lunedì 29 aprile 2019

Recensione: Le sette morti di Evelyn Hardcastle, di Stuart Turton

| Le sette morti di Evelyn Hardcastle, di Stuart Turton. Neri Pozza, € 18, pp. 526 |

Il thriller mi piace contemporaneo. Cinematografico, scabroso e cattivo. Saltando i classici Conan Doyle e Agatha Christie, nel mio apprendistato di lettore ho bruciato le tappe fondamentali arrivando in anticipo ai fiumi di sangue e ai detective dalla coscienza macchiata. Il giallo all'inglese, tutto supposizioni e dita puntate, insomma, non mi attrae. A meno che, come in questo caso, non presenti uno splendido incentivo. Sono stati un colpo di genio e uno strappo alla regola a portarmi nella sala da ballo di Stuart Turton. Un esordiente ingegnoso e sfacciato che alza l'asticella del rischio, unendo al rigore di Assassinio sull'Orient-Express i viaggi temporali di Auguri per la tua morte e le reincarnazioni new age di Ogni giorno. Lo stile: di quelli semplici e funzionali, senza grandi fronzoli, interessati più ai fatti che ai personaggi. Ogni parola dell'autore britannico, infatti, è al servizio di una storia di rara complessità: una descrizione in eccesso, una digressione in più, rischierebbero di ostruire un meccanismo a orologeria che, purtroppo o per fortuna, bada alla sostanza e non alla forma.
Alle undici in punto, durante la festa organizzata per il suo ritorno dal collegio a Parigi, Evelyn Hardcastle si sparerà un colpo in pancia mentre la notte è squarciata dalle scintille dei fuochi artificiali. Chi l'ha spinta a tanto? Come si collega il suo destino al delitto di diciannove anni prima, quando un guardiano e un complice mai consegnato alla giustizia uccisero a sangue freddo il fratellino Thomas? Tutti hanno segreti e moventi. Tutti hanno alibi incrollabili. Tutti hanno scheletri nell'armadio, ben agghindati come si confà a una festa in maschera. I padroni di casa sono stranamente assenti. Gli invitati contano il peggio dell'aristocrazia locale: stupratori, strozzini, spacciatori di laudano, cacciatori e cacciati.
Questa girandola temporale dalle leggi da scoprire, assurde ma sorprendentemente coerenti, ci fa presto suoi grazie ai capitoli brevi e a una scrittura scorrevolissima, nonostante la narrazione ad ampio respiro a tratti possa mettere alla prova.
Le sette morti di Evelyn Hardcastle è una lettura cervellotica, claustrofobica, forse mai sperimentata finora. Una macchinazione cosmica dalla mente lucida e il cuore di ghiaccio con idee fuori dall'ordinario, molto fumo soffiato negli occhi e innumerevoli comprimari dai ruoli non indispensabili. La festa organizzata dai tenutari è una commemorazione o un castigo? Il labirinto rappresentato dalla magione in stato d'abbandono, maestosa ma sfiorita, è fisico o simbolico? Autentico luogo dell'anima, Blackheath House è una bolgia infernale che costringe un narratore a senza identità a un gioco implacabile: risvegliarsi giorno dopo giorno nel corpo di un ospite diverso, così da acciuffare l'assassino dall'alto di una fantomatica visione d'insieme.

Quanto bisogna sentirsi sperduti per lasciare che sia il diavolo a condurci a casa?

Ora nei panni di un medico, ora in quelli di un maggiordomo, a volte rampollo dedito al vizio e altre sbirro squattrinato, il protagonista fa propri i fardelli dei corpi che lo ospitano – la vecchiaia, il peso fisico, i pensieri impuri – e rischia di perdersi per sempre. Ma anche di guadagnare vantaggi, una saggezza aggiunta, per battere ad armi impari i suoi rivali. Da quando è intrappolato lì, giorni mesi o anni? Cosa lo muove, l'amore o la vendetta? Può fidarsi di sé stesso, se non conosce nemmeno il suo nome? Dalle identità degli altri prende in prestito i pregi e i difetti, l'indole, facendo che le sue più anime convivano contemporaneamente. Lo stesso misfatto, così, può essere studiato da punti di vista speculari. Per notare i dettagli compromettenti, additare il killer e cambiare lo status quo uscendo dal loop.
Otto giornate, sessanta capitoli, cinquecentoventi pagine totali. Tre uniche costanti: la presenza della sfuggente Anna, personaggio fisso che non compare né fra gli invitati né nel personale di servizio; il Medico della peste, uomo mascherato che a tempo debito farà da cicerone e consigliere; il lacchè, sociopatico infallibile che minaccia di freddare con puntualità ciascuna incarnazione.

Il futuro non è un avvenimento, amico mio, è una promessa, e non saremo noi a violarla. È questa la natura della trappola che ci tiene prigionieri.

Non servono tutti gli ospiti. Non servono tutte e otto le giornate. Non servono tutti i figuranti. Inutilmente caotico, senz'altro eccessivamente affollato, il thriller paranormale è all'altezza delle proprie ambizioni, ma cavilli, colpi di scena e complessità strutturali sono insieme un pro e un contro: nel tempo potrebbero renderlo abbastanza oscuro, infatti, da non farcelo ricordare nel dettaglio. Abile a confondere i sensi, tuttavia, risulta un'indagine assolutamente scoppiettante la cui particolarità è un'arma a doppio taglio. Se Turton la padroneggia con maestria, al contrario potrebbe far incontrare qualche ostacolo al lettore più incostante: rischieremmo di perderci, in tal caso, un finale che fa la differenza. Le sette morti di Evelyn Hardcastle è una messinscena di maschere impassibili e attori navigati, di conti da saldare e regole infrante in nome del perdono, che nell'impensabile scioglimento si arricchisce perfino di riflessioni dai toni filosofici. Sul perdono. Sull'espiazione. Su gironi danteschi in cui in fondo non vediamo l'ora di smarrirci, pur di ritrovarci.
Armatevi di tempo e pazienza da vendere. Lasciate da un lato penna e taccuino: le congetture non funzioneranno. Fra pregi e difetti, ne sarà comunque valsa la pena. Da Blackheath House, se c'è una cosa garantita, si esce cambiati. Il resto, resta enigma.
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Elisa – Labyrinth

venerdì 26 aprile 2019

Recensione: Ora che sono Nato, di Maurizio Fiorino

| Ora che sono Nato, di Maurizio Fiorino. E/O Edizioni, € 16,50, pp. 184 |

Qual è il colmo per un bambino di nome Fortunato? Essere l'ultimogenito in una sciagurata famiglia del sud Italia. Di comune accordo, infatti, hanno scelto per lui un nome augurale, ma il protagonista – il più piccolo di tre figli – non ha mai avuto esistenza facile fra le modeste mura di casa. Il destino ha un beffardo senso dell'ironia. La vita sembrava essere ben altra cosa prima della sua nascita: di certo migliore. Betta e Tonio, studenti fuori sede, sono ormai fuori dal nido. Mamma Tina si è fatta nevrotica e amareggiata, fra misteriosi colpi della strega, diaboliche vampate di calore e attacchi di tosse di chiara natura psicosomatica. Papà Peppe, scaramantico ai limiti del macabro, voleva costruire un impero di acqua e farina – un panificio ai limiti della città, con la speranza di esportare focacce e rosette fragranti in tutto il globo terracqueo – ma non sono bastati gli scongiuri: corna e grattate poco possono contro il fallimento di un'attività imprenditoriale che, purtroppo, non va in porto. Gli affari andavano a gonfie vele prima che il protagonista venisse al mondo. Si andava in vacanza, e non in pellegrinaggio in quel di San Giovanni Rotondo. Nelle foto ci si metteva in posa con sorrisi all'apparenza sinceri. Cos'è andato storto? Perché i genitori dormono in camere separate, prigionieri di una relazione ventennale intessuta di bugie, gesti di sopraffazione e sfrontati spernacchiamenti? Perché l'affetto per Fortunato, detto amichevolmente Nato, non è stato abbastanza intenso da rendere l'ultimo arrivato un miracoloso collante? Al complesso di inferiorità di un ragazzino mosso dalla consapevolezza di non essere nato da un'autentica storia d'amore, aggiungete due segreti da fronteggiare con l'arrivo dell'adolescenza: Non è la Rai e le hit delle Spice Girls.

«Papà».
«Dimmi».
«Cosa è successo dopo la mia nascita?».
«In che senso?».
«E come se... come se fosse sparito qualcosa».
«Dove».
«Nella famiglia».

