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venerdì 30 agosto 2019

Recensione: I leoni di Sicilia. La saga dei Florio, di Stefania Auci

 
I leoni di Sicilia, di Stefania Auci. Nord, € 18, pp. 436 |

Restano la famiglia sulla bocca di tutti, i Florio. Ne è passata di acqua sotto i ponti, si sono avvicendati inesorabilmente gli anni e i secoli, ma la loro buona stella non si è mai spenta. Non del tutto. Se qualcuno non conosceva la storia della loro ascesa folgorante – nell’Ottocento, partiti in povertà, divennero una leggenda –, a rinfrescarci la memoria in libreria è il romanzo più popolare del momento. Conteso dagli editori internazionali, ai vertici delle classifiche di vendita, già opzionato per una serie televisiva, I leoni di Sicilia è stato benedetto dallo stesso successo della stirpe che descrive. Sui Florio, così, ci si documenta ancora: l’attenzione è verso le loro origini, i loro commerci altalenanti, le loro passioni. E dell’autrice che ne ha rispolverato il ricordo, Stefania Auci, si parla con termini entusiastici scomodando spesso un insuperabile metro di paragone: Elena Ferrante. Siamo al cospetto di un’altra saga familiare, di una nuova serie di romanzi corteggiata dai lettori stranieri e dal piccolo schermo, ma le analogie finiscono presto. Incrociata in passato fra le firme del blog Diario di pensieri persi, scrittrice tanto di urban fantasy quanto di romanzi rosa, la Auci ha scoperto una miniera d’oro alla fine di cotanta gavetta, nella sabbia della sua Sicilia. Ma se da un lato la lettura ha confermato la sua abilità narrativa, dall’altro ha dato fondamento a un pensiero ricorrente: benché ci provi questo genere non mi si addice. Si parte da lontano, lontanissimo, con un terremoto che spinge i protagonisti a scappare: da Bagnara Calabra a Palermo con un imbarcazione modesta, senza il biglietto del ritorno, due fratelli carichi d’ambizione decidono di avviare un’attività da zero.

Oltre quelle mura, oltre il cortile della Zecca Regia, c’è Palermo. Anche lei è un’amante possessiva, e Vincenzo lo sa: gelosa, volubile e capricciosa, capace di rifiorire o di annichilirsi in una notte. Ma, dietro le apparenze, nasconde un’anima d’ombra. […] In quel periodo, la città vive un misterioso stato di grazia: si ricopre di colori, si riempie di cantieri e nuovi edifici. E, dei suoi soldi, dei soldi di Casa Florio, Palermo ha bisogno.

Lavoratori indefessi, all’inizio poco più che semplici scaricatori di porto, Paolo e Ignazio prendono le redini di una putiedda. Dalle spezie d’importazione all’invenzione del tonno sott’olio – passando per commerci di polvere di china, medicinali, vini destinati alle tavole reali – il passo è nient'affatto breve. Include ben tre generazioni di uomini, e va a toccare un’isola contesa da Napoleone e dai Borbone. Il mondo dorato dei commercianti può forse resistere senza mostrare i segni dello scompiglio? C’è un’epidemia di colera, foriera di un’isteria generale. Ci sono rivolte e barricate in strada, mirate a rovesciare i regnanti. Il sogno: creare una nuova Sicilia, finalmente libera dai soprusi di Ferdinando, per sottrarsi a un’estenuante sudditanza. Costretto a finanziare suo malgrado il governo rivoluzionario, a prendere le redini della famiglia è Vincenzo: figlio di Paolo, nipote di Ignazio, è uno squalo solitario e dotato di un pessimo carattere. L’accesa rivalità con i Canzonieri, una famiglia che lo taccia di essere un parvenu, gli instilla il dubbio di non essere abbastanza. In risposta, così, lui studia in Gran Bretagna, presta soldi a usura ai nobili decaduti, impone un prezzo a tutto: anche all’amore verso la sua scandalosa amante, di lì a poco madre dei suoi figli. Cagionevoli e malinconici, i maschi della famiglia si dedicano troppo agli affari e poco ai sentimenti e, pensando al portafogli, rinunciano alla bellezza del mare: eccolo relegato sullo sfondo, nell’anonimato, mentre loro si danno a testa bassa al lavoro d’ufficio. Quel cognome importante è un’opportunità o una prigione? A ricondurli sulla retta via potrebbero essere due personaggi femminili, Giuseppina e Giulia: rispettivamente suocera e nuora – la prima sposata con il fratello sbagliato, l’altra disonorata da una relazione clandestina –, le donne ai ferri corti s’impuntano per parlare di politica ed economia, per farsi sposare legalmente, per salvare i discendenti dalle sorti dei matrimoni combinati.

«Quando si diventa vecchi, si vuole rallentare il tempo, ma il tempo non si ferma. E allora tieni strette le cose. Se loro ci sono, tu ci sei ancora. Non la vedi, non la vuoi vedere, la vita che sgocciola via.» Giuseppina si siede sulla sponda del letto, stringe l’indumento al petto. C’è un rimpianto che le causa una stretta allo stomaco. «Noi li chiamiamo ricordi, ma siamo bugiardi», continua con un filo di voce. «Cose come questo scialle o il tuo anello» - indica la fede di oro battuto appartenuta a Ignazio - «sono ancore per una vita che se ne va».

Se i protagonisti incarnano caratteristiche che potrebbero subito renderceli memorabili, a non interessarmi è stato purtroppo il contesto. Quelle contrattazioni fitte, dense, per addetti ai lavori, che hanno reso i Florio sì un’istituzione, ma anche una compagnia – fra le pagine – con cui a prima impressione si fa fatica. Lo so, questa volta sono io a essere dalla parte del torto. Senza politica e commerci avrei potuto apprezzarli molto di più. Ma senza, immagino, sarebbe stata un’altra cosa. Non di certo una storia vera, frutto di ricerche certosine e di una rielaborazione misuratissima, che ribadisce nel male il mio scarso feeling verso le ricostruzioni storiche: più sono impeccabili, più rischiano di annoiarmi. 
All’ombra del monte Pellegrino, nella terra che ha ispirato classici da antologia come I Malavoglia, Il Gattopardo e I Viceré, I leoni di Sicilia racconta di amori travagliati, intuizioni folgoranti e investimenti frettolosi: formula intelligente per un passaparola istantaneo. La lettura è densa e scorrevole, perfino incalzante immergendocisi meglio, ma mentirei se dicessi che queste quattrocento pagine fitte di date e avvenimenti qui e lì non mi siano parse troppe. Colpa un po’ di uno sfondo socio-politico dei più turbolenti, un po’ delle leggi difficili del mondo mercantile, un po’ di un genere letterario che – ammetto i miei limiti e i miei pregiudizi – personalmente trovo furbo, lezioso. Romanzo dell’estate per molti, insomma, tale non è stato per me. La prossima volta, senza rancore né curiosità, potrei farmi trovare sordo al suo ruggito.
Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Enya – Caribbean Blue

mercoledì 28 agosto 2019

I ♥ Telefilm: Euphoria | The Handmaid's Tale S03 | Come vendere droga online (in fretta)

