lunedì 28 settembre 2015

Recensione: La gemella silenziosa, di S.K. Tremayne

Ogni tipo di amore è una forma di suicidio: uccidiamo qualcosa dentro di noi, volontariamente, ogni volta che amiamo davvero.

Titolo: La gemella silenziosa
Autore: S.K. Tremayne
Editore: Garzanti
Numero di pagine: 307
Prezzo: € 16,90
Sinossi: A Sarah piace il silenzio assoluto della sera che avvolge l'isola di Skye. Le piace muoversi piano nella penombra e accarezzare delicatamente i biondi capelli della sua bambina di sette anni, Kirstie, che si è appena addormentata. Mentre osserva le sue manine che stringono il cuscino, Sarah ripensa a quando quelle mani si stringevano a quelle, identiche, della sorella gemella Lydia. Niente le distingueva: stesse lentiggini, stessi occhi azzurro ghiaccio, stesso sorriso giocoso. Ma, un anno prima, Lydia è morta improvvisamente e ha lasciato un vuoto così grande che ha costretto Sarah e la sua famiglia a fuggire da tutto e da tutti su quell'isola nel mare della Scozia. Lì, tra scogliere impervie e cieli immensi, Sarah sente che lei, la bambina e suo marito Angus potranno forse ritrovare la serenità. Eppure, mentre si avvicina l'inverno, Kirstie è sempre più strana. Diventa silenziosa, riflessiva, stranamente interessata a cose che prima non amava. Sempre più simile a Lydia, la gemella scomparsa. Quando un giorno si scatena una violenta tempesta, Sarah e Kirstie rimangono isolate. Nel buio, col solo mugghiare del vento ad ascoltarle, Kirstie alza gli occhi e sussurra: "Mamma, perché continui a chiamarmi Kirstie? Io sono Lydia. Kirstie è morta, non io". Sarah è devastata e il tarlo del dubbio comincia a torturarle l'anima. Cos'è successo davvero il giorno in cui una delle gemelle è morta? È possibile che una madre possa non riconoscere sua figlia
                                                    La recensione
Perché continui a chiamarmi Kirstie? Kirstie è morta. Mamma, io sono Lydia, è stata Kirstie a morire.” 
Con un bianco e nero d'altri tempi e, in sottofondo, la lirica Lascia ch'io pianga aveva inizio, in maniera tanto esplicita quanto elegante, il controverso Antichrist. Raffinati slow motion per mostrare l'amore e la morte secondo quel Von Trier che o si ama o si odia, senza misure intermedie: mentre mamma e papà, in bagno, erano avvinghiati in una scena di sesso ai limiti della pornografia, un bambino inseguiva il suo giocattolo preferito nell'ultima caduta sulla neve. La colpa di una finestra lasciata aperta, la vergogna della passione, il desiderio di un nuovo inizio – in una landa deserta – minacciato dall'orrore di un epilogo tragico. Qualcosa di simile accade a Angus e Sarah, protagonisti del romanzo d'esordio di S.K Tremayne: la crisi coniugale - ed esistenziale - successiva alla morte accidentale di una bambina e un'isola privata a largo delle coste scozzesi per andare punto e a capo, nonostante il buco nel cuore e una relazione che, sopravvissuta anche a un tradimento, non può rimanere salda quando ad abbandonarci è una figlia. Ma, in La gemella silenziosa, le sorelle sono, appunto, due: identiche, con i vestiti cordinati, i capelli biondi, gli occhi di ghiaccio. Così diverse e così simili, con i giochi che capivano solo loro, una comprensione reciproca assai simile alla telepatia, un legame inconoscibile: stesso liquido amniotico, stessa identità. Quando Lydia muore, Kirstie inizia a diventare ancora più uguale a lei: ad annullarsi, a punirsi, assumendo le abitudini e gli interessi della sua metà. Possiamo forse funzionare senza un pezzo? Una mela, se tagliata in due, va presto a male. E il male – sottoforma di trauma o di spettro – infetta Kirstie. A tal punto che, in un paradiso percosso costantemente da acqua e vento, in notti cupe e tempestose, incidenti di percorso