La pecora nera della famiglia Goldino sogna di trasferirsi al liceo classico e, rimasto a casa da solo, nel bel mezzo di una crisi economica e coniugale senza diretti precedenti, ammazza la noia canicolare rubando le gonne a fiori di Tina: le cuffie del walkman nelle orecchie, e vai di piroette, salti e spaccate. Le lezioni di danza, però, può frequentarle soltanto nascondendosi dietro la scusa fittizia dei problemi di scoliosi: Billy Elliot avrebbe carriera difficile in una regione imprecisata che, tra me e me, per tutto il tempo ho immaginato come la Calabria di Maurizio Fiorino. Terzo romanzo dell'autore e fotografo trapiantato a Milano – è suo, ad esempio, il bellissimo scatto in copertina – ma primo pubblicato con il beneplacito di un grande editore, Ora che sono Nato è una storia di formazione dal retrogusto autobiografico. Quello che Mine vaganti e Dillo tu a mammà ci hanno lasciato appena intravedere. Cosa scatta nell'animo irrequieto di un figlio del Mezzogiorno, con uno scheletro nell'armadio a forma di Ambra Angiolini? Omosessuale lontano dal dichiararsi, Nato scandaglia impietosamente gli effetti collaterali delle famiglie infelici: luoghi di manipolazione psicologica, covi tossici di anatemi e ricatti tipici della commedia nera, sono né più né meno che agglomerati casuali di perfetti sconosciuti. Per diventare indipendente – e trovare il proprio posto a tavola e nel mondo inesplorato – deve fare a meno dei Goldino, dannosi tanto insieme quanto separatamente. Sul cammino dell'affrancamento: le estati al Lido Aurora, dove sperimentare i primi palpiti per l'impossibile Nello e le confidenze con Dimitri, orfano ucraino che non si vergogna affatto di atteggiarsi a vamp del quartiere con i suoi Chupa Chups a tema e gli anellini luccicanti; l'inimicizia con Sergio, bullo con un futuro da guida spirituale della cristianità; un viaggio forzato in una Parigi all'ombra di Notre Dame, in cui le tragicomiche dei Goldino raggiungo il significativo punto di non ritorno. Limpido, divertentissimo e immediato com'è, il romanzo ha l'incomodo di un epilogo troppo sbrigativo a minarne la compiutezza. Un'opportunità che cala bruscamente dall'alto, una sensazione di fretta.

Forse abbiamo tutti il nostro modo diverso di dirci che ci vogliamo bene.

La crescita interiore di Nato avrebbe avuto bisogno di qualche capitolo in più. Lo conosciamo bambino, lo lasciamo diciannovenne. Mi piacerebbe che tornasse a parlarci della sua seconda vita dopo il punto fermo messo alla fine del romanzo. Vorrei sapere cosa ha raccolto, dopo ciò che ha seminato. Come vanno gli attacchi d'ansia e le morse allo stomaco. Come va l'amore. Se è felice oppure no, se finalmente è più sé stesso, alle prese con una vita su misura. 
Ora che sono Nato si conferma, nonostante tutto, una commedia agrodolce su una casa senza santi in paradiso; l'apprendistato di un brutto anatroccolo che in queste pagine rischiara le ombre sinistre dei genitori, danza fra i paradossi, si appresta a rinascere crescendo. 
Un toccasana, dopo lo stress della laurea e delle festività in fila indiana, una forzata reunion familiare, il freddo eccezionale di un mese di aprile sbucato direttamente dai rigori dell'inverno. Mentre la lettura di una bella storia vera, intanto, suggeriva già l'estate.
Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Space Girls – Viva Forever

martedì 23 aprile 2019

Recensione: Bye bye vitamine!, di Rachel Khong

| Bye bye vitamine!, di Rachel Khong. NN Editore, € 17, pp. 185 |

Le feste in famiglia sono una trappola per topi. L'ho sperimentato in prima persona io, in queste vacanze di Pasqua in cui i miei piani di fuga sono stati smantellati da una reunion che, nell'insofferenza generale, ormai si protrae ininterrottamente dal giorno della mia laurea. L'ha realizzato Ruth, trent'anni da poco compiuti, che con la scusa del Natale nell'aria ha viaggiato da San Francisco a Los Angeles per fare compagnia ai genitori solitari. La sua pausa dal lavoro durerà più a lungo del previsto: resterà con mamma e papà anche una volta giunto il tempo di mettere via decorazioni e luminarie. Per tutto l'anno successivo. Il motivo? Il brillante Howard, professore di storia con qualche macchia sulla reputazione, sta perdendo sé stesso. L'Alzheimer mangia cellule cerebrali, dignità, ricordi, e alla primogenita spetta un compito tanto ingrato quanto sentito: prendersene cura per un po', restituendogli il favore di averla cresciuta suscettibile e orgogliosa. La convivenza forzata, prevedibilmente, avrà alti e bassi. L'uomo qualche volta smarrisce la via di casa e i vestiti; a volte è in vena di tenerezze, altre di cattiverie gratuite. Non esce dal suo studio, al punto che tocca passargli tranci di pizza da sotto la porta. Non ricorda il primo appuntamento galante con la moglie – donna prosciugata dalle richieste del marito, anche se clinicamente sana – e confonde candidamente la madre dei suoi figli con le amanti frequenti, collezionate fra colleghe e studentesse. Come ignorare le carte di divorzio già firmate nel cassetto della scrivania? Come dar torto a Linus, fratello minore che dice di non voler sapere nulla di loro, se durante l'adolescenza si è sorbito liti furiose e tradimenti reiterati? Come far sì che Howard si senta ancora utile per la comunità, quando i problemi con l'alcol lo avevano già reso un insegnante inaffidabile all'università?

Che oggetti d'amore imperfetti siamo, e che imperfetti donatori. I motivi per cui ci prendiamo cura l'uno dell'altro possono non avere niente a che fare con la persona di cui ci prendiamo cura. C'entra solo come eravamo noi insieme a quella persona – cosa sentivamo per quella persona.

Bye bye vitamine! è la dichiarazione programmatica della famiglia Young: per metà cinese e per metà americana, durante la lettura se ne va in cerca di una dieta equilibrata e di una routine tranquilla. Il rosmarino ha proprietà benefiche, i broccoli e i semi di lino contengono antiossidanti, le meduse surgelate del minimarket orientale sono ricchissime di proteine, le pentole d'alluminio sono l'incubo di ogni salutista che si rispetti! In città potresti incontrare John Travolta e Brad Pitt. Al dipartimento di Storia, invece, un assistente con il potere di far dimenticare gli sgarbi di un ex storico, Joel. Le visioni di reality show e televendite potrebbero essere disturbate da incendi o terremoti. In casa, come si fa in presenza di bambini troppo curiosi, vanno nascosti gli oggetti contundenti, chiuse a doppia mandata le porte e schermate le prese della corrente. Dopo Meglio sole che nuvole, quasi a scatola chiusa, mi sono trovato mio malgrado a leggere un'alta autobiografia travestita da romanzo. Il diario giorno per giorno di una convivenza difficile e inevitabile, che poco mi ha entusiasmato nel mentre – colpa di una scrittura cronachistica, aneddotica –, nonostante a fine lettura gli riconosca una straordinaria delicatezza.

Darei:
Tutti i soldi che ho. Tutti i miei denti. Quello speciale dollaro d'argento che mi ha dato tuo nonno, dicendo che avrebbe avuto un valore di 300.000 dollari quando tu saresti andata al college. Darei tutto, qualsiasi cosa, pur di tenerti qui.

L'esordio di Rachel Khong non ha i tecnicismi di Still Alice, le lacrime copiose di In viaggio contromano, le risate leggerissime di Heidi. Ho trovato, insomma, che poco aggiungesse al tema della dimenticanza. Ma quanta dolcezza, quanta violenza, in questo dialogo a parti invertite! Una collezione di momenti quotidiani, di attimi ora preziosi e ora superflui, sulle mancanze dei figli e la vulnerabilità dei nostri genitori. Il tutto, dal punto di vista di una figliol prodiga che vuole superare una delusione amorosa rendendosi utile per il prossimo. Che, per sdebitarsi, vuole assumere provvisoriamente il ruolo di tutrice dei suoi stessi genitori. Mettersi a dieta, infatti, è un toccasana per corpo e mente. Rendersi indispensabili fa sentire meno inutili. Tornare a dormire nella stanzetta in cui siamo cresciuti, la nostra esistenza ormai ferma a un bivio, ci trasforma in bambini.
Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Calcutta – Paracetamolo

sabato 20 aprile 2019

Pillole di fumetti: The end of the fucking world (Charles Forsman) | Questa è la stanza (Gipi)