Brutta bestia, l’adolescenza. Un’età sospesa nell’incertezza, che terrorizza tanto i genitori quanto i ragazzini alle prese con le avvisaglie della pubertà. A volte si ha la fortuna di attraversarla senza accorgersene. Altre, invece, si ha il dramma di vedersela brutta: di berla d’un fiato, con il rischio che vada di traverso. Auguro a ogni famiglia la felicità di una crescita senza scossoni. Ma nei miei sogni segreti, dalla visione di Euphoria in poi, sono vittima del fascino di questi ragazzi allo sbando: belli e dannatissimi, i protagonisti sono di quelli che forse non sopravvivranno al peggio dei migliori anni. Sesso, pornografia, alcol, droghe, ricatti. Stessa storia, stesso degrado: cosa rende, allora, la serie prodotta da HBO e A24 – insomma, un tripudio di indie – la folgorazione di questo 2019? Se le giovinezze rose e fiori ispirano la TV mainstream, quelle infernali gareggiano con il cinema di Boyle e Korine; con gli eccessi della serie cult Skins, la cui formula sembrava non funzionare fuori dai confini inglesi. Il cantore di quest'ondata di adolescenti problematici è Sam Levinson, già stilosissimo nell’horror Assassination Nation. Sul piccolo schermo, per fortuna, sa mettere meglio a fuoco la sua regia da videoclip, la bravura di un cast ben assortito, toni angosciosi senza mai strafare. Immancabile per gli spettatori più smaliziati, fondamentale per chiunque voglia assistere a uno spettacolo spettacolare struggente e scandaloso, Euphoria non può contare su una trama innovativa. Fra ragazze che si svendono, campioni dalla sessualità in dubbio e famiglie disfunzionali, potremmo pensare di conoscere già la noia esistenziale di questi Millennial. Eppure, a livello narrativo, le trovate memorabili non mancano. Ogni episodio si apre con un prologo dedicato a un comprimario diverso e narratrice onnisciente è una sorprendente Zendaya: bella e fragile, torna a scuola dopo il coma seguito a un’overdose. Bisognosa e bipolare, vorrebbe una casa tranquilla – ma la sorella minore frequenta un brutto giro –, il vero amore – ma l’attrazione verso Jules, l’amica transgender, sembra impossibile –, scappare dalla provincia. La distraggono ora le perversioni di padri di famiglia con una passione segreta per i minorenni; ora gelosie e voltafaccia; ora la paura di ricascarci, quanto troppo triste o troppo felice. Come non innamorarsi del suo broncio, del suo fisico allampanato, della sua intensità? La gioia provata per la sua conoscenza è una percezione sbagliata: la scambiamo con l’euforia del titolo. Una vivacità irrefrenabile, isterica, che contiene già le ombre di un malessere nascosto. Ne subiremo le amare conseguenze soltanto poi. Nel mentre eccoci qui: incuranti e felici, davanti ai nostri diciassette anni ribelli e a una cotta sul ciglio del burrone. (8)

Tre anni fa, al suo debutto, era la serie delle serie. Una distopia urgente, spietata, che descriveva un futuro non troppo lontano e nel frattempo parlava di noi. Di un presente costellato di avvisaglie preoccupanti e sconvolgimenti politici, dove razzismo, omofobia e sessismo sono di moda; dettano legge. Tre anni dopo, davanti all’ennesima stagione senza nerbo, The Handmaid’s Tale ha subito un’involuzione impensata. È diventata, infatti, una di quelle serie da seguire facendo altro. Da guardare magari doppiate, in italiano, perché non si ha più l’ansia di stare al passo con la programmazione americana né di badare all’intensità ormai assodata degli interpreti originali. Delle evidenti battute d’arresto, nonostante tutto, sembriamo accorgerci in pochi. I più, invece, si lasciano confondere dall’importanza delle tematiche e dalla performance della protagonista. Confidano in un’altra stagione, nel nuovo romanzo di Margaret Atwood ormai in dirittura d’arrivo. Io, controcorrente, ho invece paura per quel seguito letterario fuori tempo massimo. Ho paura che la serie continuerà a trascinarsi per molto tempo, dal momento che tocca battere il ferro finché è caldo: e questi argomenti, cosa nota, scottano giacché attualissimi. Cos’è successo a Gilead in questi episodi? Qualcuno la fa franca.  Qualcuno punta al Canada, pretendendo diritti su una bambina rapita. Qualcuno, deliberatamente rimasto al proprio posto, pianifica colpi di stato con la complicità delle vendicative donne in rosso. Yvonne Strahovsky, messa da parte, è una Serena Joy confusa e incoerente: una banderuola che non sa bene dove schierarsi, e più per l’indecisione degli sceneggiatori che per la fragilità del suo stesso carattere. L’autista Max Minguella e la fuggitiva Alexis Bledel, invece, sono ufficialmente scomparsi. Resta allora una Elisabeth Moss in divenire: diabolica ed eversiva, questa volta pensa meno alla propria famiglia e più al cambiamento sociale, trasformandosi in una Che Guevara al femminile misteriosamente capace di cadere sempre in piedi. Possibile che la scampi ogni volta? Possibile che nessuno a parte me si sia stancato degli incarogniti sguardi in camera che oggi la rendono la parodia di sé stessa? Definitivamente un simbolo, l’attrice esagera e calca la mano, quando il messaggio – ormai semplificato – si fa ridondante. Non basta la vaga ripresa degli ultimi episodi. Non basta il ricordo della passata verosimiglianza, qui tradita per svolte surreali e forzate. Sia benedetto il frutto. Che il Signore possa schiudere. E se, dopo la bella stagione, il suddetto frutto si rivelasse più che maturo: stracotto dal sole? (6)

Viene dalla Germania e ha un titolo che è tutto un programma. Giovanile e inattesa, tra me e me, ero già pronto a eleggerla all'istante serie dell'estate. Come vendere droga online (in fretta) aveva tutto: un adolescente piantato in asso, un migliore amico dai giorni contati e un piano – spacciare pasticche, rubando clienti alla nuova fiamma della storica ex – per conquistare di pari passo popolarità e denaro. L'attività, più redditizia del previsto, approda presto su internet. Sognandosi novelli Steve Jobs, i protagonisti daranno vita alla classica collaborazione criminosa: con il classico papà poliziotto e inconsapevole, la classica adolescente che finisce in overdose per insegnarci che gli stupefacenti talora possono uccidere, il classico boss mafioso che fa davvero male a non prendere sul serio la strana coppia di narcotrafficanti. Un grammo di Breaking Bad, un po' di Smetto quando voglio e, ancora una volta, pronta all'uso, ecco una lezione pensata a tavolino sui lati oscuri dei social e le fragilità dei giovanissimi. Citazionista e scoppiettante per quanto riguarda il lato tecnico, con chat a vista, foglietti illustrativi letti a voce alta e coloratissime sequenze psichedeliche, la serie europea ha un approccio fresco ma una trama – che sia una storia vera o inventata, non mi importa granché – alquanto stantia. Vittima del già visto, conserva orgogliosamente la lingua tedesca ma si rifà al chiasso delle commedie americane: ahimè, smarrisce così la sua scarsa personalità strada facendo. Non diventando mai un autentico oggetto di dipendenza. (5,5)

lunedì 26 agosto 2019

Mr. Ciak: Far From Home, I crimini di Grindelwald, Il ritorno di Mary Poppins e altri sequel

Non è tutto oro ciò che luccica. Anche successi come questo, all’indomani del tormentone Avengers, possono presentare infatti problemi produttivi e misteriosi lati oscuri. Che Spider-Man, come si legge in giro, stia realmente divorziando dal MCU? Tom Holland, dopo Garfield, sarà presto rimpiazzato per volere dei piani alti? Speriamo che questi voci restino tali, sì, perché dispiacerebbe archiviare già le avventure adolescenziali del nostro eroe di quartiere preferito. Anche se è più leggero e teen che mai. Anche se, lontano dal senso di sacrificio del personaggio di Maguire, a volte sembra proprio un raccomandato che – complice l’amicizia con Iron Man – cade sempre in piedi. Chi sarà l’erede di Tony Stark, ci si domanda, dopo i fatti del film dei Russo? Peter Parker, in gita con la classe, non ci pensa. Ma sarà il destino a mettersi sulle sue tracce, per costringerlo a camminare sulle proprie gambe. Come conciliare l’amore-odio con il Misterio di Jake Gyllenhaal e l’appuntamento galante che spera di chiedere alla compagna Zendaya? Come salvare le bellezze d’Europa, messe a ferro e fuoco da un esercito di droni, e insieme superare il lutto? Lo spunto è una scusa per intrattenerci con scorci da cartolina e cliché, al tempo delle fake news e degli universi espansi. Gioco d'illusione dal finale a sorpresa, Far From Home mostra lo Spider-Man spensierato e tecnologico a cui stiamo imparando a voler bene. Quello di cui c’era bisogno nei mesi estivi e, se fan della saga, per riprendersi dalle tragedie di Endgame. Ma dubito fortemente che, tornati a casa dalla visita guidata, porteremo con noi souvenir diversi dalle immancabili scene post-credits. (6,5)