e ombre oltre gli specchi pianteranno il seme del dubbio in Sarah, la madre già fortemente provata. Peggio credere all'esistenza di una dimensione parallela, lì dove dicono che il confine tra il nostro mondo e l'altro sia assai sottile, o rendersi conto di aver seppellito la bambina sbagliata? Ho sempre trovato inquietante, quando ho avuto l'età per dimenticare come fosse vivere l'infanzia, il mondo sottilmente crudele dei bambini: le piccole prepotenze, le frasi senza senso che hanno invece un senso profondissimo, una risata argentina nel cuore della notte. Pensate alla gemelle nei corridoi di Shining, mano nella mano; a Danny e alla sua misteriosa luccicanza. 
A volte ti guardano, con quegli occhi disarmanti e, come i gatti che soffiano al vuoto, sembra possano vederti attraverso: splendidi, ma di quello splendore destinato a corrompersi un po' con l'età; sensibili oltre ogni immaginazione. Suppongo che a spaventare sia la perfezione in generale: atterrisce profondamente l'esserne esclusi. Pensate ai bambini infernali negli horror che, un tempo, andavano di moda: biondi, come fossero progenie di Hitler; angelici; al di sopra di ogni sospetto. I bambini, nel cinema di genere, spaventano come il trucco degli pagliacci. Prima di leggere La gemella silenziosa – ennesimo, presunto caso editoriale dell'anno: finalmente il thriller che aspettavo? - e di lasciarmi incantare dalle sue atmosfere classiche immaginavo, non so come mai, un'ordinaria storia sull'elaborazione. Il mistero come specchietto per le allodole. Invece si parla del superamento del lutto e non solo. In uno scenario da perfetta ghost story: una madre contro il senso di colpa, un padre contro l'isteria della sua compagna di vita, una bambina contro la solitudine e il fantasma di un'altra lei. Tremayne sa scrivere e intrigare. Indagare dentro – minuziosa la caratterizzazione psicologica dei suoi personaggi – e fuori – frequenti, allora, scene cinematografiche che, più che leggerle, osservi in prima persona. Il vento che bussa alla porta e sembra un ospite molesto, lampi che illuminano a giorno stanze buie, la luce del faro che – nella burrasca – mostra in anticipo quel che l'acqua restituirà al mattino.
Infinite le suggestioni, esaustive le descrizioni: ricche ma mai prolisse, mostrano una Scozia sublime, in cui una natura ribelle e il terrificante folclorismo locale offrono appigli, scorci da tenere bene a mente. Giunto ai ringraziamenti, sorpreso da una lettura più accattivante di quel che mi avevano detto e da una narratrice credibilissima, ho scoperto – sorpresa triplicata – che dietro le iniziali del nome in copertina, puntato come gli scrittori internazionali usano fare, c'era un uomo. Un padre che dice quel che solo una madre può sapere; un professionista che – nonostante uno spunto non troppo originale: vengono in mente, infatti, Polanski, Bayona e Hideo Nataka – tiene in scacco fino alla fine. Alla maniera di Virginia Andrews, rigorosamente vecchio stile ma non anacronistico, La gemella silenziosa funziona con espedienti consolidati e brividi freddi. Terapia di coppia in pillole amare, rancori e pulsioni represse, domande su domande. Per chi sogna due gemelli identici, l'inverno tutto l'anno, un cottage infestato su un'isola sperduta. Thriller sì, dunque, ma psicologico o paranormale? Chi è posseduto: la bambina superstite, quella casa che sorge su una terra leggendaria, la mamma fragile, il papà stanco? L'arrivo dell'alta marea confonderà confini (di genere), prove e torbidi segreti: ciò che è sepolto tornerà a galla, ciò che è a galla sarà spinto giù. Come una bottiglia con un messaggio: all'interno, la confessione finale o, magari, un addio.
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Simon & Garfunkel – Scarborough Fair