The end of the fucking world, di Charles Forsman
001 Edizioni, € 16, ★★
Li ho conosciuti e adorati sul piccolo schermo. Li aspetto ormai da due anni per una seconda stagione annunciata a ciel sereno. James e Alyssa, parte di un'adorabile coppia di sociopatici, mi mancavano abbastanza da volere dare un'opportunità alla loro controparte cartacea: il fumetto di Charles Forsman, ispirazione per i primi otto episodi, se ne stava abbandonato sul comodino di mio fratello, a casa per le vacanze pasquali. Breve com'è, la curiosità di sfogliarlo ha comportato necessariamente leggerlo in un'ora scarsa di un giorno d'inizio settimana. Diciamolo subito: i tratti minimalisti e scarni da rivista satirica non sono per tutti. Non per me, che del fumetto ho imparato ad apprezzare di pari passo illustrazioni e contenuti. I buffi schizzi antropomorfi dell'autore britannico, apparsi inizialmente a puntate sul web e poi raccolti in un volumetto unico, sono proprio i fidanzatini criminali in fuga dalla provincia stagnante. Lui, dopo un'infanzia passata a uccidere e sezionare furtivamente gli animali del vicinato, sperimenta senza grande convinzione il sollievo dell'amore. Lei, finalmente distante da mamma incostante e patrigno manesco, raggiunge un padre biologico che non vincerà mai la palma di genitore dell'anno. Loro, teneri e sconsiderati, s'imbattono in assassini, satanisti e segugi armati di distintivo luccicante. Hanno quasi diciotto anni e, per farsi beffe dell'apatia, si fanno forza grazie all'illusorietà della prima volta: impossibile, forse, per degli squinternati dal cuore d'oro. La lettura non si è rivelata delle più memorabili, anzi. Mi è parsa un'occasione sprecata che, per fortuna, Netflix ha saputo far fruttare con intelligenza e ironia. I protagonisti appaiono in Forsman meno approfonditi, meno problematici. Abbozzati e bidimensionali tanto quanto il tratto a matita del fumettista che li ha ideati, sono irrisolti e sconosciuti fino all'ultima pagina. Dov'è il loro background? Dov'è il punto di vista di Alyssa, ridimensionato all'inverosimile per questione di brevità? The End of the fucking world, su carta, purtroppo non lascia granché. Né ricordi, né speranze, né sollievo, in una spirale di violenza e nichilismo senza senso. Meglio la versione telefilmica, sì. Con due attori più gradevoli (ma non troppo) di questi bizzarri sgorbi in bianco e nero. Con due personaggi più puliti (ma non troppo) dei disperati spruzzati di sangue che, nello spirito di alcune produzioni indipendenti, non troveranno mai riparo dall'apocalisse profetizzata nel titolo.

Questa è la stanza, di Gipi
Coconino Press, € 10, ★★★
In un celebre saggio la scrittrice Virginia Woolf raccontava il lusso e l'importanza di possedere una stanza tutta per sé. La necessità di un cantuccio personale si fa sentire anche durante l'adolescenza, nella provincia italiana degli anni Ottanta. Quando Giuliano e i suoi amici scalcagnati, che suonano musica da ragazzacci e a volte frequentano brutti ceffi, si vedono prestate le chiavi di un modesto garage. Con quello che un garage – fucina di note e possibilità, scrigno di un futuro quanto mai in forse – per un adolescente può rappresentare a livello più profondo, metaforico. I protagonisti hanno brutti tagli di capelli, bassi frastornanti e sale prove improvvisate. Ce li racconta il solito Gipi acquistato in edicola lo scorso inverno, che questa volta attinge a man bassa alla propria giovinezza: a quattordici anni, infatti, era voce e tastierista in una band hardcore. Giovanile, scorrevole, freschissimo, Questa è la stanza è la sua prima opera che mi ha ricordato meno la suggestione del romanzo e più la sveltezza del fumetto. I colori restano tenui e uniformi, da mirare e rimirare. La vicenda, invece, è di quelle sui migliori anni: l'andamento, insolitamente lineare, presenta qui e lì toccanti cenni personali. Nella descrizione della mamme arcigne e dei papà sognatori è impossibile non scorgere quel vissuto che, titolo dopo titolo, ho imparato a conoscere come le mie tasche: il padre dell'autore era morto da poco. Questa è la stanza è una commedia musicale energica e genuina, nello stile di Sing Street, che funziona come lettura a sé meglio delle altre opere di Gipi – complesse, confinanti, collegatissime. Ma è soprattutto un altro modo per concedersi un'occhiata alle spalle, al passato; per pensare agli incoraggiamenti e agli insulti a mezzavoce di genitori indimenticati che forse non conoscevano la Woolf, no, ma il bisogno di una via di fuga sì. Meno sperimentale che altrove, troppo educato per parlare di rock, questo Gipi minore incanta comunque con pennellate appena accennate e moltissime parole in armonia. Dove i capitoli sono scanditi da canzoni che parlano di noi, di loro, ma soprattutto di lui. Dove la musica leggera ha una stanza per farsi arte e un suo peso specifico.

mercoledì 17 aprile 2019

Recensione: Breve storia amorosa dei vasi comunicanti, di Davide Mosca

| Breve storia amorosa dei vasi comunicanti, Davide Mosca. Einaudi, € 17, pp. 200 |

Un detto dice che sarebbe meglio non giudicare un libro dalla copertina. Dal momento che la saggezza popolare non ha mai menzionato i titoli – la scusa giusta per lasciarsi tentare a scatola chiusa dall'acquisto di un romanzo? –, mi sono innamorato inavvertitamente di quello di Davide Mosca. Dietro l'ultima fatica dell'autore genovese, noto soprattutto per i numerosi thriller storici pubblicati qualche anno fa con Newton Compton, c'è un concetto bellissimo e un cambio di genere, di editore, che incuriosivano. In un'intervista ho letto della lunga gestazione del romanzo, un libricino sì di duecento pagine scarse ma dalle tematiche delicate, e del modo inconsueto per proporlo agli editori: Mosca e il suo agente letterario hanno voluto inviarlo in forma anonima, così che si scegliesse di puntare sulla forza della storia e non sul nome di un autore già affermato presso il grande pubblico. C'erano premesse vincenti quanto basta. C'era, come dicevo, uno spunto toccante: lui in sovrappeso, lei anoressica, s'innamorano a modo loro e sfidano la bilancia, scoprendo sin dall'incipit di essersi magicamente compensati dopo un anno di frequentazione.

Le favole non esistono. A meno che tu non ci creda.
Ce n'è una su un uomo di ventiquattro anni, che ha trascorso l'ultimo rincantucciato in casa, a ingozzarsi e a covare un romanzo che non avrebbe mai visto la luce. [...] Lei lavora nel ristorante di famiglia e nel tempo libero frequenta l'ultimo anno di liceo. Cominciano a parlare. Continuano a parlare. Parlano, discutono e s'amano per sei mesi, o almeno ci provano. […] Che sia l'inizio o la fine non importa a nessuno dei due. Nemmeno io crederei a questa storia, se non fossi quell'uomo.

Peccato che Breve storia amorosa dei vasi comunicanti, non ne faccio misteri, mi abbia deluso presto sia dal punto di vista stilistico, sia per lo sviluppo di una storia d'amore a ben vedere basica e poco coinvolgente. Di quelle di cui, nota l'idea di base, conosci automaticamente anche il resto. Come nelle migliori commedie indipendenti, Remo e Margherita s'incontrano e scontrano per caso. Si piacciono senza dichiararselo. Qualche volta si baciano, ma non si considerano né amici né amanti, ma tutto insieme. Lui, che a ventiquattro anni ha già sforato il quintale, ha bruciato in fretta le tappe fondamentali: ha esordito in libreria da enfant prodige, è andato a convivere con Sara all'università e ha sperimentato la depressione in un infelice anno sabbatico che gli ha fatto perdere il lavoro, l'ispirazione e la fidanzata storica. Ha guadagnato soltanto chili aggiunti. Un corpo irriconoscibile, nascosto nelle tute larghe o nell'isolamento, che gli ha creato imbarazzo su un aereo di linea per Madrid e durante il sesso. Remo ha vissuto intensamente, al punto da risultare adulto: anzi, vecchio. Da ex cicciottello mi sono riconosciuto nella sua vergogna – ammetto fuori dai denti di avere tutt'ora paura di tornare a indossare i miei vecchi vestiti –, ma ho venticinque anni e non conosco miei coetanei che parlino come lui. La voce narrante ama le frasi a effetto e le sentenze da libro stampato. Irritante perché poco credibile, non trova pace fra le pretese autoriali di Mosca e passaggi particolarmente stucchevoli – una frase, ad esempio, ci rivela come la salita altro non sia che una discesa guardata dal punto di vista sbagliato –, che non giovano a uno sviluppo già di per sé troppo aneddotico e ondivago. Lei, che italianizza per volere imperscrutabile il nome della protagonista femminile di Lupin, è una maga nel conteggio delle calorie e nel salto del ciclo mestruale: figlia di un ristoratore con il problema dell'alcol, frequenta il bar Atene – sbucato, per stile e arredi, da un capolavoro di Federico Fellini – ma ordina soltanto caffè amaro e acqua frizzante.