Animali fantastici e dove trovarli: reboot a sorpresa della saga di Harry Potter, contro ogni pronostico, mi era parso adorabile ma non abbastanza per dichiararmi già fan; non abbastanza per correre in sala alla prima del seguito. Sono stato molto previdente. La fiaba semplice e animalista dell’inizio ha fatto i biglietti per il capoluogo francese, svelando un’anima dark che non le si addice e tradendosi all’insegna del fan service; del colpo di scena a tutti i costi. I problemi, innumerevoli: dalla durata eccessiva ai troppi personaggi; dalle troppe trame alle troppe parentele, ai troppi intrighi. I veri fan coglieranno le innumerevoli incongruenze, ma i profani perderanno facilmente il bandolo della matass in preda al mal di testa. Di questo “troppo”, per forze di cose, il secondo Animali fantastici non è all’altezza. Vorrebbe essere una spy story colorata di soprannaturale, ma a tratti somiglia più a una svergognata soap opera. I salti qui e lì, il fiuto di personaggi che sanno sempre con esattezza dove incrociare i loro cammini e i voli transoceanici in un sol balzo non giustificano né una magia che non può darci a bere ogni assurdità, né una sceneggiatura farraginosa. Questo lungo trailer, caotico e poco godibile, proprio non ci incanta. Non bastano Johnny Depp, in parte come non lo era da anni; la bellezza ultraterrena di Zoe Kravitz; il furbastro ritorno a Hogwarts in compagnia di Jude Law. (4,5)

Avevo già sopportato a fatica il primo, lungo e frammentario. Quante probabilità c’erano di apprezzare il seguito inatteso, per di più con la minaccia di un adattamento italiano alla buona? Ho aspettato almeno di vederlo in lingua originale, ma  – come da previsioni – a poco è servito. La tata più famosa di sempre scende da una nuvola e, questa volta, si prende cura dei figli di Michael Banks. La famiglia di lui è in banca rotta, la casa sta per essere pignorata. Salvarsi è possibile, però, grazie all’immaginazione e altri prodigi. Se la costruzione ricalca fedelmente quella dell’altro film, con tanto di salto spettacolare nel mondo dei cartoon, le melodie sono purtroppo meno orecchiabili; la trama si fa ancora più sfilacciata e ondivaga, un pretesto per inanellare un numero dietro l’altro; la fotografia s’incupisce all’inverosimile, nel tentativo di portarci nel clou della Grande Depressione; Emily Blunt, ancora più indisponente della già antipatica Andrews, raccoglie con rispetto il testimone della collega ma incanta più per l’accento, per la bellezza di costumi e parrucco, che per un ruolo marginale ai fini della trama. A metà fra sequel e remake, l’ultimo musical del recidivo Marshall non riesce a raccontare niente di nuovo e si lascia guardare puramente in funzione di omaggio. Per quanto ben realizzato, annoierà i bambini di oggi – troppo caliginoso, troppo cantato – e farà storcere il naso a quelli di ieri, cresciuti con le immagini e le sonorità di un film che, a cinquant’anni dall’uscita, è ancora ricordato con affetto. (5,5)

Quanti segreti, quanti amanti, nascondeva Meryl Streep nel musical dei record? A dieci anni di distanza dai fasti del primo film – da rivedere sempre con piacere in TV, complice il cast –, si approda nuovamente su quell’isoletta sbucata da uno spot sul turismo. Terra di genitrici libertine, figlie ficcanaso, canzoni e scandali, la Grecia lontana dalla crisi economica ospita dal nuovo l’allegro baraccone di Mamma mia. Mettete pure in conto scarpe con le zeppe, mandolini, vedute da cartolina. Pazientate davanti a canzoni in sfilza, tutte da cantare a voce alta, e a star internazionali eternamente in vacanza. Festoso e scatenato, il seguito del musical perde il personaggio della Streep – prematuramente scomparsa, ha lasciato alla figlia Amanda Seyfried il sogno di un albergo da ristrutturare – e trova un’ottima Lily James nei panni della Donna dei flashback. Libera e spregiudicata, autentica divoratrice di uomini, con quale dei tre partner avrà concepito la primogenita? Tanto brioso nella prima parte quanto insensato nella seconda, Here we go again è voce del verbo guilty pleasure: un cinepanettone all’americana, industriale ma irresistibile, che funziona come contenitore di canzoni degli Abba e null'altro. Criticarlo sarebbe scontato, davvero non ha ragione d’essere, eppure in una serata dedicata a vino, amici e carboidrati, potremmo essergli grati per la sua leggerezza benefica. (6,5)

Scoperta recente, la serie di Dragon Trainer mi è subito parsa sottovalutata. Nell’ombra, rispetto alle grandi produzioni Pixar, ha mostrato ampi margini di miglioramento: il secondo film, ad esempio, era già migliore rispetto al primo. E questo capitolo conclusivo, arrivato al cinema lo scorso inverno? Potendo contare per una volta sui pregi della visione d’insieme, ho ritrovato in Il mondo nascosto una straordinaria attenzione naturalistica e una morale toccante, che parla ai più piccoli di disabilità – sia il drago che il suo padrone hanno infatti parti mancanti e tutori, cicatrici di battaglia – e dell’armonia fra specie diverse. I protagonisti umani, quasi ininfluenti, questa volta non fanno passi avanti: la loro crescita, i loro rapporti sentimentali e familiari, sono stati scandagliati debitamente in passato. I veri mattatori, ora, sono i draghi. Dolcissimi e pieni di riconoscenza, divisi fra affetto e natura, regalano emozioni e sorrisi incontrollabili: è forse possibile abituarsi alla tenerezza di Sdentato, in cerca qui del proprio posto nel mondo? Viaggiando lontano dai classici conflitti, diretto a una terra impossibile dove si faranno comunque avanti cacciatori spietati e altre insidie, Dragon Trainer si conferma una fiaba priva di retorica di cui si innamora pian piano, film dopo film. Fermarsi qui o proseguire? Noi, come Hiccup con Sdentato, siamo certi sia senz'altro meglio voltare pagina. Anche se questo potrebbe significare lasciar andare per sempre il nostro caro amico volante. (7)

I protagonisti dei film Unbreakable e Split vengono riuniti in una struttura psichiatrica dalle pareti rosa dall'inaffidabile M. Night Syamalan. Sotto la sorveglianza di Sarah Paulson, psicologa che indaga sui loro disturbi mentali, tentano invano di venire a capo con la realtà dei fatti: sono folli, personalità borderline, e non moderni supereroi. Ma James Macavoy – unico e insuperato mattatore –, Bruce Willis e Samuel L. Jackson riescono facilmente ad evadere. Pianificano grandi imprese, sfide sensazionali, ma una chiusa più amara e frettolosa del previsto darà risvolti diversi alle loro famigerate smanie da fumetto. Figli, mamme e vittime mancate, tuttavia, vedono in loro del buono. Dov'è la ragione, dove il torto? A confine fra thriller psicologico e horror paranormale, l'inutile crossover si perde in spiegazioni infinite e in combattimenti un po’ ridicoli. Operazione fuori tempo massimo, fragile come vetro sin dal titolo e dalle premesse, Glass rivela prestissimo i suoi punti deboli. E si spezza, senza i soliti colpi di teatro, senza brividi di paura, in un elogio al mondo nerd, alla libertà di parola al tempo dei social, che riesce comunque a dar voce a questo trio mal assortito di freaks più di qualsiasi seguito non richiesto. (5)

Era stato annunciato come il capitolo conclusivo. Senza troppe sorprese, data la calorosa accoglienza di pubblico e critica, si è rivelato essere in realtà il primo di un’ennesima trilogia dedicata all'immortale serial-killer. Eccezionalmente, però, John Carpenter benediceva il progetto. Halloween è un’apparente resa dei conti dal taglio femminista, che piace all’autore in persona per la colonna sonora originale e la fedeltà che ha spinto David Gordon Green a ignorare, quarant’anni dopo, tutti i sequel non ufficiali: compresi quelli in cui Michael e Laurie – no, non è uno spoiler – erano dipinti come fratello e sorella. Gonfiato un po’ troppo ai tempi dell’uscita, non può contare sulle intuizioni e sul tocco stilistico di Carpenter: abbonderanno, perciò, il sangue e l’azione un tempo assenti. L’assassino, a ruota libera, uccide il vicinato senza un disegno preciso. La Curtis, non più tata ma eroina bad-ass, si fa trovare pronta al pericolo: i capelli grigi, le braccia toniche e, in cantina, un autentico arsenale. Presentissimo l’effetto nostalgia. Ma a mancare, invece, sono lo spirito serio e rigoroso del primo capitolo; l’eleganza delle immagini; la personalità che ne aveva fatto, all'epoca, un caposaldo dell’horror. Lo spirito di Myers – spiace contraddire gli estimatori –, sotto la maschera mostruosa, non è rimasto immutato. (6)