venerdì 25 settembre 2015

Recensione: Io sono nessuno, di Jenny Valentine

“Indeciso” sembra un posto magico adesso. Un posto prima di “azione” e “conseguenza”. E' indeciso che voglio.

Titolo: Io sono nessuno
Autrice: Jenny Valentine
Editore: Piemme “Freeway”
Numero di pagine: 240
Prezzo: € 17,00
Sinossi: Per tutta la vita, Chap non ha fatto altro che scappare. Un giorno, nella casa-famiglia in cui abita temporaneamente, viene scambiato per Cassiel Roadnight, un ragazzo scomparso due anni prima. La somiglianza è davvero stupefacente e la famiglia, che ancora lo cerca disperatamente, sembra perfetta. È così che Chap decide di rubare l'identità di Cassiel e fingersi lui con la sua famiglia e i suoi amici. Diventare qualcun altro però è meno semplice di quanto Chap possa immaginare, soprattutto quando inizia a scoprire che la vita di Cassiel era tutt'altro che perfetta e che anche la sua famiglia nasconde molti segreti...
                               La recensione
Chap ha sedici anni e, da due, vive come capita. La strada l'ha reso schivo, combattivo e un perfetto bugiardo. Fare a botte, rubare, mentire sono lezioni fondamentali quando vivi di nascosto: Chap, che poi neanche si chiama così, è uno studente modello nella spietata arte di arrangiarsi e un'ombra che non noti, quando fuori è buio. Chi si nasconde sotto il suo cappuccio grigio? Finché – stanco di scappare dagli altri e da sé stesso, già disilluso nell'età delle grandi speranze – qualcuno gli offre su un piatto d'argento, e in un articolo di cronaca nera, la possibilità di ricominciare. Un punto e si va magicamente a capo. Perché c'è un ragazzo scomparso che, in foto, lo guarda con i suoi stessi occhi. 
Cassiel Roadnight, più sorridente e più bello, meno segnato nel volto e non altrettanto amareggiato, è il suo gemello diverso, un sosia a cui è legato da una somiglianza impressionante, ed è andato. A casa sua c'è un posto vuoto. Possibile occuparlo senza fare rumore, senza destare sospetti? Io sono nessuno – lo saprà bene Polifemo, ingannato così dalla scaltrezza di Ulisse – è la storia della seconda vita di Cassiel Roadnight. Un romanzo accattivante, nonostante una trama all'apparenza dotata non chissà di quale originalità. Uno scambio di identità e così iniziava, tre anni fa, l'imperdibile Orphan Black, tra clonazioni e laboratori inviolabili. Un ritorno a casa, invece, con un altro nome e una famiglia aliena, era l'incipit di Finding Carter, teen drama sull'adolescenza e i suoi lati oscuri. Ma Io sono nessuno, lontano dalle strade della fantascienza e dalle schermaglie dei licei americani, assomiglia un po' al primo, un po' al secondo, ma mai a nessuno davvero. Forse parenti alla lontana, però diversi nel dettaglio: Jenny Valentine è la pecora nera della famiglia. Ha uno stile che non gira intorno alle cose, duro, immediato e senza abbellimenti. Si nota, ad orecchio, che è inglese e non americana, anche evitando di leggere la sua biografia: gli statunitensi sono accondiscendenti, più standard; i britannici, invece, schietti e freddi. Cambiano, insomma, l'accento e le intenzioni.
L'autrice – di cui recupererò in tempi brevi il romanzo precedente, La signora nella scatola – è presenza fissa nell'ambiente della Carnegie Medal e, al pari di Kevin Brooks e Patrick Ness, il suo stile secco e le sue buone idee conquistano subito. Se la Valentine è un nome da segnarsi, purtroppo il romanzo con cui si fa conoscere da me non è, fino alla fine, all'altezza. Come si rovina un'ottima impressione iniziale? Facendo cosa o, meglio, non facendo cosa? Io sono nessuno, nelle prime duecento pagine almeno, è materiale interessante. Un thriller per giovanissimi i cui enigmi, però, si limitano al rebus dell'identità del protagonista: chi è, chi non è. Il mistero della scomparsa del ragazzo che, abbandonando l'ovile, ha permesso a Chap una seconda vita non è infatti altrettanto approfondito: un nucleo familiare composto da poche figure – la mamma addolorata, la sorella responsabile, il fratello maggiore avido – e, con l'aiuto di un migliore amico bizzarro, i nodi arrivano presto al proverbiale pettine. Quando potrebbe essere altro, chiunque voglia, quando potrebbe essere tanto, è allora che purtroppo non fa sostanziali passi in avanti. Non andando né piano né lontano, verso una chiusa frettolosa: per me, più adatta a un racconto che a un romanzo di formazione in crisi d'identità. Accontentarsi della sufficienza, insomma, di tratti comuni sotto la maschera, quando – cambiando radicalmente prospettiva – si poteva diventare migliori. Come il suo protagonista, Io sono nessuno abbandona la strada vecchia per la nuova, ma non si può dire se sia cosa buona e giusta. Sa infatti quel che lascia – il sospetto – e non sa quel che trova – una modesta esistenza alternativa. Il detto del nonno non sbaglia.
Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: MisterWives – Vagabond

mercoledì 23 settembre 2015

Mr. Ciak: Inside Out, Boulevard, Second Chance, Un disastro di ragazza, Elephant Song, Z for Zachariah

