige James Mangold: regista di pellicole solidissime e
fortemente americane – l’ultima fu Logan –, qui è purtroppo
lontano dal mio genere. Annoiato dalle gare automobilistiche e dai
film d’azione, spossato da lunghezze che si aggirano intorno alle
due ore e trenta, non sono andato d’accordo con la sua
ultima fatica. Tralasciando la mia ignoranza in materia, però,
non posso fare a meno di domandarmi cosa ci faccia nella lista dei Miglior film la versione politicamente corretta di Fast and
Furious. Furbetto, lungo e disneyano, Le Mans '66 è un
intrattenimento inferiore ad aspettative già scarse di per sé.
Mediocre, nel senso di tremendamente nella norma, ha antagonisti da
cartone animato – vedasi il pessimo Girone – e scarsa presa
emotiva, a differenza dell’incredibile tour de force che fu
Rush. Da spettatore italiano, per altro, per tutto il tempo ho tifato invano
per una rimonta della Ferrari. Qual è il colmo per un film sulla
velocità? Non schiacciare sull’acceleratore. Non uscire mai dal
tracciato, seguendo le mosse di una guida tutt’altro che sportiva.
(5,5)
A me Le Mans aveva inaspettatamente emozionato (te lo dico, sarebbe servito vederlo al cinema, probabilmente recuperato in altro modo mi sarei fatta due palle quanto te visto che odio il genere) ma la sua presenza agli Oscar è per me motivo di mistero.
RispondiElimina1917 è un grande sfoggio di tecnica ma il film in sé è un po' poca roba: ci si emoziona, ma ci si ammazza anche di facepalm.
Piccole donne e JoJo li ho adorati. Purtroppo temo che il film della Gerwig non porterà a casa nulla ma se Jojo vincesse, inaspettatamente, nella categoria Miglior Film, sarei molto felice.
Infatti ti credo sulla parola: al cinema mi godo film insospettabili, non mi annoio mai. A casa vabbe'. Spezzetto, guardo il soffitto, faccio altro.
EliminaLo ammetto, e mi dispiace. Visto puramente per dovere di cronaca.
Come sai, Piccole donne è piaciuto davvero molto 🥰🥰 1917 mi ispira e non mi ispira. Sebbene ho letto qualche parere positivo, ma non credo che sia il mio genere 🥰
RispondiEliminaNon era neanche il mio genere, ma la durata contenuta, la storia semplice e la tecnica strabiliante, alla fine, mi hanno spinto al recupero.
EliminaPiccole donne insomma: resto fedele al film del 1994, molto più asciutto ed elegante.
Nonostante le tue promozioni, mai come in questi Oscar ci troviamo su piani diversi: quante lacrime per la dolcezza originale di Jojo, quanta emozione nello scoprire Jo e quanto cuore nella storia e negli occhi di MacKay, dove sì, conta la tecnica (non capisco perché non sia nominato per il montaggio invisibile e perfetto dei tanti piano sequenza) ma non solo.
RispondiEliminaA sorpresa, pure Les Mans mi ha emozionato, ma lì è tutta una questione personale di cui scriverò domani (sì, mi faccio pure pubblicità stavolta :)).
Ho letto e apprezzato la storia della tua emozione.
EliminaMa il film no, proprio non mi ha toccato: l'ho finito cenando, figurati!
Però l'effetto videogioco ti catapulta potentemente dentro la guerra. E secondo me questo voleva fare Mendes e ci è riuscito benissimo.
RispondiEliminaVerissimo, peccato che Call of Duty sia arrivato decenni fa (e non ci ho mai voluto giocare).
EliminaCome Lisa e Babol più sopra, anche io mi sono emozionata con Les Mans: credo che il merito sia soprattutto di Damon e Bale, che mi ha fatto appassionare al personaggio di Ken Miles al punto da andare a cercare informazioni su di lui appena tornata a casa. Per la sfida vera e propria, tirami i pomodori, ma non ho mai tifato Ferrari :-p
RispondiEliminaMa la Ford che qui e lì imbrogliava, rubando cronometri o seminando falsi bulloni, che figura ci ha fatto nel film pro patriottismo? XD
EliminaSu 1917 completamente d'accordo. Pensiamo le stesse identiche cose, in pratica. ;)
RispondiEliminaLe Mans '66 non ha entusiasmato troppo nemmeno me, però non mi ha nemmeno annoiato particolarmente. La sua nomination come miglior film comunque è abbastanza inspiegabile.
Jojo Rabbit e Piccole donne sono piacuti decisamente di più a me, nonostante sulla carta potevano essere di più nelle tue corde. Ed è probabilmente proprio per questo. Partendo da aspettative non esagerate, sono riusciti a stupirmi più di quanto potessi immaginare.
Aspettative alte, probabilmente, hanno fatto davvero il guaio questa volta.
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