Fu quella sera che conobbi Margherita. 
Non chiedete mai di lei. Finireste per innamorarvi.

Si conosco lì, circondati dalle amiche di lei e dai vecchi compagni di scuola di lui, e ogni occasione è buona per prendersi una pausa dallo studio matto e disperato: le ragazze, diciottenni, preparano la maturità e proseguiranno gli studi a Genova. Anche Margherita, inutile dirlo, parla per citazioni sconosciute e sofismi. Il romanzo adotta toni da manuale di autoaiuto e costringe il protagonista a scampagnate dell'ultima ora, a gite fuori porto, lungo un appennino ligure verso cui Margherita punta con la curiosità di una bambina iperattiva: alla voglia di viaggiare, si affiancherà anche quella di mangiare?

Ciascuno racconta la propria guerra, ma ciascuno è la propria guerra. Di quel particolare genere che non si può vincere.

Dopo Tutto chiuso tranne il cielo, Breve storia amorosa dei vasi comunicanti è un'altra lettura a proposito del fare pace con il cibo e con sé stessi. Di fame di altro, nonché di una ritrovata leggerezza. Dopo Due fiocchi di neve uguali, è un altro romanzo sulla falsa riga del primo Paolo Giordano: come la Calosso, altra delusione incrociata quest'anno, si poggia a personaggi distanti dalla mia sensibilità e a capitoli sconnessi. Il principio dei vasi comunicanti predica l'equilibrio perfetto. Assicura che due contenitori collegati tra loro bilanceranno la quantità del loro contenuto. A Capodanno Remo peserà di meno, così, e Margherita di più. C'è qualcosa di più romantico? Davide Mosca, per me, non individua i personaggi giuste e le giuste proporzioni. L'equilibrio, promesso ma infine mancato, rende il suo cambio di rotta un'occasione parzialmente sprecata. C'è qualcosa di più frustrante?
Il mio voto: ★★
Il mio consiglio musicale: Motta - Quello che siamo diventati 


lunedì 15 aprile 2019

Mr. Ciak: Boy Erased, Ben is back, Wildlife, Mid90s, Hot Summer Nights, La diseducazione di Cameron Post

Si può guarire dalla propria natura? Qualcuno pensa di sì. Lo pensa, forse, anche il protagonista: un ventenne vulnerabile e confuso, che della sessualità ha conosciuto prima la violenza di un compagno di corso, poi la tenerezza di un pittore con cui ha diviso il letto senza spingersi oltre. Se sei omosessuale, se ti penti, puoi trovare assoluzione. Spiace dirlo, ma non si tratta di un romanzo distopico. Boy Erased, tratto dall'omonimo memoir letto lo scorso novembre, è una storia realmente accaduta. Nel passaggio al cinema sceglie toni crudi, iperrealistici, e un taglio a metà fra il documentario e il thriller d'inchiesta. Mosso da sconvolgenti tensioni spirituali e sessuali, è una cronaca di contrizione, di costrizione, approcciata con un distacco formale che mi ha spiazzato in positivo. Hedges, afflitto e struggente, si nasconde sotto una cappa di vergogna e senso di colpa con il temperamento dei grandi attori. Notevolissimo, poco indulgente verso personaggi e spettatori, Boy Erased va incontro a una ribellione troppo precipitosa, a toni qui e lì troppo freddi per paura di incappare nel pericolo didascalismo, ma tocca riconoscergli meriti diffusi. Quella biografia indigesta su carta, infatti, appariva inadattissima al cinema. I plausi spettano alla recitazione minimalista del cast in gran completo, con i mattatori della vecchia scuola e i nomi più glamour disposti a sparire in ruoli di supporto. A Joel Edgerton, alla sua seconda prova da regista, che adatta di proprio pugno e prende in prestito le atmosfere asfissianti della sua opera prima. Si fanno i conti con mamma Kidman e papà Crowe. Si allunga la mano fuori per saggiare di cosa sappia la libertà. Non si cancella la rabbia. (7)

Anche i tossicodipendenti vogliono festeggiare il Natale in famiglia. Anche a costo di confrontarsi con scie di cadaveri, speranze infrante e parenti sconosciuti. Sempre nell'occhio del ciclone, nel mezzo delle atmosfere nevose di Manchester by the sea, riabbracciano fratelli e genitori, accarezzano il cane, ma portan guai. L'onnipresente Hedges, misuratissimo e in parte, fa i conti con i suoi giovani crimini e con la mamma iperprotettiva di Julia Roberts, a volte intensa e altre sopra le righe, che a momenti alterni lo spalleggia e lo respinge. Da sinceramente toccante, Ben is back si fa ansiogeno nella seconda parte. Una ricerca porta a porta, nel peggio della provincia americana, verso vie di fuga dall'incubo: peccato che i risvolti criminosi, purtroppo, risultino posticci. Inseriti nella sceneggiatura per aumentare le tragedie, le lacrime, l'ansia, all'interno di una vicenda già complessa di per sé. Ambientato nell'arco di una lunga giornata, il film di Hedges padre è un viaggio nel lato oscuro delle festività, ammorbidito dal carattere solare della protagonista e dai toni indovinati dell'ora introduttiva. Difettoso ma coinvolgente, commovente senz'altro, resta uno di quei drammi che hanno il coraggio di poggiarsi esclusivamente sui loro interpreti, soltanto sulle emozioni che riescono a suscitare. Per riportare i figli recidivi all'ovile e i kleenex, quelli sperperati con gran mestiere, in sala. (6,5)

Si sono spostati dove li hanno portati gli ingaggi di lui. Quando il lavoro è venuto meno, assieme all'amore, i bellissimi Mulligan e Gyllenhaal si sono dovuti improvvisare altro. Lei, civettuola e vanitosa, dà lezioni di nuoto e lui, altezzoso al punto da rifuggire la routine, seda incendi; il figlio parsimonioso, invece, fa da aiutante in uno studio fotografico. La loro famiglia va in fumo all'improvviso. Nella frustrante attesa che cada la neve, ci si arrangia come si può. I divi hollywoodiani fanno i conti, così, con il brusco risveglio dal sogno americano; con la fine di un matrimonio felice. Le attenzioni, però, sono tutte per il silenzioso testimone della loro relazione: un adolescente che apre a forza gli occhi su un mondo di tradimenti e repressione, interpretato dalla rivelazione Ed Oxenbould. Non tutto oro è quel che luccica, no, a dispetto dei grandi nomi coinvolti, del best-seller di Richard Ford alla base e dell'apprezzamento riscosso presso i festival giusti. Le pecche di Wildlife, attesissimo esordio alla macchina da presa di Paul Dano, ha i suoi maggiori difetti in una scansione temporale confusa e in dialoghi quanto mai ridondanti: la regia, consapevole ed elegante, incornicia sullo sfondo dei meravigliosi anni Cinquanta una Mulligan perfino più insopportabile di quella vista nel Grande Gatsby. Adattamento rigoroso e distaccato, scritto insieme alla compagna Zoe Kazan, il dramma è un Revolutionary Road in piccolo e visto da una piccola prospettiva, con una presa emotiva minore del previsto e due personaggi troppo antipatici per suscitare alcuna empatia. Come la foto di un pallido dispiacere che, al cinema, si è già fatta ricordo. (6,5)

I 4:3 del miglior cinema indipendente. La patina granulosa delle videocassette. L'approccio neorealista dei bambini secondo Sean Baker. Diciamolo: non ci si aspettava un esordio così da Jonah Hill, ennesimo attore passato dall'altra parte. Famoso per la sua fisicità, per le commedie demenziali dei primi tempi a cui sono seguite due insospettabili candidature agli Oscar, l'interprete recentemente visto in Maniac raduna una compagnia di birbanti per raccontarci l'infanzia con i toni di Truffaut. Nocivi ma fondamentalmente buoni, talora dal talento inespresso, i protagonisti introducono Stevie nella loro cricca: ancora piccolo, con in casa una mamma single e un fratello dispotico interpretato dal solito Hedges, vuole imparare ad andare sullo skateboard. Per diventare la mascotte dei grandi, mostrandosi impavido e sconsiderato, bisogna approcciarsi anche alle droghe e al sesso. Da un lato Stevie ambisce al perfetto equilibrio, per non disobbedire a mamma e per non rompersi la testa. Dall'altro, invece, punta a luoghi fatti soprattutto per gli afroamericani, per gli adulti. Come un Eight Grade più distante da me per il linguaggio, l'approccio, il quartiere, Mid90s racconta la formazione di un ragazzino troppo educato per la vita di provincia, che in privato fa abuso di scuse e grazie. Colleziona amici e nemici, si fa rispettare. E la sua diseducazione, fra frequentazioni deleterie e momenti toccanti, è quella tipica di una generazione perduta che sperava di andare lontano: magari su due ruote. Ma ha confuso, purtroppo, il fine con il mezzo. La perdizione della vita di strada, ritratta senza sporcature eccessive o presunzioni da narratore impegnato, fa di questo esordio un film piccolo nel taglio e nelle intenzioni, ma con tanta voglia di svelare con una sincerità e una limpidezza contagiose le ginocchia sbucciate dei suoi teneri anni. (7)