Non so come mai. Potrei giurare che la mia chiusura dinanzi al cinema animato derivi dallo spirito di ribellione contro genitori che, da bambino, mi dicevano cosa vedere – sì ai cartoni e alle storie edificanti, ad esempio – e cosa non vedere – un no categorio, allora, ai film di paura e al brivido – ma mentirei. Ho sempre guardato tutto quello che volevo, e perdere il sonno per un horror visto con l'inganno mi ha fatto compagnia mentre diventavo grande: crescere significa avere la libertà di sbagliare. Davvero non mi spiego, dunque, quand'è che abbia smesso di credere alle fate e alla magia dei cartoni, ripromettendomi di guardare – una volta cresciuto – solo cose da grandi. Quando, invece, il miracolo dell'animazione ormai commuove in sala più i papà che i figli. Mi sono avvicinato a Inside Out con la paura di non amarlo quanto gli altri, e così un po' è stato. Il perché – sarà colpa della parte centrale con le avventure di Tristezza e Gioia, meno interessante delle ripercussioni che la loro ricerca aveva, invece, sulla frenetica giornata di Riley? - è vago. Bello ma non bellissimo, e più per il mistero delle mie convinzioni che per evidenti difetti di fabbrica, è un trionfo che non mi ha fatto gioire del tutto. Anche se è orchestrato magnificamente, l'emozione dipinge un vasto spettro di colore, l'idea di partenza è splendida. Inside Out è un'originale esplorazione del nostro profondo. Il trasferimento di Riley in un'altra città – e una casa inospitale, e amici di cui conquistare da zero la fiducia, e i genitori presissimi dalle fatiche del trasloco – genera in lei un terremoto emotivo delicatamente indagato: Paura, Rabbia e Disgusto hanno preso il comando, mentre Gioia e Tristezza – con l'aiuto di un tenero amico immaginario – tentano, altrove, di ammortizzare il crollo di certezze e valori. Se il linguaggio del genere si scontra contro la mia scorza dura, e arriva e non arriva, impossibile ignorare – anche se non mi è piaciuto, in definitiva, quanto mi si assicurava – la magia di una storia essenziale, il coraggio di non rinnegare quelle parti del nostro animo che certi giorni ci rendono naturalmente inclini alla malinconia, la coerenza di non calcare la mano con la stucchevolezza. Dai creatori di Up (dieci minuti d'apertura che mi hanno fatto piangere il mare, ma del resto non ricordo altro), un Girlhood che con la grazia di Linklater, quasi, e la fantasia unica della Pixar mostra la fatica del crescere e ciò che resta e ciò che ci abbandona mentre, in vista del'adolescenza, lasciamo la via dell'infanzia. Ma mai del tutto. Il quartiere generale delle vostre emozioni, però, funzionerà assai meglio del mio. (7)

