Da
bambino mi è capitato spesso di cambiare casa. È per questo che
tutt'ora mi scopro sottilmente invidioso nel sentire parlare molti
dei miei coetanei, che magari hanno avuto la fortuna di nascere e
crescere fra le stesse quattro mura – per quanto monotone fossero,
per quanto strette gli stessero –, anziché scoprirsi fra i cinque
e gli otto anni maestri di scatoloni da fare e disfare, di addii
impacciati. Ho vissuto in appartamenti grandi e piccoli, ho dormito
in stanze con poche tracce del mio passaggio. Case con ricordi
altrui, al pari di vestiti smessi – e ogni graffio nella carta da
parati era una toppa sui jeans, ogni tacca sugli stipiti per segnare
gli impercettibili cambiamenti di altezza un orlo da rimboccare. Il
mio trasloco più recente risale all'aprile di due anni fa – no,
purtroppo non sarà quello definitivo – e ricordo molto bene, da
bravo nostalgico quale resto, l'ultima volta nei cento metri quadri
che per un decennio abbondante avevano custodito i nostri litigi, le
nostre chiacchiere a tavola o sul divano, le nostre sortite a
tradimento. A quel domicilio ho lasciato le immagini del mio cane,
Gerry, un bastardino morto dieci anni fa; il profilo di mia madre,
affaccendata in qualche compito dei suoi, che dal dicembre di tre
anni fa incontro ormai soltanto in ambienti neutrali; i giorni neri
di mio padre, le porte ammaccate dalla rabbia di mio fratello, la
consapevolezza che la famiglia al completo che ricordavo non mi
avrebbe mai accompagnato altrove. La nostra storia privata, i segni
del nostro tempo insieme, adesso appartengono a qualcun altro: nuovi
affittuari che hanno ritinteggiato, buttato via il superfluo, non
riuscendo però a scacciare completamente le tracce del soggiorno lì.
Nei primi tempi, sapete, guidando sovrappensiero mi è successo
perfino questo: di imboccare la solita curva, di fermarmi nel
parcheggio di sempre, prima di ricordare di non appartenere più a
quella modesta via del centro. È per questo che, se qualcuno mi
chiedesse se credo nei fantasmi, risponderei di no. Nelle case
infestate, invece, sì.
The
Haunting of Hill House, terza
trasposizione del romanzo dell'intramontabile Shirley Jackson –
autrice di nuovo sulla cresta dell'onda, con all'orizzonte un biopic
con Elisabeth Moss e la versione cinematografica di Abbiamo
sempre vissuto nel castello –,
è una serie horror che, più che infondere paura, vorrebbe parlare a
sorpresa di questo: eredità genetiche, memorie irrinunciabili,
genitori e figli. Dimenticate presto, infatti, l'esperimento
antropologico a cui erano sottoposti gli eterogenei sconosciuti delle
pellicole precedenti: questa è né più né meno la storia di una
famiglia disfunzionale. Cos'è stato degli sciagurati Crane, che
avrebbero dovuto passare a Hill House soltanto un'estate e che
invece, a distanza di trent'anni, non riescono ancora a venire a
patti con i misteri e i dolori di quella dimora maledetta? Si è
trattato di suicidio o assassinio per quella mamma un po' fata – la
sempre bellissima Carla Gugino –, della cui morte si continua ad
accusare il gelido capofamiglia Timothy Hutton? Abbiamo cinque
protagonisti per dieci episodi: la metà di questi, se in una serie
lunga e introspettiva, saranno dedicati perciò all'indagine
psicologica dei singoli personaggi. Ciascuno con i propri mostri
personalizzati, ciascuno con le proprie colpe davanti alla tomba
della fragile Nell: sorella minore che, come la loro madre, ha scelto
infine il cappio al collo. Abbiamo lo scrittore scettico e senza
scrupoli che ha fatto la cresta sulla tragedia, la proprietaria di
un'azienda di pompe funebri in crisi coniugale, una psicologa
omosessuale terrorizzata dal contatto umano, un tossicodipendente –
il gemello della defunta Nell – che da novanta giorni ha rinunciato
all'aiuto delle droghe. Molto semplicemente, ci si rincontra per
un'occasione spiacevole: il funerale. E con una scrittura
dall'inattesa potenza teatrale, fra monologhi struggenti e
confessione amare, abbonderanno i faccia a faccia furenti e i salti
temporali a cui un Mike Flanagan qui al suo meglio ci aveva già
abituati con Oculus
(troverete gli stessi raffinati raccordi di montaggio) e Il gioco di Gerald (innumerevoli comunque le influenze kinghiane, con i ritorni all'ovile di It
e l'elaborazione soprannaturale secondo Pet Sematary).