È alto il rischio che abbiate già dimenticato, nel frattempo, l’esistenza del capitolo introduttivo: Auguri per la tua morte, commedia slasher innocua e prevedibile, aveva lasciato piuttosto indifferenti gli spettatori italiani. Immaginate che colpo di scena, allora, guardare a tempo perso il sequel e scoprirlo delizioso. Ancora più adolescenziale, ancora più surreale e ironico, il film alza l’asticella e, in tutto e per tutto, si rivela essere superiore al primo. La storia, capitanata dalla spumeggiante Jessica Rothe, è un’esilarante retrospettiva sul loop temporale del film precedente: generato non dalla provvidenza divina, bensì dai pasticci di un nerd, questa volta rende l’eroina prigioniera dei paradossi logici e di un intreccio di cui non sottovalutare affatto l’intelligenza. Sulla lista delle cose da fare: sottrarre la macchina del tempo a un preside dispotico; scegliere, giacché messi alle strette, fra amore e famiglia; fermare un assassino con un aiutante misterioso all’esterno. Cambiano i ruoli, così, e cambia perfino l’identità del colpevole. Cambiano i generi omaggiati. Dall’inflazionato horror anni Ottanta alla fantascienza di Ritorno al futuro, Ancora auguri per la tua morte si concentra a giusta ragione sulla dimensione vincente – quella comica – lasciando a un’altra pellicola, a un altro multiverso, quei brividi di paura che in passato scarseggiavano. (7)

sabato 24 agosto 2019

I film che leggeremo: grandi classici

Little Women
25 dicembre 2019 (USA)
Saoirse Ronan, Emma Watson, Florence Pugh, Laura Dern, Meryl Streep, Timothée Chalamet, Louis Garrel. Dirige Greta Gerwig, ormai regista a tempo pieno. Sceneggia Sarah Polley, regista di gioielli come Away from Her e Take This Waltz. Su carta, sembrerebbe tutto così indie; tutto così perfetto. Ma questo connubio, purtroppo, è ben più convenzionale del previsto. Attesissimo dai più, è la nuova – be', si fa per dire – trasposizione di Piccole donne, classico di Louisa May Alcott di cui i miei coetanei ricorderanno la trasposizione del 1994 o la miniserie BBC di appena due anni fa. Se ne sentiva davvero il bisogno? A giudicare dal trailer, fedele alle atmosfere originali e senza guizzi, la risposta è negativa. Mi porterà in sala il cast, trainato da una Ronan con un personaggio – l’indimenticabile Jo – che potrebbe facilmente avere le simpatie dell’Academy.


Pinocchio
25 dicembre 2019
Sono cresciuto con il cartone targato Disney e, da bambino, in biblioteca, avevo preso in prestito la videocassetta dello sceneggiato di Luigi Comencini: insuperabile, se chiedete agli spettatori di qualche generazione fa. Negli anni delle elementari, poi, in gita con la classe in completo siamo corsi a vedere la trasposizione di Roberto Benigni: uno sfacelo ad alto budget, che tale mi era parso anche alla tenera età di otto anni. Ci riprova il fidatissimo Matteo Garrone, nonostante Guillermo Del Toro ne abbia già annunciato da un po’ la sua personale versione. E lo aiutano un cast interessante – questa volta, per fortuna, Benigni è passato dall’altra parte: interpreterà Geppetto – e un’estetica burtoniana, che rendono l’attesa spasmodica. Soltanto a fine visione, magari, ci faremo la classica domanda: l’ennesimo live action, a che pro?


Cats
Natale 2019
È uno dei musical più fortunati e longevi di Broadway. Ma in pochi, forse, sanno che a ispirare il genio di Andrew Lloyd Weber – anche autore del Fantasma dell’opera, Evita e Jesus Christ Superstar – c’è una raccolta di poesie firmata dall’insospettabile T.S . Elliot: Il libro dei gatti tutto fare. In scena dagli anni Ottanta, noto anche ai profani del musical grazie alla struggente Memory, è diventato un film a quasi quarant’anni dalla prima. Pronto a conquistare le sale sotto Natale – e la stagione dei premi, a giudicare dal regista e dal cast: Tom Hooper dirige, infatti, le stelle Judi Dench, Idris Elba, Ian McKellen e Jennifer Hudson –, sta facendo già chiacchierare per l’aspetto dei suoi gatti antropomorfi. Secondo voi, sono affascinanti o soltanto spaventosi? Creepy con sentimento, lo si andrà a vedere.


Ophelia
28 giugno 2019 (USA)
Essere o non essere, questo è il problema. Folle e affranto, con un teschio in mano, immaginiamo il Principe di Danimarca così: solo su un palcoscenico buio. Protagonista di infinite trasposizioni, trova un nuovo punto di vista nell’era del novello femminismo: quello della sua fidanzata nell’ombra, Ofelia. A rubare la scena al giovane George MacKay (mentre i ruoli infidi della madre e dello zio spetteranno a Naomi Watts e Clive Owen) sarà la bellissima Daisy Ridley. Lontana dai mondi di Star Wars, come se la caverà con un personaggio pensato dal Bardo e immortalato in un capolavoro di Millais? La sua tragedia finirà allo stesso modo, sott’acqua? Discretamente accolto al Sundance e in cerca di una data di distribuzione italiana, potrebbe essere un rimodernamento di cui aver fiducia.


Vita & Virginia
13 febbraio 2019 (USA)
Purtroppo non l’ho mai letta, ma ho imparato a conoscerla e stimarla grazie alla visione di The Hours. Interpretata da una Nicole Kidman da Oscar, Virginia Woolf appariva geniale e sfuggente. Infelice, accanto a un marito di facciata, ma già anticonformista. Se nel film di Stephen Daldry si parlava della stesura di Mrs. Dalloway, nel più modesto Vita & Virginia si ricordano la pubblicazione di Orlando – caposaldo della narrativa LGBTQ – l’appassionata storia d’amore fra la donna e la poetessa Vita Sackville-West. Entrambe sposate, costrette ad amarsi di nascosto, ci hanno regalato un epistolario recentemente pubblicato in Italia dall’editore Donzelli. Ma il film, che attinge in parte alla loro corrispondenza, interessa soprattutto per la performance di Elizabeth Debicki: da applausi, pare, al contrario del taglio televisivo del tutto.


Martin Eden
4 settembre 2019
Dici Jack London e pensi immediatamente ai romanzi d’avventura, a Zanna Bianca. Istruzioni per farcela in situazioni difficili, al limite della sopravvivenza. Dici Jack London e, ti accorgi, lo conosci poco e superficialmente. Il suo romanzo più apprezzato, finito subito in whishist, è Martin Eden: la storia di un marinaio che durante una rissa difende il rampollo giusto e, accolto in casa sua come ospite d’onore, finisce per innamorasi della sorella di lui, Ruth. Ci si sposta eccezionalmente in Italia, prima al Festival di Venezia e poi al cinema. Cambia qualche nome, vero, ma non il messaggio di fondo: la riflessione amareggiata su un sentimento messo in dubbio dalle disparità sociali del primo Novecento. Il film di Piero Marcello, liberamente tratto da London, schiera in campo Luca Marinelli. Uno che non sbaglia un colpo, uno con lo sguardo malinconico adatto al ruolo dell'eroe del titolo. 