Facce dipinte, parrucche, abiti succinti e tacchi alti ai lati di una strada di città. In sottofondo, le sirene della polizia e il brusio dei guidatori, fermi a un semaforo accanto a un mercato di corpi umani. Una macchina si ferma e carica a bordo una di quelle anime in vendita. A fare inversione di marcia, a dire salta su, un uomo che ha una moglie che ama, un lavoro in banca, un segreto che ha promesso di portarsi nella tomba. Boulevard, ambientato lungo i viali malfamati e negli albergerghi a ore, parla di un sessantenne che per una volta osa essere sé stesso. Ma vive un'età in cui, purtroppo, l'amore vero pensa di non meritarselo ed è tardi, ormai, per uscire allo scoperto. Nolan si è fermato, sì: ha rimesso la prima ed è partito: a bordo, un ragazzo che si prostituisce per campare e che, quella notte, ha incrociato un uomo più grande che si è messo in testa la pazza idea di cambiargli la vita. Il dramma indie di Dito Montiel è dalla strada che parte, ma l'immagine di quel nonno dissoluto che paga la compagnia di un ventenne disperato non ha nulla di degradante. Merito di una scrittura delicatissima, che racconta uno strano amore mai consumato, e degli occhi buoni, compassionevoli, di un protagonista che comunica umanità a ogni sguardo. Se la sceneggiatura affronta con grande tatto un tema spinoso, è in Robin Williams – che va oltre i dettami dei copioni, con l'espressione affranta che nessuno può descriverti e un ultimo sorriso rubato alla vita – che questo Boulevard trova la sua luce e la sua pace. Straordinario, dopo una serie di prove minori che avevano disegnato nèi nella sua carriera costellata di successi, nel personaggio di Nolan – omosessuale alla riscoperta del coraggio – trova modi nuovi per dare voce alla sua gentilezza naturale e a alla potenza di un'espressività di cui ogni ruga diventa emozione aggiunta. Seduto al suo fianco, un bravissimo – e sconosciuto - Roberto Aguire: un terzo dei suoi anni; il volto del ragazzino che a diciassette anni magari si negò; la scusa di una seconda gioventù. Si indaga quello che loro dicono e sentono, non quello che fanno o non fanno, e il risultato – lieve e significativo – confluisce verso un epilogo meno amaro di quel che sembrerebbe. Boulevard è l'ultimo film prima di andare via. Una performance così bella, di una tenerezza così disarmante, che rende vivo il ricordo del buon Robin e commovente il suo congedo. (7)

Alexander ha sette settimane ed è il figlio di una coppia che si ama molto. Crescendo, nei temi parlerebbe di un papà poliziotto e di una mamma bellissima. Sofus ha sette settimane anche lui, ma è nato in un covo di tossici: giace sul pavimento di un bagno, sporco dalla testa ai piedi, con nessuno che si cura di lui. Il primo muore tragicamente, quando il secondo – abbandonato a sé stesso – è vivo ma nella casa sbagliata. Per curare il dolore di una moglie inconsolabile, per dare un nuovo destino a quel figlio di nessuno, Andreas scambia i due neonati: porta l'estraneo sotto il suo tetto, mentre lascia che il corpicino che ha il suo stesso DNA venga trovato, al mattino, dai due eroinomani. Troppo intontiti per accorgersi dello scambio, troppo spaventati per chiedere aiuto. Second Chance, grande ritorno di una Bier che si era persa all'inseguimento vano di Hollywood e che si ritrova, adesso, nelle atmosfere cupe della Danimarca da cui era stato male mortale allontanarsi, è tra i film più duri e strazianti visti quest'anno. Perché la vicenda di uno scambio di culla può essere stata affrontata altrove, ma nessuno – con questa onestà senza fronzoli, coi ritmi da noir e le svolte da tragedia greca – vi ha mostrato, e forse per fortuna, gli stessi corpi minuscoli sballottati da forze grandissime, la paternità all'estremo. Susanne Bier, questa volta, non fa flop. A immagini sconvolgenti, perché ai bambini non andrebbe torto neanche un capello, aggiungete un colpo di scena particolarmente crudele e un protagonista magistrale. I dubbi etici e i nervi a fior di pelle perciò, tutt'uno con gli occhi arrossati e la coscienza a terra. Il risultato è un dramma che pesa sull'anima e sullo stomaco, ma che andrà affrontato nei giorni in cui sarete padroni di voi, e che per le unghie nella carne e la bile che sale e scende – cose brutte, soprattutto, ma andatelo a dire ai ricordi intensi che lasciano – non si cancella con un sospiro di sollievo. Ma il male perpetrato e il bene mancato, le bugie impossibili e il marcio, alla fine saranno niente se, nella corsia di un supermercato, il candore di un bambino combatterà lo sporco. I pugni in pancia e poi una specie di carezza, in un thriller su morti bianche che più nere non si può. (7,5)