Sono gli anni del Laureato e Terminator. Di Street Fighters nelle sale giochi. Thimotée Chalamet, intrappolato nella sua sonnacchiosa città costiera, non appartiene né alla schiera dei locali né a  quella dei villeggianti. Emblema dell'adolescente eternamente fuori posto, con bomboletta dell'asma in mano e un corpo allampanato, si trova coinvolto suo malgrado in una disavventura estiva che ha del paradossale, fra gente bellissima – l'irraggiungibile Maika Monroe, il piantagrane Alex Roe – e droghe leggere. Ma questo pesce piccolo sogna in grande: ha una straordinaria propensione a mettersi nei guai e, per fare il salto, spera di passare dall'erba alla cocaina. In un microcosmo di ragazze fatali, spacciatori e colorati luna park, quanto è semplice pestare i piedi alla gente sbagliata? Ennesima chicca targata A24, con un cast di giovani talenti e la regia retrò di Elijah Bynum, Hot Summer Nights sembra un po' una canzone di Lana Del Rey, un po' un romanzo di John Green. Un narratore esterno ai fatti parla a nome dell'intera città: i tre protagonisti, a detta sua, sono già diventati un mistero. A sorpresa, così, i personaggi più superficiali regalano attimi di struggimento e la svolta drammatica, che nel finale imbocca i territori precipitosi e serissimi del crime, gli dona più che a Ben is back: Lascia, infatti, l'amaro in bocca e gli occhi tristi. Queste caldi notti estive avevano proprio bisogno del refrigerio di un brivido, pur di mostrarsi più che una toccata e fuga nel lato oscuro degli abusati '80s. (7)

Un'altra identità da riformare. Un'altra sessualità negata. Questa volta siamo nei primi anni Novanta, nei panni di una ragazza interrotta. L'hanno beccata a pomiciare sui sedili posteriori con una compagna di scuola e per lei hanno decretato una guarigione forzata in un centro che mette al vaglio i sogni erotici che fa, la musica che ascolta, i traumi pregressi e i fidanzatini del liceo. Con il rischio di perdere sé stessa, di tradirsi, in nome di una religione a cui nessuno crede fino in fondo e di una normalità predicata soltanto in teoria. I toni sono quelli falsamente scanzonati di Noi siamo infinito. Le ambientazioni ricordano gli istituti correttivi di Fino all'osso e Cinque giorni fuori. Inferiore ai titoli citati, nonostante la delicatezza del tema, la discutibile vittoria al Sundance e l'enorme talento di una fragile e focosa Moretz, La diseducazione di Cameron Post racconta una storia di ribellione e affermazione, ma non ha né anima né originalità; colpi di testa o di cuore. L'esordio di Desiree Akhvan, eppure inspiegabilmente ben accolto in patria, si lascia rabbonire e semplificare, smussare. Troppo educato, titolo a parte, lascia che i suoi protagonisti in terapia disegnino iceberg, per poi indugiare con profonda amarezza soltanto sulla superficie. (5,5)

venerdì 12 aprile 2019

Recensione: Chi ha rubato Annie Thorne?, di C.J. Tudor

| Chi ha rubato Annie Thorne?, di C.J. Tudor, Rizzoli, € 20, pp. 351 |

Tornare a casa in una città della provincia inglese in cui ogni dettaglio urla tragedia. Affittare un cottage a un prezzo stracciato, perché teatro di un delitto violento: una mamma, poi morta suicida, ha frantumato la testa del figlio contro il televisore, lasciando scritto con il sangue che l'adolescente non era quello di sempre. Fra passato e presente, con un futuro in forse, imbattersi inevitabilmente in un mistero da risolvere: qual è il filo rosso che lega la città mineraria a una serie di drammatiche sparizioni e, soprattutto, di impossibili ritorni? Prendete i ritorni all'ovile di It, mossi dall'attrazione per l'orrore; aggiungete gli abomini di Pet Semetary – i defunti, sì, trovano anche qui nuova linfa grazia a una macabra sepoltura –, con la partecipazione tutt'altro che insolita di ragazzini prima persi per sempre, poi ritrovati, che si trasformano a vista d'occhio negli eredi di Regan MacNeil. Abbonderanno, superfluo specificarlo, le cave dell'occulto e le pareti imbrattate di rosso, i tubi gorgoglianti e le bambole logore, presenze inquietanti che all'improvviso liberano la vescica sulla moquette. Insomma: nel romanzo di C.J. Tudor, da me attesissima dopo il buon L'uomo di gesso, è presente tutto l'armamentario. C'è una botola che porta i giovani sconsiderati al centro della terra. E c'è qualcuno che, giusto sopra, vorrebbe costruirci un parco pubblico: cosa non smuovono il vile denaro, infatti, e la paura di morire?

A volte hai solo una scelta, ed è quella sbagliata.

Per fortuna c'è Joe, voce narrante che fa la differenza: ex emarginato infiltratosi nella banda dei gradassi, da adulto è un piantagrane che non vorresti conoscere. Un professore di letteratura con false referenze a carico, una coscienza lercia e i conti in sospeso di quei giocatori d'azzardo famosi per avere sempre l'asso nella manica: anche se i debiti hanno le gambe lunghe – e hanno spezzato le sue, ormai zoppo – e lo scovano anche ad Arnhill, dove ci sono ben altre grane per un bugiardo patologico. 
Un'email anonima lo convoca lì, dove la fine ha avuto inizio, e lo obbliga a ricordare l'amicizia con il fragile Chris, il bullo Hurst e l'inarrivabile Marie, finita in moglie al ragazzo sbagliato. I fantasmi delle adolescenze passate, le questioni irrisolte e archetipi destinati a ripetersi, parlano dappertutto di Annie: la sorellina di Joe scomparsa per quarantottore, venticinque anni prima, e riapparsa dal nulla che l'aveva inghiottita con un'indole stravolta. In questo pullulare a fantasia di vizi e drammi pregressi c'è tanta carne al fuoco e i guai, i luoghi oscuri, stanano te: mai viceversa. Quando l'omaggio, spudoratissimo, è però una pallida imitazione?

Vorrei poter dire alla mia sorellina che le volevo bene. Che la amavo con tutto il cuore. Era la mia migliore amica, la persona con cui potevo essere davvero me stesso, l'unica capace di farmi ridere fino alle lacrime.
Ma non posso. Perché a otto anni mia sorella è scomparsa. All'epoca pensai che fosse la cosa più terribile che potesse mai accadere al mondo.
Solo che poi tornò.

L'autrice venera i mondi di Stephen King, ma questa volta non riesce a rielaborarli con originalità. Di superarli, ovviamente, non c'è il minimo rischio. Scontato e derivativo, con il difetto aggiunto di comprimari inverosimili – su tutti Gloria, sadica strozzina sbucata quasi dalla schiera di bulli e pupe di Martin Scorsese –, Chi ha rubato Annie Thorne? risulta eppure un riuscitissimo romanzo di genere. Che intrattiene e intriga dall'inizio alla fine. Che in una casa vuota, alla luce sbilenca della lampada, nell'ora delle streghe spaventa. 
I dialoghi suonano cinematografici, il protagonista è indagato con la scrupolosità di uno scavo archeologico e, in conclusione, ecco una raffica di colpi di scena a catena, sorprendenti ma poco ragionati. Il vero enigma è uno: l'inspiegabile efficacia di un horror mordi e fuggi, che al pari dell'ultimo film in sala di Pascar Laugier brilla a modo suo, per raccapriccio e strizzate d'occhio così esagerate da far simpatia. 
Lo scriveva Umberto Eco a proposito di Casablanca: «Due cliché ci fanno ridere. Cento cliché ci commuovo. Perché si avverte oscuramente che i cliché stanno parlando fra loro e celebrano una festa di ritrovamento».
Quanto divertimento c'è, in questa piccola festa di morte?
Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Phaeleh feat. Augustus Ghost – Whistling in the Dark