Mademoiselle
29 agosto 2019
Non è un classico, no, eppure non sfigura affatto in questa carrellata d’abiti d’epoca e nomi altisonanti. Ispirato a Ladra, straordinario romanzo gotico di Sarah Waters letto prima della fondazione del blog, trasferisce l’intreccio sensuale e pericoloso della scrittrice britannica nella Corea invasa dai giapponesi. Presentato al Festival di Cannes, raggiunge scandalosamente le sale soltanto a fine agosto. Com’è possibile che un film di Park Chan-wook passi così in sordina? Come giustificare, inoltre, un clamoroso ritardo di quattro anni – si tratta infatti di una produzione del 2016? La storia, per fortuna, distrarrà i fedelissimi con misteri ancora più grandi e scene di sesso bollenti. 

lunedì 19 agosto 2019

Recensione: La vita davanti a sé, di Romain Gary

| La vita davanti a sé, di Romain Gary. Neri Pozza, € 11,50, pp. 214 |

Arrivati a Belleville, Parigi, chiediamo indicazioni per giungere alla meta. Un passante di buona volontà, uno straniero come noi, ci indica un casermone fatiscente e, all’apparenza, inospitale. Siamo quasi arrivati. Lì, al sesto piano, vivono Momò e gli altri. Tocca sudare sette camicie, arrampicarsi lungo scale ripide e accidentate come sentieri montuosi: purtroppo non c’è l’ascensore. Il protagonista, un berretto con la visiera storta e un cappotto lungo fino ai piedi, ci apre la porta dopo un attimo di titubanza. Che ci abbiano mandati gli assistenti sociali? L’appartamento ha ospitato in passato fino a sette bambini. Il disordine e i colori, allora, sono quelli di un’aula scolastica. La padrona di casa, che per questioni di salute non riesce più a stare dietro a tutto, è l’indimenticabile Madame Rosa: prostituta ebrea in pensione, sopravvissuta all’Olocausto, ha raggiunto col fiato corto il traguardo dei sessantacinque anni. Quasi paralizzata dai chili di troppo, costretta in cima a un condominio impraticabile, ha paura del cancro, delle retate notturne – il trillo del campanello la mette sul chi vive, facendola subito pensare alle incursioni tedesche – e di recente, oltre alla padronanza del corpo, sta perdendo anche la testa. Maschera il decadimento fisico e mentale con lunghissime sessioni di trucco, kimono orientali e parrucche variopinte, ma la sua lucidità ha le ore contate. Cosa sarà dell’amato Momò all’indomani dell’agonia della donna, tutrice di generazioni e generazioni di figli di puttana?

Gli incubi sono i sogni di quando uno invecchia.

Se lo domanda il lettore, forse chiamato proprio a decretare; a tirare le somme di un’infanzia atipica ma felice, fatta dell’amore di una famiglia alternativa e di bislacchi rapporti di buon vicinato. Conosciamo così Lola, corpulenta transessuale senegalese con un passato da boxeur; il signor Hamil, venditore di tappeti che trae insegnamenti dal Corano e dai capolavori intramontabili di Hugo; il Dottor Katz, unica voce della ragione, chiamato spesso a districarsi nella folla di tossicodipendenti, papponi, fuochisti e sciamani che fan da infermieri al capezzale della degente. Può capitare un’iniezione sbagliata: una dose d’eroina scambiata per un calmante da un drogato di buon cuore. Può succedere, ancora, che certi padri tornino all’ovile con la coda fra le gambe e si scoprano vittima di esilaranti qui pro quo. Acclamato alla stregua di un classico, successo postumo di Romain Gary – famoso tombeur de femmes morto suicida nella sua vestaglia porpora, in seguito al giallo sulla scomparsa dell’attrice Jean Seberg: musa della Nouvelle Vague e sua amante –, La vita davanti a sé mi è stato consigliato da molti amici negli anni. La prima volta, probabilmente, il titolo era saltato fuori all’indomani dell’entusiasmo per Stanza, letto, armadio, specchio: dopo Jack, mi assicuravano, avrei trovato un altro piccolo grande narratore nel monello di Gary. Nel frattempo, però, mi sono scoperto purtroppo insofferente verso i romanzi ad altezza bambino. A esercizi di stile non sempre altrettanto riusciti, troppo artificiosi per simulare la meraviglia dell’infanzia. Anche a costo di disattendere le attese di chi lo ha tanto amato e difeso, dico che con Momò è mancato il colpo di fulmine – la sua vicenda, tutta aneddoti e figuranti sopra le righe, è l’ennesima senza un filo conduttore in cui ho la sfortuna di imbattermi in quest'estate votata ai recuperi –, ma stavolta non per ragioni stilistiche.

«Sei un ragazzo molto intelligente, molto sensibile, addirittura troppo. Spesso ho detto a Madame Rosa che tu non sarai mai come gli altri. Certe volte vengono fuori dei grandi poeti, degli scrittori, e certe altre…»
Ha sospirato.
«… e certe altre, dei ribelli. Ma tranquillizzati, questo non significa affatto che non sarai normale».

Il protagonista è di quelli adorabili e riusciti in ogni sfumatura. Incerto a proposito della sua reale data di nascita, venuto al mondo forse in Algeria o forse in Marocco, ha la strada come maestra di vita e una voce squillante dove si mescolano innocenza e crudeltà; eventi e drammi dilatati a piacimento; strafalcioni grammaticali e passaggi volutamente ridondanti, accanto alle perle di saggezza di chi crescendo vorrebbe diventare o un poliziotto o un terrorista. A capo della marmaglia, all’occorrenza anche ladruncolo, Momò ha imparato a sfruttare il suo bel faccino con gli adulti e a sfuggire alle droghe, false portatrici di felicità.  Vuole i suoi genitori. Desidera un cane. Va per i dieci, ma raggiunge i quattordici – strano ma vero, lo scoprirete leggendo – in un giorno soltanto. A volte responsabile, altre avventato, vorrebbe farsi adottare con mezzi leciti e non. Dotato di una fervida immaginazione e di lingua sciolta, artificioso soltanto nei passaggi più filosofeggianti, ha un ombrello chiamato Victor per migliore amico e s’incanta al cospetto della settima arte, capace di mandare l’esistenza al contrario in un continuo rewind. Come potrebbe Madame Rosa rinunciare al suo affetto, non preservarne intatte le origini musulmane e la diversità, benché il vaglia per mantenerlo abbia smesso un giorno di arrivare? Gary, scrittore dalla fama da divo, regala a sorpresa una carrellata di novelli Miserabili: orfani dickensiani e drag queen degne di una commedia di Almodovar, per riflettere sul significato della parola famiglia e sull’irragionevolezza dell’accanimento terapeutico. 

Io all’eroina ci sputo sopra. I ragazzi che si bucano diventano tutti abituati alla felicità e questa è una cosa che non perdona, dato che la felicità è nota per la sua scarsità. Per bucarsi, bisogna veramente cercare di essere felici e solo i re dei cretini possono avere delle idee simili. […] Ma io non ci tengo a essere felice, preferisco ancora la vita.

Il risultato, su carta, è un racconto con il respiro dei classici. Uno spaccato densissimo, umano e multiculturale, che ispira leggerezza e filantropia. Avrebbe potuto essere più lungo. Avrebbe potuto essere più breve. Come Abbiamo sempre vissuto nel castello, invece, si colloca a un crocevia apprezzato a metà: da un lato una scrittura perfetta, al passo con un narratore da incorniciare; dall’altro poche idee, allungate per più di duecento pagine, e la sensazione che questo stesso quartiere, questo stesso protagonista, meritassero uno spazio diverso o comunque un’avventura con tutti i crismi. Ma questa riunione di condominio a Belleville fa senz’altro bene al cuore. In  tempi di integrazione (negata) e immigrazione – già soggetto per un film premiato agli Oscar nel 1977, per altro, il romanzo avrà una  trasposizione italiana con Sofia Loren – la lettura appare attuale come non mai. Ma per chi come me si aspettava, in fondo, la storia di una vita, meglio ridimensionare un po’ le aspettative. In cima ai gradini, al sesto piano senza ascensore, c’è un’ordinaria storia di gente fuori dall’ordinario. E nei giorni giusti, quando la sfacchinata non pesa e le gambe accompagnano, macinando ad ampie falcate le rampe di scale, potrebbe rinfrancarci la semplice presenza di Momò. Che ci dice: sedetevi dove capita, non badate al disordine. Alla mia casa schifa, alla mia storia a soqquadro, ci sono affezionato. Voi, dal canto vostro, fate quello che vi pare.
Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: The Chainsmokers & Coldplay -  Something Just Like This