Le
puntate, a mio dire troppo dense per darsi al binge
watching, andrebbero viste una
al giorno: meditando sulla qualità della scrittura, sugli equilibri
di un cast raccolto in cui si eccelle senza mettersi in ombra – un
plauso alla scelta delle interpreti femminili, somigliantissime fra
loro, e alla versatilità di Michiel Huisman, non più il bello che non balla di Game of Thrones
– e ai guizzi della regia, che impressiona per l'alto livello
tecnico nei piani sequenza del sesto episodio. Le voci infondate che
parlano di spettatori in stato di shock, colti in preda ad attacchi
di vomito o insonnia, andrebbero sfatate: l'inquietudine di The
Haunting of Hill House è
infatti suggerita appena, attraverso i cattivi presagi disseminati
qui e lì e gli eterni ritorni del poetico A Ghost Story,
mentre scarseggiano il sangue e i sobbalzi gratuiti. I fantasmi
patiscono l'abbandono, l'ergersi dei muri ha un significato tanto
letterale quanto metaforico, la casa ha non un cuore ma un segreto
apparato digerente. Il soggiorno somiglierà dunque a una lunga
trance della quale i protagonisti, suscettibili ai mormorii degli
antichi tenutari, tentano per tutto il tempo di svegliarsi. Si
confondono realtà e immaginazione nelle nebbie del dormiveglia. Si
viene a patti, in una seduta di ipnosi che fra le righe ha del
terapeutico, con la delusione di cinque bambini impreparati al mondo
esterno. Non si può che crescere a metà, allora: nel mito delle
promesse divorate poi dalla notte; cercando invano nelle proprie
relazioni l'idillio improponibile fra una mamma trasognata e un papà monolitico – lei un aquilone, lui il suo rocchetto. Prigionieri
prima di quelle stanze buie, poi del ricordo, i giovani Crane
spergiurano, falliscono, commuovono e perdonano, su una via per
l'elaborazione che porta in conclusione dove tutto ha avuto inizio.
Ci viene richiesta un'identica assenza di logica per
prestare fede all'amore, per credere all'orrore. Il resto, direbbe
Nell, sono coriandoli. (9)
Una meraviglia, per me la serie dell'anno.
RispondiEliminaMi ha lasciata emotivamente distrutta, tra inquietudine e dolore, ma ne è valsa la pena.
Siamo sulla stessa barca, Mary.
EliminaAnche tu sradicato e ripiantato spesso durante l'infanzia? Ti capisco, anche nel mio caso tutti i segni dell'infanzia stanno in case che non vedremo mai più, e anche io - come pure mia sorella - credo più nelle case infestate che nei fantasmi.
RispondiEliminaDetto questo, la serie mi è piaciuta moltissimo anche se ho commesso l'errore di fare binge watching, e non è proprio il caso perché finisce che ti concentri sulla trama orizzontale e ti perdi le sfumature.
La buona scusa per un re-watch.
EliminaE per non trasferirsi più?
Dopo la delusione di Castle Rock, finalmente un horror di qualità, fatto come si deve.
RispondiEliminaA me è piaciuto anche quello, invece, che allo stesso modo ha saputo allontanarsi dai classici territori (in quel caso, kinghiani).
EliminaHo di recente conosciuto quesra autrice, e letto il libro; tra quelli da leggere ho Abbiamo sempre vissuto nel castello. Per me la penna di Shirley Jackson é stata una scoperta, ne ho adorato lo stile e la capacitá di inglobarti nelle atmosfere inquietanti di Hill House. Sono pochi i libri che riescono ad estraniarti cosí tanto dalla realtà. Straordinaria.
RispondiEliminaPeccato che io abbia molto poco tempo per le serie TV, non ho Sky né Netflix nè altro e sono sempre un'aliena quando se ne parla... peccato perchè questa sembra molto interessante...
Ciao, Letizia! Purtroppo della Jackson ho letto senza grande entusiasmo La Lotteria, ma riproverò presto. E tu, per vedere questo, potresti approfittare del primo mese gratuito con Netflix!
EliminaOra che tutti ne parlate così bene -mi sono fermata al voto, per paura di spoiler- mi sento in colpa ad aver snobbato una serie che mi sembrava il solito horror fuori tempo massimo. Recupererò già da stasera, devo!
RispondiEliminaNonostante il mostro essere in disaccordo in fatto di horror, questo dovresti amarlo a mani basse.
EliminaDevo ancora finirla ma la amo. Era da tempo che una serie non mi commuoveva così tanto, non offriva personaggi così ben scritti e reali, al di là dell'inquietudine che riesce a suscitare.
RispondiEliminaQuanto è vero. Li ho amati tutti.
EliminaIo non ho cambiato casa troppo spesso. Sarà per questo che non credo nelle case infestate...
RispondiEliminaLa serie anche per me è meglio da gustare lentamente, più che da fare binge-watching. Il finale della quinta puntata mi ha traumatizzato al punto che ho preso una pausa. Adesso devo solo trovare il coraggio per finirla. :)
Trova coraggio, ti manca il meglio! 😍
EliminaHo sempre vissuto nella stessa casa, ma per gli ultimi anni di accademia ne ho affittata una in città per le lezioni. Anche se tornavo a casa nel weekend (e non vedevo l'ora di tornare), non mi sono mai trasferita del tutto: non ho mai arredato la stanza, mai portato più dello stretto necessario, mai sentita come casa mia. Quindi riesco ad immaginare quanto deve essere stato terribile per te!
RispondiEliminaPer quanto riguarda la serie tv, sono al quinto episodio. Mi aveva già conquistato dopo il primo *-*. Non vedo l'ora di vedere gli altri episodi!
Fammi sapere, poi. ❤️
EliminaQuesta sera ho guardato la prima puntata. Promette molto bene Lea
RispondiEliminaE proseguendo è ancora meglio, vedrai. ❤️🎃
EliminaPiaciuto un sacco anche a me, complimenti per questo resoconto... e soprattutto per la premessa iniziale in cui hai lasciato percepire delle emozioni vere e genuine.
RispondiEliminaUnico "contro" della serie? Mi ha devastata davvero un sacco. Penso sia la cosa più triste su cui abbia mai messo gli occhi.
Non a caso la malinconia del post... Ti ringrazio, e felice che ti sia piaciuta!
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