lunedì 8 aprile 2019

I ♥ Telefilm: The OA S02 | True Detective S03

Ambiziosa, autoriale e impenetrabile, nell'anno dei fasti di Stranger Things si era imposta a sorpresa come mia serie del cuore. Non l'avevo compresa fino in fondo, eppure mi aveva commosso. Con le sue coreografie ipnotiche e metaforiche. Con i suoi protagonisti indecisi fra l'additare la malattia mentale della loro guida spirituale oppure abbandonarsi al miracolo. Il finale, per me perfetto così, ci doveva qualche spiegazione. The OA, attesa al varco non senza timore, è tornata ad aprirci occhi e mente, a prenderci in giro, con un nuovo arco di episodi. Se l'attesa è stata ripagata, le si perdona anche il ritardo: assolutamente necessario per riprendere le fila, stupirci e, a tratti, superarsi. Prairie, la sempre incantevole Brit Marling, è andata incontro a morte certa ma infine ci è riuscita: ha fatto il salto in un'altra dimensione. L'atterraggio ha avuto effetti collaterali: da un lato, infatti, deve imparare a muoversi nell'esistenza dell'alter-ego Nina, imprevedibile e viziosa; dall'altro, invece, fare i conti con il fatto che Homer non sappia chi lei sia e con il pensiero che Jason Isaacs, il folle che l'ha tenuta per sette anni rinchiusa, ricopra anche lì un ruolo di potere. Prairie, ricoverata in un ospedale psichiatrico, è prigioniera insieme alle altre cavie di Hap. Alle ambientazioni di Maniac e Homecoming si sovrappongono le vicende di un nuovo personaggio, un detective in cerca di un'adolescente scomparsa, e quelle dei compagni di Prairie, commoventi liceali on the road reduci da un'amicizia impossibile da dimenticare. Due dimensioni distinte, tre diversi piani narrativi: cosa succederà quando si sfioreranno? The OA promette faville e frustrazione. Di ripetersi. La seconda stagione rischia di dire troppo, vero, e troppo presto. Fa sentire qui e lì la mancanza dei suoi adolescenti: nonostante il surclassamento a personaggi secondari, comunque, ci regalano gli attimi più struggenti – saranno quelle danze affascinantissime, o forse il candore di chi si fida ciecamente. Consapevoli dello strano patto narrativo, quest'anno si lascia seguire con minori difficoltà. Guadagna ritmo, comprimari, quesiti. Osa, contaminandosi con l'horror alla Lynch e il leggero trash di fughe e feste mascherate. Il salto si fa maggiore, somiglia a un volo impossibile su San Francisco. La totale comprensione della visione è questione di fede. Siamo punto e a capo, con lo stesso pugno di mosche e un'immutata suggestione. L'epilogo non è che lo specchio riflesso del precedente. L'interpretazione, al centro di dubbi prima fugati e poi rinnovati, non è univoca. La serie, infatti, ha i passaggi segreti e le zone cieche della casa degna di Hill House, costruita da un ingegnere e da una medium, nella quale si imbattono i nostri protagonisti: giovani sognatori vi hanno smarrito al suo interno il lume della ragione e le pareti, sottilissime, promettono di collegarci a realtà alternative. Come sarà il mondo dall'alto, visto dal rosone istoriato della facciata? Prairie promette ai naviganti una visione d'insieme splendida e destabilizzante, simile a quella di Neil Armstrong quando si voltò in assenza di gravità e vide la terra. E The OA è proprio una creatura aliena. Una serie lunare dove tutto è possibile, ogni domanda è lecita, ma le risposte potrebbero negarcisi. Questo la rende amata da qualcuno, odiata da altri. Ma una provocazione intellettuale senza precedenti. (8)

Una piccola comunità, due bambini scomparsi nel bosco, una famiglia che si sgretola sotto il peso della tragedia. Un corpo viene ritrovato presto, infatti; l'altro no. Il mistero dura venticinque anni. Non ci saranno superstiti in casa Purcell, ma due segugi, per fortuna, non smetteranno mai di chiedere, scavare, provocare. Messa così, fatta eccezione per la suddivisione in tre piani temporali, la trama è la stessa di un giallo come tanti: una ricerca tanto delicata quanto preoccupante, di quelle che anche sul piccolo schermo abbiamo visto e rivisto spesso. A onor del vero, tutto è come appare. Ben poche variazioni sul tema, a parte l'insolita parentesi dolce-amara con i protagonisti invecchiati, e nessun guizzo fino all'ottava puntata. Non si può parlare di delusione, eppure era lecito aspettarsi maggiore complessità da un ritorno tanto inaspettato. Erano gli intrighi difficoltosi, i personaggi criptici e gli spunti di attualità la cifra stilistica di True Detective? Dal momento che i pregi della prima stagione si erano rivelati anche i difetti della seconda, la HBO ha ripiegato su una semplicità che premia. Lineare non tanto nella struttura quanto nella pianificazione, il mistero che sono chiamati a sbrogliare gli ottimi Mahershala Ali e Stephen Dorff si protrae nel tempo – tanti buchi nell'acqua, tante false risoluzioni e altrettante ripartenze – anche se, come ci conferma l'epilogo, certe storie vanno avanti da sé. Reduce del Vietnam e guardato con sospetto dal razzismo, Ali – straordinario, al punto che verrebbe voglia di scommettere già su di lui nella prossima stagione dei premi – fa prima i conti con i conflitti d'interesse per la moglie romanziera, poi con l'oblio della demenza. Il ritrovato Dorff, tutto d'un pezzo anche sotto il trucco che lo appesantisce, è il classico sbirro dai metodi poco ortodossi e la vita sentimentale sregolata, nonostante spesso e volentieri i ruoli di potere si invertano: chi è allora il poliziotto buono, chi quello cattivo? I ritmi sono quelli lenti a cui ci siamo affezionati, i dialoghi ben scritti abbondano – a sorpresa, questa volta affiora un'emozionalità sconosciuta – e lo scioglimento, immancabilmente, arriva. In un cameo fotografico fanno capolino perfino McConaughey e Harrelson, insieme all'ipotesi di traffici umani, ma siamo fuori pista. Come si diceva, la serie si mantiene su stilemi classici. Un colpo di cuore, allora, giunge davanti a quel finale che in rete divide. Non mi spiego, sinceramente, il perché delle libere interpretazioni fioccate qui e lì; le critiche di chi dice di aver visto Pizzolato lavarsene le mani. Ci sono brividi, epifanie, immagini, che percepiti attraverso la demenza del personaggio principale sanno invece dare speranza e armi pacifiche a chi crede nell'immaginazione; nelle seconde opportunità. C'è una confusione di quelle buone a indicarti piazzole d'emergenza in questo viaggio, rigorosissimo ma un po' anonimo, al termine della notte. (7)

venerdì 5 aprile 2019

Recensione: Benevolenza cosmica, di Fabio Bacà

| Benevolenza cosmica, di Fabio Bacà. Adelphi, € 18, pp. 225 |

Ci sono persone baciate dalla fortuna. Quelle che trovano un posto a sedere nella metropolitana affollata, hanno quotazioni in borsa costantemente in crescita e sul sedile posteriore di un taxi, per un motivo o per un altro, non pagano la corsa grazie a guidatori stranamente munifici. L'esordiente Fabio Bacà e il suo irresistibile protagonista, Kurt O'Reilly, appartengono alla sparuta categoria di coloro con il vento sempre in poppa. Quando capita a un insegnante di ginnastica dolce, vissuto fra Marche e Abruzzo, di debuttare nel mondo editoriale con l'elitaria Adelphi? Quante possibilità ci sono che alla voce narrante della sua storia, in ordine sparso, diagnostichino un tumore rarissimo ma benigno; gli sveli le proprie grazie una pornodiva distesa sul lettino dell'amico tatuatore; per il rotto della cuffia lo salvino da una serie di improbabili rapine sventate poi a suon di pugni? Dal momento che le risposte oscillano dal raramente al mai, sarebbe cosa imperdonabile perdersi Benevolenza cosmica. Non fate come il sottoscritto: l'ho voluto leggere tantissimo e, quando l'ho trovato nella cassetta della posta, ne ho avuto all'improvviso timore. Sarà che i titoli dell'editore milanese ispirano insieme serietà e reverenza. Sarà che il surreale lo apprezzo, ma in piccole dosi e nei momenti propizi: spesso può disorientarmi fino a disinteressarmi, infatti, e i paragoni con Vonnegut e De Lillo avranno senz'altro lusingato il simpaticissimo Bacà ma scoraggiato, d'altra parte, un po' me. Che questi grandi nomi, al momento, li conosco soltanto per sentito dire. Che dell'uno custodisco citazioni sparse e dell'altro i pigri ricordi della versione cinematografica di Cosmopolis. Chiedo scusa, perciò, se qualche strizzata d'occhio a terzi mi è sfuggita. Se mi sono lasciato incantare e ingannare dal potere delle eccezioni alla regola: esordienti, si diceva per l'appunto, che hanno la benevolenza di un marchio per pochi eletti. Niente al mondo, una volta iniziatolo, mi ha comunque impedito di godermi le particolarità stilistiche e strutturali di una commedia ad ampio respiro, perfino più spassosa e scorrevole del previsto.