venerdì 16 agosto 2019

Recensione: Darkness, di Leonardo Patrignani

| Darkness, di Leonardo Patrignani. DeA, € 14,90, pp. 256 |

Odore di crema solare, secchielli e palette sul bagnasciuga, i gonfiabili in piazza. L’estate ispira nostalgia e leggerezza. Mette voglia di tornare subito indietro nel tempo, a quando si era bambini, e allora si fila in libreria in cerca di avventure a tema. A lungo, per me, l’estate è stata Stephen King e le repliche dei film di Joe Dante alla TV. Passeggiate sulle rotaie in cerca di cadaveri e misteri, piccoli grandi spauracchi e amicizie in poltrona. Preannunciata dal ritorno di Stranger Things, perfetto per dare manforte ai ricordi del passato, alla bella stagione – purtroppo da me tollerata ormai a fatica, fra zanzare e spossatezza – ho permesso finora un’unica concessione alla malinconia: il nuovo romanzo di Leonardo Patrignani, grande amico del blog ai tempi della trilogia di Multiversum
Nonostante la cupezza dell’ambientazione – la fittizia cittadina lacustre di Little Crow, vittima di un’inspiegabile invasione di tenebre –, le atmosfere, per fortuna, son quelle giuste. Si torna alle fragilità della prima adolescenza, quando si ha il mondo contro e tanta voglia di scappare verso un altrove imprecisato. Si torna a sbrogliare enigmi che strizzano l’occhio alle vacanze in quel di Castle Rock. Haly, la protagonista, è da poco rimasta orfana. I genitori, scomparsi in circostanze poco chiare, le hanno lasciato in eredità storie avventurose e insegnamenti insospettabilmente preziosi. Ma come rapportarsi, intanto, al vuoto della loro dipartita, alla rabbia davanti a quelle indagini di polizia già bella che chiuse, all’esistenza troppo stretta all’interno di una casa-famiglia senza privacy? Rimasta sola al mondo, la tredicenne vestita a lutto pianifica la fuga da un paese fantasma che le rinfaccia i giorni felici e, mentre il tempo va inesorabilmente avanti, ne ha in serbo per lei soltanto di tristi. Qualcuno – anzi, qualcosa – ha piani alternativi.

Il buio non era ai confini della città. Era negli angoli più nascosti delle case, nei ricordi sepolti perché troppo dolorosi, nel cuore e negli occhi delle persone. Era ovunque.

A frapporsi fra lei e la libertà è la comparsa di un denso banco di oscurità, simile a una nebbia scura e impenetrabile. Ai concittadini più anziani ricorda un po’ la famigerata catastrofe del ’51. Saltano le comunicazioni telefoniche, la radio e i televisori non prendono, gli orologi si fermano come in un sortilegio. Quanto possono reggere i generatori di corrente? È in agguato una tempesta solare, o forse un tornado? Nell’aria, però, si nega qualsiasi odore di pioggia. Ferma nell’incertezza, sospesa nei forse, Little Crow e i suoi abitanti veleggiano verso l’angoscia: altrettanto, probabilmente, faranno i giovani lettori. Ma dalla nebbia di Patrignani, a sorpresa, non saltano fuori né i mostri di The Mist né le creature aliene di Under The Dome. Si intravedono, piuttosto, il cappello giallo di una viandante senza nome – ho pensato con un sorriso alla Signora Ceppo di Twin Peaks – e ombre delle nostre paure inconsce. Owen, lo sbeffeggiato direttore del giornalino scolastico in cerca di scoop, teme ad esempio l’indifferenza dei genitori in affari e si domanda se si accorgerebbero della sua assenza se, all’improvviso, sparisse nel nulla; il goffo e paffuto Brian, nerd amante dei fumetti con una mamma malata che gli dà troppo da pensare, fugge a gambe levate davanti ai ragni – non fa eccezione, pensate, neanche Spider-Man. Di cosa ha davvero paura, però, la loro guida, Haly? Dopo aver inforcato la bicicletta, con una torcia ben funzionante stretta in mano, i tre ragazzi elaborano simpatiche liste per punti e classificano le reazioni dei compaesani: uomini di fede, eterni indifferenti, genitori allarmisti, eroi dell’ultimo momento. E, anche se l’intimità spaventa perché rende tutti vulnerabili, scoprono che fianco a fianco niente appare insormontabile.

In pochi istanti comprese quali fossero i veri mostri lì fuori. I finti sorrisi, le frasi di circostanza, le inutili promesse. La maschera che la gente indossava ogni giorno, appena infilata la divisa di lavoro e occupato il proprio posto nel mondo. Forse diventare grandi significa accettare tutto questo.

Banco di prova per autori affermatissimi – di recente, vi ricordo, si sono avvicinate al genere anche le candidate al Premio Strega Raffaella Romagnolo e Antonella Cilento –, la narrativa per ragazzi offre agli autori un’ora d’aria fra un successo e l’altro e nuovi lettori da conquistare. A dispetto del titolo, Darkness è una funzionale macchina del tempo per tornare all’epoca in cui si era affiatati e innocenti: poco più che bambini. Scritto in maniera semplice e senza fronzoli, con capitoli da divorare e una toccante morale di fondo, il romanzo ha senz’altro il difetto di non allontanarsi mai dal target di partenza. Se non più giovanissimi, per apprezzarlo è consigliabile lasciarsi contagiare dal candore dei protagonisti. I Perdenti secondo Leonardo hanno un’ottima memoria, prestano spesso ascolto agli insegnamenti degli adulti, sfidano un Dissennatore da listino meteorologico che all'ultima pagina spererebbe di succhiare loro la gioia di vivere.  Ci si affida di comune accordo, allora, alla famiglia, all’amicizia, alla persistenza della memoria. A una sottovalutata verità a proposito dei proverbiali risvolti della medaglia. L’oscurità, infatti, mette in risalto la luce – e le persone care. Non tutto il male viene per nuocere; non tutto il buio.
Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Coldplay - Midnight

lunedì 12 agosto 2019

I ♥ Telefilm: The Boys | Catch 22

Indossano calzamaglie attillate. Sfoggiano mantelli svolazzanti, mute e diademi gemmati. Ispirano il piccolo e il grande schermo, fra produzioni cinematografiche e reality show. Hanno superpoteri di tutto rispetto, vero, ma li usano soprattutto per esigenze di marketing. Salvare il mondo non è una loro priorità: tutt’al più, conquistarlo. Le immagini promozionali potrebbero ingannarci. A colpo d’occhio, i protagonisti sembrano proprio i personaggi iconici dei fumetti. Ma questa Wonder Woman nasconde la propria omosessualità con una relazione di facciata, Aquaman non sa tenerselo nei pantaloni, Flash travolge i passanti fino a spappolarli, Superman è un depravato megalomane con qualche problema con mamma. A ogni azione commettono tremendi gesti collaterali. E i civili, muti, subiscono. Questa è la storia di un gruppo di persone qualunque. Ai Sette, vigilanti mascherati che vegliano incontrastati sulla città di New York, si contrappongono i ragazzacci del titolo: una squadriglia arrangiata che raccoglie scarti e relitti umani, disposti a tutto per vendetta. Nello spirito di Deadpool e Kick-Ass, la nuova serie targata Amazon – ispirata agli eccessi del fumetto di Garth Ennis e Darick Robertson – è una satira ironica e violentissima che polemizza contro l’America più guerrafondaia, il trattamento subito dalle donne ai vertici, l’insopportabile patriottismo delle creazioni Marvel e DC. Guai a fidarsi di questi supereroi, perché il più buono fra loro ha comunque la rogna. Guardateli: nascondono attentamente perversioni sessuali, bugie, segreti sconcertanti. Contemporaneamente, fanno da vigilanti e da antagonisti. Sotto il giogo della scaltra Elisabeth Shue e di Antony Starr, leader carismatico sull’orlo di una crisi d’identità, fa il suo ingresso nel team anche Starlight: ragazza prodigio di sanissimi principi, che illusoriamente crede ancora nel bene. Frustrata da un ambiente manipolatorio e sessista, si avvicinerà suo malgrado al lato oscuro: come resistere alla compagnia degli sterminatori di supereroi se, accanto al solito Karl Urban che non deve chiedere mai, c’è un ventenne dal cuore infranto con il sorriso impacciato dell’adorabile Jack Quaid – figlio di Dennis e Meg Ryan, che a ben vedere ricorda un po’ il compianto Anton Yelchin? Gli effetti speciali sono ben dosati. Gli schiamazzi e gli scoppi fini a sé stessi si contano sulle dita di una mano. L’intelligenza della scrittura punta tutto sulla caratterizzazione perfetta dei protagonisti – chi non “shippa”, per esempio, il parigino Frenchie e una selvaggia new entry dagli occhi a mandorla? La serie, già confermata per una seconda stagione, è consigliata a chi il genere lo segue e, soprattutto, a chi lo evita. C’è qualcosa di losco dietro il buonismo dei Sette. C’è qualcosa di strano dietro i loro poteri: forse dono di natura, forse semplice doping. The Boys potrebbe farteli amare, eppure fa molto meglio: li demolisce. (7+)