C'era tanta curiosità per Un disastro di ragazza e da parte mia anche un po' di pregiudizio. E' l'ultimo film, infatti, di Judd Apatow che di bello, grossomodo, ha fatto solo 40 anni vergine: per il resto, i suoi quarantenni in crisi e i genitori improvvisati, non so voi, mi hanno sempre messo addosso tristezza infinita. Si rideva con loro o si rideva di loro? Patetico è divertente? Il suo nuovo lavoro – campione di incassi in America – è un film dei suoi, lunghissimo e misteriosamente approvato dalla critica ufficiale, che comunque mi sono goduto più del solito, pur trovandolo classico e mai controcorrente. La storia di Amy, trentenne trasandata e paffuta, è quella di una giovane donna che, seguendo l'esempio paterno, si è detta allergica alle relazioni serie. Fa sesso, beve, fuma, spezza cuori: irriverente, il suo comportamento, perché priorità degli uomini, in una visione bigotta di amore e comicità che pensavo sinceramente passata di moda? L'audacia non è di casa ma, in due ore che volano, un paio di risate, molti nonsense e grandi partecipazioni che valgono, per me, il prezzo del biglietto. Abituati ai disamori di You're the worst, la condotta selvaggia della protagonista, brava anche in sequenze semiserie, non sorprende: la televisione e questo nuovo femminismo vanno d'accordo da anni. Più che in Un disastro di ragazza, addirittura, che pur seguendosi senza noie e entusiasmi, procede verso un epilogo – e un cambiamento di rotta – assai tradizionale. La Bridget Jones di oggi osa, sì, ma nella seconda parte troverà il suo Darcy: premuroso medico sportivo che le chiede una relazione esclusiva. Come sarà il suo lieto fine? Con promesse di originalità e uno svolgimento, al contrario, da manuale, Apatow dirige una commedia romantica in cui la Schumer si mostra attrice esplosiva anche se non autrice memorabile. (6,5)

Un dottore scompare nel nulla, mentre fuori arriva il Natale. Un collega indaga tra le mura di quell'ospedale psichiatrico e voci di corridoio lo indirizzano verso Michael, giovane paziente per cui il mistero è un gioco e la verità un'invenzione. In un lungo faccia a faccia, parlerà di abusi, scandali e elefanti. Elephant Song è un raffinato thriller, un dramma psicologico, uno di quei film che quando li finisci spegni tutto e dici boh. Ritmi giusti, teatrali, possibili solo se, come in questo caso, la regia non si limita a fotografare ciò che ha davanti e il cast riesce a reggere l'intensità di estenuanti scontri e repentini cambi di registro. Tra richiami vaghi a uno Shutter Island da camera e alla serie Hannibal, con il transfert freudiano e un omoerotismo sottintenso, intriga continuamente ma ti lascia, in quel finale tragico e meditato, con un pugno di mosche in mano: c'era il fumo, ma non l'arrosto. Del giallo le accattivanti premesse ma non i colpi di scena ad effetto, e se funziona è per la scrittura minuziosa – dai dialoghi indagatori, ma poco originali – e per il suo protagonista. Motivo, essenzialmente, per cui l'ho recuperato. Il prodigioso Xavier Dolan – autore di Mommy, il film più bello visto quest'anno – in un ruolo arduo. Passato questa volta davanti alla macchina da presa, recita in un film non suo: lui che, quando è interprete dei suoi lungometraggi, autoreferenziale e presuntuoso, non mi piace, sapete? Qui, bravissimo e esagerato, con le smorfie e le provocazioni, monopolizza prevedibilmente le attenzioni. L'enfant prodige che fa la parte enfant terrible, dunque, eccede e diverte, ma purtroppo Elephant Song vive solo in virtù delle sue improvvisate da mattatore. E così invade con il suo far cinema, potentissimo, il film di un altro, debole di per sé. (6)