Credevo di non dover ricorrere alle stesse affannose consolazioni cui attingono gli altri esseri umani mentre annaspano in un tratto impetuoso dell'esistenza, ma a quanto pare sbagliavo. Ci sono cose per le quali non pretendere una spiegazione è impensabile. E io non avevo mai avuto più bisogno di un parere illuminato in tutta la mia vita.

Comprenderà bene il mio punto di vista il nostro Kurt: trentenne di successo – la giacca sulla spalla, i mocassini scamosciati ai piedi, lo sguardo cinico e indifferente dell'uomo che non deve chiedere mai: quattro sedute settimanali di palestra, un totale di ottantuno bocche baciate –, con una fidata segretaria che bada ai minimi dettagli e una nutrita schiera di conoscenti che lo sollevano puntualmente dalle incombenze grandi e piccole. Se come lui sei un esperto di statistica per un ente governativo, quanto ci vorrà per notare la presenza sfacciata della buona sorte? Ha vissuto infatti abbastanza colpi di fortuna da appuntarli uno a uno su un taccuino fittissimo. E da insospettirsi. Felicemente sposato con la scrittrice Liz, benché vivano in due appartamenti separati all'interno dello stesso condominio, il protagonista è un uomo fedele e, come tutti, felice a volte.
Certo, gli danno da pensare gli attentati random in una Londra sospesa nel futuro. Certo, ci sono problemi anche in paradiso: i suoi genitori, un insegnante di filosofia e un'orticultrice italiana, non sanno capacitarsi della morte del figlio minore nel corso di un assurdo incidente aereo. Ma come spiegarsi eventi e gesti capaci di sovvertire intere statistiche, senza scomodare concetti quali karma e destino? Ci si affida a consiglieri, psicologi, cartomanti. Ci si muove a passo veloce in una metropoli inquadrata qui fra scienza e magia, domandandosi a quale di quei nove milioni di abitanti stiamo sottraendo una dose di fortuna. Come fare per pareggiare i conti, per rendersi utili?

Non voglio vivere una vita in cui mi sia proibito di accedere alle sensazioni limbiche di timore, angoscia, senso d'ignoto, vuoto, viltà, invidia, disprezzo, rancore e attrazione per il lato sbagliato delle cose: sensazioni a cui dovrebbe accedere ogni essere umano, se vuole ancora considerarsi tale. E io non voglio essere qualcosa di diverso da un uomo. Non voglio svegliarmi ogni mattina con un sorriso idiota in faccia al pensiero di tutte le cose belle che accadranno, avendo la certezza che accadano. Non voglio la certezza, intendo: la speranza è già sufficiente.  

Bacà si ingegna. Spegne il cellulare, guarda meglio e più da vicino il prossimo suo. Banalmente ma non troppo, vive ogni gioia come fosse l'ultima. L'assunto di base, lamentarsi di un fato generoso, risulta strampalato soltanto in teoria. Lo leggiamo spesso nelle vignette di Charlie Brown: si è impreparati a una felicità esagerata, perché in fondo spaventa. Perdere la paura, il gusto per il rischio, il senso del pericolo significherebbe rinunciare anche alla nostra umanità; all'emozione di vivere di pure speranze, anziché di certezze granitiche. Benevolenza cosmica, romanzo illuminato più che semplicemente brillante, è una deliziosa parabola con le armonie del rock progressista e una chiusa dolcissima. Non fatevi domande. Non ponetevi limiti. Bevetelo d'un fiato, perché la sua copertina giallo limone fa subito primavera e la leggerezza che predica, in definitiva, concilia il buonumore. L'universo segue leggi misteriose: tutto è possibile. Anche che la fortuna prima ti scelga, poi ti volti le spalle, lasciandoti infine a raccogliere i cocci, i sorrisi e i baci a fior di pelle della più indimenticabile delle giornate da dimenticare.
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Franco Battiato – Centro di gravità permanente

mercoledì 3 aprile 2019

Pillole di recensioni: Stai composta (Cosima Spinelli) | Elena di Troia (Loreta Minutilli)

Stai composta, di Cosima Spinelli
Bookabook, € 13, ★★★½
Ognuno raccoglie ciò che ha seminato. Io, a un passo dalla laurea magistrale, mi accorgo di aver seminato poco. Alla proclamazione, infatti, vedrò qualche parente e amici sulle dita di una mano. Dev'essere per questo che la lettura di Stai composta ha suscitato in me un vago dispiacere. Parlandosi di amicizie storiche, in tempo di inviti da inoltrare e bilanci, quanto rimproverare al mio carattere schivo e quanta invidia, invece, per le tavolate festose di Cosima Spinelli. Con gli stessi sentimenti le spia anche la narratrice: una presenza anonima che, guardando senza essere guardata, spia le confidenze intime, gli amori e i segreti degli amici di sua mamma. Quattro scapestrati figli degli anni Ottanta che in un'atmosfera distesa e conviviale, di brindisi balli e risate, condividono a cena i ricordi di una sera del 1994. Nell'anno in cui sarei nato io, avevano accettato di darsi appuntamento durante una sera di pioggia e tuoni. C'erano tutti: Claudio, il padrone di casa sopravvissuto all'infanzia in un quartiere difficile, con un pastore tedesco accucciato ai piedi e la tendenza a scappare dall'altra parte del mondo; Anna, infatuata non corrisposta, che si accompagna agli uomini senza trasporto e fa i conti con un passato di molestie; Marco, emarginato per le sue preferenze sessuali e costretto a un noioso lavoro d'ufficio per quieto vivere; Sara, mamma di due gemelle in crisi matrimoniale. Sembrano un po' i Perdenti di It, un po' i commensali del cinema di Ozpetek e Muccino. Come dimenticare il leggendario concerto dei Pink Floyd nella laguna di Venezia? Come non lavare i panni sporchi fra amici stretti, se non è tutto oro quel che luccica? Non sappiamo bene cosa sia stato di loro, se a tavola ci sia un posto vacante o meno, chi sia il padre della voce narrante. Un'adolescente ficcanaso senza nome, ma non senza personalità, che impara a essere figlia e donna occhieggiando le loro nostalgiche rimpatriate. Il passato non avvisa, scivola frequentemente nel presente, e la narrazione in terza persona si alterna al corsivo di quella in prima. Stai composta, consigliatissimo agli amanti di Federica Bosco e Chiara Gamberale, è il lascito fedele di quella notte temporalesca. Una lettura lieve e introspettiva, che emoziona con delicatezza con una storia in cui amicizia rima con famiglia. Ci sono attimi fortuiti che non scegli da te. Puoi compensare, per fortuna, con le persone giuste. Quelle che tengono un coperto aggiunto a tavola, il piatto in caldo e la memoria, sempre, viva.

Elena di Sparta, di Loreta Minutilli
Baldini & Castoldi, € 17, ★★★
Ne hanno fatto la causa di tutti i mali. Una novella Pandora che scoperchiò un vaso di violenza soltanto per capriccio; solo per amore. Chi era realmente la mitica Elena? Una moglie trofeo, una vanitosa sciagurata, o forse una femminista ante litteram? In un momento storico in cui la voce delle donne ha diritto a un'eco maggiore, l'esordiente Loreta Minutilli ha dato a una famigerata femme fatale l'ultima parola. Classe 1995, laureanda in Astrofisica ma con alle spalle un diploma classico, la giovane autrice si è fatta notare al premio Calvino prestandosi alla scrittura con un rischioso lavoro d'introspezione. Può un ventiquattrenne portare il peplo, un bagaglio carico di sensi di colpa e immedesimarsi, così, in un mondo perduto cantato già da aedi e rapsodi? Sin dalle prime pagine l'operazione risulta convincente: metà umana e metà dea, splendida e impreparata al mondo, la narratrice appare una anti-eroina che impara con le cattive che la bellezza è un'arma a doppio taglio. Abusata da Teseo, andata in moglie a quel Menelao sinceramente innamorato, infine amante di Paride e Deifobo, Elena scorge nella guerra una promessa di novità. Non ha né voce in capitolo né autorità, e allora sceglie di sovvertire lo status quo accelerando i tempi del conflitto: fa un affronto al prossimo, essere libera, e scappa a Troia. Ma la reclusione non si confà alla più bella della reggia di Priamo: anche se la profetessa Cassandra le si dimostra amica e complice; anche se il laconico Ettore, l'esatto contrario del fratello, non ne sottovaluta l'intelligenza. Sotto le mura della città sono accampati Agamennone, Achille e Odisseo: per chi batte il cuore di lei, dalla parte di chi è schierata? La guerra non scoppiò per lussuria. Non c'entrarono i dardi di Cupido. Cominciò e finì in nome di una donna incuriosita dall'altra metà del mondo, che tanto perse – la nipote Ifigenia, la madre Leda, la figlia Ermione – e, per forza di cose, a tanto dovette rinunciare. Riassunto condensato di dieci anni di guerra, Elena di Sparta racconta il conflitto da una prospettiva eccezionalmente femminile: un punto di vista sì inedito, ma anche limitato. Servita e riverita, protetta, la protagonista bramava invano un ruolo d'azione. Peccato che nessuno le chiedesse un'opinione personale, che nessuno le domandasse di raccontarsi. Ci ha pensato la Minutilli, attraverso un soliloquio difficile e rigoroso, dal taglio teatrale. Scritto meravigliosamente ma senza capitoli, senza paragrafi, il romanzo non risulta di immediata lettura. Una strenua difesa, piuttosto, verso la goccia che che fece traboccare il vaso. Un esercizio stilistico di grande maniera e senza anacronismi, ma ispirato a un mito che avvince più in esametri.