È ispirato a un romanzo di Joseph Heller pubblicato per la prima volta sessant’anni fa. Catch 22, trasposto in una miserie Sky composta da sei episodi, stupisce anche oggi per la sua sconcertante modernità. La guerra, mostrata letteralmente a tutto tondo, non è mai stata così grottesca: vista dall’alto, dal punto di vista di un bombardiere; vista dall’interno, dal punto di vista di un giovane in stanza sull’isola di Pianosa. Un paradiso di scogliere a picco e acqua cristallina nelle poche ore d’aria, ma un inferno per il resto del tempo. Yossaran – interpretato da un sorprendente Christopher Abbott, che per la sua bellezza anni Cinquanta e una bravura misteriosamente sottovalutata agli Emmy ruba spesso la scena ai figurati illustri: George Clooney, Hugh Laurie, Kyle Chandler – vorrebbe tornare a casa. Finge fitte all’appendice, al fegato, ai testicoli; simula la pazzia. Fa uno spasmodico conto alla rovescia delle missioni rimaste per non gettare la spugna, tanto grande è lo sconforto. Ma l’obbiettivo si allontana sempre più, e le missioni sembrano allungarsi e moltiplicarsi per dispetto. Baciato dalla fortuna, mentre intanto i compagni muoiono come mosche, Yossarian si strugge per la vita brevissima dei novellini, la crudeltà di un’era dove ogni cattiveria è diventata norma, il destino passivo dei militari e dei civili. Qualcuno di loro si innamora di una prostituta. Qualcuno se la passa di lusso, addetto alla mensa. Qualcuno altro, per uno stupido qui pro quo causato dal nome di battesimo, si trova Maggiore suo malgrado. Un esercito di analfabeti funzionali, così, distribuisce cariche a destra e a manca pur di non ammettere errori e strafalcioni; pur di prendere sul serio il compito di proteggere e servire. Catch 22 spara a vista. Pallottole di umorismo caustico, nerissimo, che disgustano per gli schizzi di sangue diffusi e per i bislacchi paradossi logici, scritti con un’intelligenza dalla levatura quasi teatrale. Tragicommedia breve e scorrevole, ha la colonna sonora jazz del cinema di Woody Allen e i toni falsamente scanzonati dei Coen – ora da ridere, ora da prendere sul serio. Come raccontare le assurdità del conflitto, infatti, senza sfociare nel nonsense? Non si può. Senza eroismo, senza patriottismo a stelle e strisce, in poltrona assistiamo alle disavventure di un insolito anti-eroe e alla sconfitta dei valori tradizionali, di Dio, degli idealisti più inguaribili. Tutti vorrebbero essere gli eroi della propria storia. Ma quanti, piuttosto, hanno il coraggio di dichiararsi codardi e spaventati come Yoyo: mandati avanti non tanto dalla furia bellica, quanto da una fortuna sfacciata? (7)

venerdì 9 agosto 2019

Recensione: Norwegian Wood, di Haruki Murakami

| Norwegian Wood, di Haruki Murakami. Einaudi, € 13, pp. 380 |

È uno dei maggiori successi orientali di cui si abbia memoria. Acclamato alla stregua di un moderno classico, paragonato ora a Charles Dickens e ora a J.D. Salinger, era uno dei buoni propositi di quest’estate: uno dei tanti romanzi da leggere, uno dei tanti autori da scoprire dal nuovo. Non essendo la classica lettura da ombrellone né amando particolarmente i narratori giapponesi, l’ho affrontato con il timore reverenziale che riservo soltanto ai grandi scrittori. Qualcuno me ne parlava come del romanzo della vita. Qualcun altro, invece, lo trovava sopravvalutato e durante la lettura ammetteva di aver sentito nostalgia del Murakami più surreale. Opera di un autore già affermato, apprezzato soprattutto per i toni onirici e hard-boiled dei romanzi precedenti, ha diviso i lettori di ogni dove come soltanto i successi fanno.  E, a trent’anni dall’uscita, continua a farlo. Come l’ho recepito io? Pesante nelle tematiche, molto meno nella scrittura, il romanzo sorprende per un apprezzabilissimo senso dell’ironia e un’attenzione inaspettata per il calore del corpo umano, per le armonie segrete del sesso. Lontano dalla pudicizia che di solito si associa al Sol Levante, denso di riferimenti alla cultura occidentale, è una passeggiata vitale e gaudente nel cuore di una foresta incontaminata, nonostante il puntuale sollevarsi della nebbia suggerisca a ogni passo mestizia e smarrimento. L’autore lo scrisse di getto fra Atene e Roma, in un tour europeo durato appena tre mesi. Strutturato in un lungo flashback, con un protagonista ormai quarantenne che, galeotta la canzone giusta, rivive con la mente le sue storie d’amore giovanili, mi ha ricordato a tratti l’esuberante intellettualismo di Chiamami col tuo nome: riferimenti alti e bassi, citazioni frequenti, personaggi lontani per chilometri e cultura dai ventenni di oggi ma mossi da una malinconia che alla fine, lentamente, contagia.

A volte ho l’impressione di essere diventato il custode di un museo. Un museo vuoto, senza visitatori, a cui faccio la guardia solo per me.

La struttura è di quelle fragili ed essenziali, al punto che si fa fatica a individuarne il nucleo fondamentale: da copertina, il triangolo sentimentale fra Watanabe, Naoko e Midori. Lui, descritto nell’arco di tempo che va dai diciotto ai vent’anni, è lo studente spiantato e solitario di un collegio maschile: affezionato alla sua solitudine, studia teatro ma senza passione e, in compagnia dell’amico Nagasawa –  dongiovanni ricco e spietato, che tradisce platealmente la fidanzata Hatsumi –, rimorchia ragazze senza trasporto alcuno. Watanabe non sa godere dei piaceri della carnalità. Non sa amare. Sbarca il lunario vendendo dischi e, nel privato, si sbottona pochissimo. Attirato segretamente dallo squilibrio e dalla tristezza, nel caos della rivoluzione studentesca intrattiene una doppia relazione. Appare perlopiù epistolare quella con Naoko, la fidanzata storica del migliore amico morto suicida: ricoverata in una clinica paradisiaca all’ombra dei monti, dove si confondono medici e pazienti, la giovane fa i conti con violente allucinazioni auditive e una depressione dalle radici profonde. Il protagonista, suo unico contatto con il mondo esterno, la aspetta.

- Può darsi che io non guarisca mai. Mi aspetteresti lo stesso? Ce la faresti ad aspettarmi dieci anni, vent’anni?
- Tu hai troppa paura, - dissi. Del buio, dei brutti sogni, del potere dei morti. Quello che devi fare è dimenticarli, se riesci a dimenticarli ce la farai sicuramente a guarire.
- Se riesco, a dimenticare, - disse Naoko scuotendo un po’ la testa.

E nel mentre? Nel mentre c’è Midori, che è calda, vivissima, presente: una femminista sfrontata e irresistibile, con le gonne vertiginose, domande bizzarre sui condizionali inglesi e la masturbazione, una passione incrollabile per i cinema a luci rosse e per il cibo, che non rinuncia a mangiare di gusto perfino alla mensa dell’ospedale. Se la prima è perseguitata dal mal di vivere, l’altra fa i conti con l’ereditarietà della malattia: suo padre, un modesto libraio di provincia, sta morendo per un tumore al cervello, e la stessa tragedia ha colpito anni prima anche la madre. Il protagonista all’università studia Sofocle ed Euripide. Le tragedie dei drammaturghi greci – dolorose e ingarbugliate quanto o più di quelle che accadono ai comprimari – sono sempre risolte dall’intervento provvidenziale del deus ex machina. In attesa che un’entità misteriosa dissipi magari anche la cupezza dei suoi pensieri, Watanabe fa i conti con il senso di colpa dei superstiti e, come nella tradizione dei migliori romanzi di formazione, realizza che vivere, in fondo, significa andare avanti e dimenticare. Altrettanto crescere. A volte la morte divide, ma in Norwegian Wood eccezionalmente unisce. Il protagonista, allora, si dà a lunghi colloqui. Come l’acqua, prende la forma del recipiente che lo ospita e del suo interlocutore. Di domenica, dopo aver fatto il bucato, Watanabe va a zonzo senza bisogno di parole superflue e si nutre di dettagli impercettibili – un fermaglio a forma di farfalla, una lucciola intrappolata in un barattolo, un incendio spiato su un tetto –, storie di perfetti sconosciuti – la quarantenne Reiko, il mio personaggio preferito, un’insegnante di pianoforte con un mignolo che non le obbedisce e una scandalosa relazione omosessuale con una studentessa tredicenne che ha mandato all’aria il suo matrimonio –, baci dati o promessi qui e lì.