Ragazza scampata all'apocalisse scopre di non essere sola. Z for Zachariah – ultimo esemplare dello sci-fi intimista che mi piace, con i ritmi lenti e l'aria indipendente – sulla carta era promettente. Metteteci tre bravi attori, poi, in grado di riempire un'ora e trenta con le loro sole facce e tanta credibilità. Il cast è bene assemblato e non ci si annoia, nonostante una specie di distopia non indagata e la staticità. Ma il film commette lo stesso errore di Maze Runner, e in quello – lungometraggio per ragazzi – la totale mancanza di tensione sessuale poteva starci. Qui, in un mondo arido ma popolato – e che fortuna – da persone che sono letteralmente la fine del mondo, i personaggi – in particolare quello di John, il più oscuro dei tre – appaiono asessuati. Rilassati, spesso, all'interno di un triangolo che se si complica non è per via di pulsioni primitive. Ejiofor non ha presubibilmente un solo pensiero impuro nei riguardi della sua coinquilina: una Robbie di certo più dimessa che nell'ultimo Scorsese, ma comunque splendida. Nella realtà, in casi così estremi, cosa sarebbe accaduto? Brutto dirlo, ma brutto è l'uomo, che la necessità rende bestia. Per dire: anche Chris Pine, bello com'è, con una botta in testa, si sarebbe beccato una botta. Qual è il punto, insomma: mostrare che nell'uomo c'è civiltà, che è giusto avere fiducia nel prossimo? O forse, come si intuisce dalla sinossi del romanzo, la Robbie doveva essere poco più che una bambina, il suo collega invece un uomo fatto e finito, e dunque la differenza d'età – il mostro della pedofilia – quietava ogni possibile pulsione? Margot è una sexy venticinquenne, non un'adolescente acerba; Chris, invece, un adone con cui si entrerebbe subito in contrasto; Chiwetel – il più capace, ma con un personaggio pieno di ma – appare perciò mosso da atteggiamenti irrealistici. Quando il realismo, nella rappresentazione essenziale, doveva invece essere di casa. Un film che va a finire come già sai, ma di cui non convince il modo di arrivare all'inevitabile epilogo. Il The Last Man On Earth in versione Sundance non serve: allora, meglio riderci su. (5)

lunedì 21 settembre 2015

Recensione: Florence Gordon, di Brian Morton

"E' semplicemente fantasticoEssere insultata da Florence Gordon durante il nostro primo incontro. Mi sembra di essere stata promossa in serie A."