lunedì 1 aprile 2019

I ♥ Telefilm: After Life | Love, Death + Robots | Turn Up Charlie

Ci sono dolori che non si superano mai. Soprattutto se, come Tony, cinquantenne intrattabile, sai che nessuno ti amerà quanto o più di tua moglie: l'unica abbastanza ostinata da sopravvivere ai tuoi pessimi scherzi, al tuo crudo senso dell'umorismo, ma non al cancro. Come reagirebbe il perfetto Scrooge se non rifuggendo le parole di conforto degli altri, i morsi del dolore e, dunque, la vita? Permaloso e sarcastico, il protagonista nutre frequenti pensieri suicidi e a salvarlo in corner è l'inseparabile pastore tedesco che lo costringe ad alzarsi a fatica dal letto, a uscire per fare la spesa, a non affogare in un mare a volte fisico e altre figurato. Sulla strada dell'elaborazione incrocerà: spacciatori per consiglieri, prostitute dal cuore d'oro che gli si offrono gratuitamente come colf, vedove fisse al cimitero e nuovo appuntamenti romantici, assieme agli assurdi concittadini da intervistare per il giornale locale – una rivista gratuita dove vengono ospitate mamme che in cucina usano latte materno e lievito vaginale, suonatori di flauto (con il naso), chiazze di muffa sospette (che non somigliano a Gesù, però, ma a Kenneth Branagh). Eccezionalmente scrive recita e dirige un Ricky Gervais con il classico dente avvelenato ma, a sorpresa, tanto cuore in più. Quali speranze restano a un vedovo senza figli, reduce da venticinque anni d'amore? Un sorriso famelico, da squalo, e occhi in cui vedi baluginare qui e lì lacrime inaspettate. Dopo i colpi di fulmine con Catastrophe e Fleabag, gli inglesi consolidano il loro formato vincente con il beneplacito di Netflix: sei puntate di venticinque minuti ciascuna; una rassegna struggente di scuse futili e valide ragioni per continuare, nonostante tutto, a tirare avanti. After Life è un gioiello di commedia nera. Si cede alla retorica soltanto nel finale. Si parla, già in via di guarigione, dello straordinario egoismo del dolore. Il lutto, ribadisce un Gervais acido ma redento, non è una questione privata. Non lo è, in fondo, neppure la nostro vita. (7,5)

Dici animazione. Dici fantascienza. Mix potenzialmente fatale per me, che non ho mai amato né i cartoni animati né un genere che di per sé predilige mostri, esplosioni e voli intergalattici. L'ultima proposta Netflix, eppure, allettava con il suo tam-tam pubblicitario e i grandi nomi coinvolti: a produrre niente meno che Tim Miller e David Fincher. Diciotto storie mai più lunghe di venti minuti, diciotto cortometraggi, diciotto stili differenti: dalla computer grafica più roboante all'essenzialità degli anime, setacciando in ordine casuale i deliri dell'horror, gli orrori di guerre vicine e lontane, la satira e le leggende del lontano Oriente. Tanta bellezza, altrettanta carne al fuoco, anche se come accade nelle antologie qualcosa piace e qualcosa no; anche se non tutto funziona, fra sceneggiature poco approfondite e bozzetti incompiuti, e l'ordine degli episodi non sempre appare strategico. A conquistare il podio sono i miti folkloristici di Buona caccia reinterpretati in chiave steampunk, il femminismo battagliero del Vantaggio di Sonny, le atmosfere distorte della Testimone, senza dimenticare l'arte concettuale del filosofico Zima Blu, l'erotismo mostruoso di Oltre Aquila o i cieli vorticosi dello scenografico La notte dei pesci, rovinato a malincuore dall'ignorante deriva finale. Divertono gli esperimenti umoristici di Tre robot e Alternative storiche; soltanto in teoria il brioso nonsense del Dominio dello yogurt e L'era glaciale. Ma titoli come La discarica, Dare una mano e il Succhia-anime sanno purtroppo di già visto, e che noia, per favore, le sparatorie roboanti di Tute meccanizzate, Dolci 13 anni, Mutaforma, La guerra segreta! Dietro un esemplare sfoggio di mezzi e tecniche, oltre partecipazioni amichevoli che fungono da abile specchietto per le allodole, a ben vedere gli stili animati sono in numero minore rispetto al previsto; di incantare – con il mito, con personaggi femminili resistenti agli urti, con il grottesco – si ha intenzione giusto a tratti. Manca il fil rouge. Manca una cornice. Quelli di Love, Death + Robots, così, restano quadri splendidi ma fini a loro stessi, di piacevolezza e riuscita molto variabili, che non giustificano la natura antologia della serie evento e interessano per metà. Ma questa fantascienza per principianti ha frame da incorniciare e un formato tentatore, che con poco ha intrigato anche il sottoscritto: un dichiarato profano, come si diceva in apertura, allettato da amori e dipartite in pillole coloratissime, meno da automi con un cuore di latta e CGI. (6,5)

Stando a una nota rivista è l'uomo più sexy del mondo. Aspirante James Bond, serio e richiestissimo, Idris Elba mi è sempre parso un attore da film impegnati: anche troppo. Indiscutibilmente bello e bravo, anche sulle soglie dei cinquanta, mostra quanto gli doni anche una leggerezza inedita. Il sex symbol dall'inossidabile pelle scura e dal principesco accento inglese, per ragioni di copione, si trasforma qui nel suo esatto opposto: uno scapolo di origini africane trapiantato a Londra, con un appartamento in periferia da condividere con la zia ficcanaso e poche prospettive per il futuro. Musicista di discreto talento, sul finire degli anni Novanta era stato una meteora: uno da tormentone mordi e fuggi, insomma, incapace di mantenersi sulla cresta dell'onda oltre il minimo sindacale. Il ritorno all'ovile di una storica coppia di amici – lui aspirante attore teatrale, lei (interpretata da Piper Perabo, ex Ragazza del Coyote Ugly) deejay di fama internazionale – dà una spinta alla sua carriera in stallo, anche se sbarcare il lunario talora significa sapersi accontentare. Perfino dell'ingrato ruolo di babysitter per la figlia dei due forestieri, bambina sfacciata a metà fra il tenero e l'insopportabile. Per quanto poco originale, anche grazie all'alchimia con l'altezzosa e fragile coprotagonista, la prima parte in stile About a boy funziona senza guizzi e senza sbadigli. La seconda, in cui con un inspiegabile salto temporale si passa dall'Inghilterra alle lussuriose estati di Ibiza, stordisce con tanta musica ad alto volume, frammenti in scorrimento veloce di sesso occasionale e droghe, ma perde clamorosamente di vista il punto della situazione fino ad arrivare a una chiusa affatto appagante. Turn up Charlie ha pochissimo da raccontare, e per di più lo fa svogliatamente. Commedia dalla foggia modestissima, con una scrittura scontata e derivativa, si regge solo grazie allo status consolidato del protagonista che, in scena, ironizza sulla sua doppia professione di attore e musicista. Anche se ci si domanda, un po' preoccupati, perché il buon Elba figuri perfino fra i creatori. Non funzionano, infatti, la divisione a puntate e il grande investimento di energie. E la serie, nel suo complesso, non risulta all'altezza né della proposta Netflix né di un professionista che sfortunatamente non può essere la sola anima della festa. (5)