Diventerò adulto. Devo farlo. Finora ho sempre pensato che avrei voluto oscillare in eterno tra i diciassette e i diciott’anni, ma adesso non lo penso più. Non sono più un ragazzo. Comincio a sentire le responsabilità. Io non sono più quello che tu hai conosciuto. Ho vent’anni ormai. E devo pagare il prezzo per continuare a vivere.

Seguendolo nel suo cammino, impossibile nasconderlo, a tratti ho provato una certa insofferenza. Forse, un po’ di noia.  Sono un lettore semplice: mi piacciono storie con inizio, svolgimento e fine. Sono un lettore appassionato, a cui piacciono le scritture di cuore. Norwegian Wood è frammentario e ondivago: una reminescenza retta dalla stessa struttura ballerina dei flussi di coscienza. A tratti, è distaccato proprio come immaginavo. Ha troppe pagine; soprattutto troppi suicidi. Ma, a mente fredda, ho collegato la confusione di libri, dischi dei Beatles, biglietti del cinema, bottiglie di whisky e cicche di Marlboro come fossero puntini da unire. E in questo disegno astratto, un collage di intimità spaiate e voci problematiche, ho imparato a scorgere lo spaccato generazionale di un Giappone al passo coi tempi e il profilo di personaggi spesso sgradevoli ma comunque memorabili.  Nel finale, bellissimo, la lettura ha lasciato per fortuna un’eco significativa e l’ombra di un sorriso dolce-amaro. Come una canzone a me finora non nota del leggendario quartetto londinese, meno cantabile di altre perché senza un ritornello orecchiabile, che pagando pegno a Reiko chiediamo venga suonata ancora e ancora per commuoverci insieme sulle note di coloro che «capivano tutta la tristezza e la dolcezza di vivere». 
Sayonara.
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: The Beatles – Norwegian Wood

mercoledì 7 agosto 2019

I film che leggeremo: saghe, capitoli complementari e puntate

It: Capitolo 2
5 settembre 2019
Secondo e ultimo capitolo per l'adattamento cinematografico firmato da Andy Muschietti. Dopo le gioie e gli orrori di due anni fa, i Perdenti stanno tornando per la resa dei conti. E Pennywise, scacciato per ventisette anni, a giudicare dal trailer è più cattivo che mai. Dato il cast – in cui ora spiccano i bravissimi Jessica Chastain e James McAvoy –, data la durata annunciata – quasi tre ore –, non dovremmo aspettarci brutte sorprese o tagli da macellaio. Ma oggettivamente meno brillante di quella dedicata all'infanzia, la parte finale è la più dimenticabile: dunque, la più difficile da realizzare. Ricordate anche voi che disastro fece la miniserie degli anni Novanta? Da qui al cinque settembre, doppiamente spaventati, conteremo i giorni e i palloncini.


Doctor Sleep
7 novembre 2019
Ancora Stephen King, da qualche anno più inarrestabile che mai. Ancora un secondo capitolo. Questa volta tutt'altro che atteso. Accolto con preoccupazione diffusa dai fan del capolavoro di Stanley Kubrick – non lo siamo né io né l'autore del Maine –, Doctor Sleep è il seguito ufficiale di Shining. Il piccolo Danny, interpretato da Ewan McGregor, è cresciuto ma non ha perso la luccicanza. Mosso dal desiderio di proteggere una bambina con le sue stesse doti, si imbatte nella vampira Rebecca Ferguson – e sui luoghi del delitto dell'Overlook. Mike Flanagan si butta a bomba. Il trailer mozzafiato, infatti, ripercorre i corridoi iconici del primo film in ricostruzioni d'impressionante fedeltà. Abominio, dirà qualcuno. Ma del regista che ha firmato The Haunting of Hill House io scelgo di fidarmi a scatola chiusa.


Creepshow
26 settembre 2019
Negli anni Ottanta il compianto George Romero aveva realizzato un film a episodi firmato da un King sulla cresta dell'onda. Fortunato horror a basso budget, qualche anno dopo aveva avuto anche un seguito. Il franchise riparte trent'anni dopo. Sotto Halloween, prodotto dalla AMC, il grottesco carosello di Creepshow propone altre sei storie da brivido. Accanto a King, scrivono Joe Hill, Joe R. Lansdale e Josh Malerman. Se Ryan Murphy è venuto a noia da un pezzo e la visione dell'ultimo American Horror Story è quanto mai in forse, per questa squadra di scrittori, al contrario, sono già seduto in poltrona.


The Witcher
Fine 2019
In assenza di Game of Thrones e in attesa del Signore degli anelli, gli amanti del binge e del genere fantasy possono consolarsi con The Witcher. Famosa saga letteraria del polacco Andrzej Sapkowski, forse più nota per i videogiochi che per i romanzi, seguirà un biondo Henry Cavill – contestato da qualche nerd, ha fatto ricredere tutti o quasi in queste prime immagini – mentre, da bravo mercenario, caccia indistintamente demoni, orchi, elfi. Non esattamente il mio genere, ma auguro agli appassionati buona visione. 


His Dark Materials
Fine 2019
Dopo il flop del film Chris Weitz, arrivato in sala dodici anni fa con un cast di tutto rispetto, la trilogia fantasy di Philip Pullman – autore celebrato tanto quanto la Rowling, nonostante la scarsa popolarità qui in Italia – cede al piccolo schermo. Piccolo, be', si fa per dire. Produce la HBO, sempre in cerca di nuove punte di diamante; recitano James McAvoy, Ruth Wilson e la piccola Dafne Keen, già apprezzata in Logan; dirige il premio Oscar Tom Hooper, atteso al varco anche per Cats. La “bussola d'oro”, questa volta, punterà nella direzione che porta al successo?


Artemis Fowl
2020
Ispirato alla serie per ragazzi di Eoin Colfer, di cui avevo letto il primo volume una quindicina di anni fa senza nessun entusiasmo, fuori tempo massimo arriva in sala anche Artemis Fowl. Altro progetto spesso tramontato sul nascere. Altro film dalla lavorazione lunga e accidentata. Come se non bastasse, previsto per novembre, adesso è slittato direttamente all'anno prossimo per ragioni imperscrutabili. Domandiamolo alla Disney, sempre più carente di buone idee, e al regista Kenneth Branagh, qui alle prese con gli effetti speciali a profusione già mal gestiti in Thor: serviva?


Watchmen
Ottobre 2019
Non serve essere un accanito lettore di fumetti per averlo sentito nominare. Watchmen, la serie di Alan Moore, è un'istituzione. Inserita dal Time fra le cento migliori letture pubblicate dal 1923 al 2010, già protagonista di una trasposizione diretta da Zack Snyder, a ottobre sarà anche una serie HBO. Nel cast, i premi Oscar Jeremy Irons e Regina King. In una realtà alternativa in cui la Guerra Fredda è ancora in atto, dei vigilanti mascherati sono l'arma segreta degli Stati Uniti. Nell'attesa, vi consiglio vivamente la visione di The Boys su Amazon Prime Video. 


Cercando Alaska
18 ottobre
Avevo ormai perso le speranze. Ci avevo rinunciato. Eppure, ad anni di distanza dalla lettura del romanzo – tutt'oggi il mio preferito di John Green – e dopo l'annuncio di un film diretto da Sarah Polley sfortunatamente mai andato in porto, l'ossessione di Cercando Alaska ritorna. Sarà una miniserie Hulu in otto puntate ambientata agli inizi del nuovo millennio. Lui ama lei, ma lei ha un cuore impenetrabile che la porterà a commettere scelte scellerate. Ripasserò i dolori della lettura grazie al piccolo schermo. Della serie so poco altro, ma non importa: sono già felice così.