Titolo: Florence Gordon
Autore: Brian Morton
Editore: Sonzogno
Numero di pagine: 317
Prezzo: € 17,50
Sinossi: Florence Gordon ha settantacinque anni e vive a Manhattan. Femminista ebrea divorziata, scrittrice scorbutica, attivista testarda e orgogliosa, detesta la maggior parte delle cose che la gente trova piacevoli e ama mettere gli altri in difficoltà. Mentre è alle prese con la sua settima fatica, un libro di memorie, un articolo del "New York Times" la definisce "patrimonio nazionale", catapultandola sotto le luci della ribalta e obbligandola a superare quel filo spinato che aveva eretto intorno a sé. La situazione precipita quando i suoi "cari" si trasferiscono da Seattle a New York: il figlio Daniel (che ha snobbato le orme letterarie dei genitori per diventare poliziotto), la nuora Janine (psicologa, pronta ad avere una relazione con il suo capo) e la nipote Emily (che sta cercando di capire cosa fare di una problematica storia d'amore). Tra i quattro, giorno dopo giorno, si intreccia una commedia irresistibile, all'insegna di una crudele sincerità ma anche di una sorprendente complicità emotiva. L'anziana signora, i cui corrosivi commenti sono una sorta di "versione di Barney" al femminile, non risparmia niente e nessuno. E forse proprio per questo i personaggi che la circondano (e i lettori di questo libro) finiranno per affezionarsi a lei e non poter più fare a meno della sua voce.
                                                    La recensione
In un mondo in cui gli antipatici sono i nuovi simpatici e gli introversi i nuovi estroversi, i misantropi convinti – allergici alle pubbliche manifestazioni d'affetto, chiusi a riccio, pessimisti e sfiduciati – vanno ormai di moda. L'altro giorno, in centro, ho visto un ragazzino con la faccia della felicità, le guance rosse e il sorriso tutto denti, con una T-Shirt con su scritto: I Hate Everyone. Io che, in certi giorni, nel dubbio, odio tutto e tutti davvero, usando la scusa della timidezza cronica che mi rende silenzioso quando la compagnia non è di mio gradimento e rispostacce come armi a doppio taglio quando nessuno mai se le aspetterebbe dal tipo con gli occhiali che non ha nulla da dire, per essere alternativo dovrò mica imparare a socializzare? Gli scorbutici di cui ho letto quest'anno nei romanzi – con il mondo contro per posizione presa, ma diretti verso una parziale redenzione finale – si convertivano alla gentilezza come Scrooge davanti al Fantasma del Natale passato. Perché, dopo disavventure e piccoli miracoli, con la saggezza della vecchiaia – e la paura della morte, e una lista di cose da fare prima di tirare la cuoia – scoprivano essenzialmente che c'era ancora del buono, che la vita è bella finché dura, che non è mai troppo tardi. C'è poi Florence Gordon, eroina eponima del primo romanzo di Brian Morton giunto in Italia, che sa dimostrarsi coerente, puntuale e divertentissima. Ha il nome di una delle città più suggestive al mondo e di una cantante che sembra una splendida sirena degli abissi. Ha professato con caparbia il femminismo e la libertà negli anni della rivoluzione sessuale e, verso gli ottanta, rimane una vecchietta arzilla e indipentente, dotata di silhouette snella, passo svelto e imprevedibili risorse. Arrivata al punto di una vita intensa e di una carriera gloriosa in cui può permettersi la stesura di un memoir ricco e un po' autoreferenziale, scopre grazie a una recensione entusiastica – non la mia, perché Florence si accontenterebbe solo del Times – di essere patrimonio dell'umanità. Mentre si prepara all'arrivo di un'insperata notorietà (non è mai troppo tardi), il corpo inizia a dare i primi segni di fragilità (ma la vita è bella finché dura) e le si stringe attorno quel che rimane di una famiglia che ha voluto tenere a distanza (c'è ancora del buono). Se il copione sembra classico, in realtà Florence Gordon sorprende: perché, come dicevo, nessuno diventa d'un tratto dolce come lo zucchero e perché, dall'alto del suo adorabile egocentrismo, la protagonista – che ha avuto un libro con il suo nome, ma in cui c'è posto anche per gli altri – lascia parlare e sparlare anche chi le è, suo malgrado, vicino. Nessuna metropoli è abbastanza grande, nessun telefono è abbastanza irraggiungibile, se i Gordon decidono di riunirsi. Chi sono i soggetti di questa foto di famiglia a cui la matriarca non può sottrarsi? 
Daniel, il figlio poliziotto che, per ribellismo, non ha voluto seguire le orme dei genitori; Janine, la nuora rispettosa e adorante che ha una cotta per il suo capo; Emily, la nipote brillante e sfacciata che, in famiglia, è l'unica che riesca a tenere testa a una nonna anaffettiva che la tratta come un factotum. Se fosse un film, sarebbe una commedia di Woody Allen. Elegante, verbosa, con un cast all stars. Già immagino la locandina, al cinema, con generazioni a confronto: i due attori di mezza età bollati, anni prima, come promettenti ma che non hanno mai fatto, poi, il fatidico botto; la giovane stella in ascesa, amatissima dagli adolescenti, che qui dimostrerebbe di possedere notevole temperamento; la grande diva senza età, infine, che monopolizza le attenzioni e colleziona candidature. Florence è una Meryl Streep con qualche anno in più sulle spalle: una carriera straordinaria, l'essere sempre all'altezza, la nascita di una vaga antipatia presso i più – io, ovviamente, costituisco felicemente una categoria a parte quando si parla per congetture, ovvio, della più grande attrice vivente e della più grande rompipalle di carta e inchiostro – perché è come il prezzemolo e nessuno regge mai il paragone. Se fosse un film, non apparterrebbe però al mio genere preferito. Anche se amo il cinema che s'ispira al grande teatro, pieno di dialoghi ritmati e battute a raffica. Ma di solito sono abituato a discorsi piccoli che diventano grandi. Questa volta, invece, discorsi grandi diventano piccoli. Si passa dai dialoghi sopra i massimi sistemi all'intimità e non il contrario. Il romanzo pesa e non pesa, dunque, e sfiora e non sfiora, anche per coprotagonisti a noi sconosciuti: New York e i suoi newyorkesi di fretta, fissi al telefono. Se senilità e famiglia sono temi in rilievo, la Grande Mela costituisce il sottotesto – e Florence sarebbe lieta della mia precisazione. La nostra distanza dalla cima dell'Empire State Building o dall'ombra fantasma delle Torri, l'estraneità dinanzi a taluni argomenti di discussione – starà facendo bene Obama, e quanto è aumentato il prezzo della sanità? - rende parzialmente inconoscibile quella realtà, vista non con gli occhi meravigliati del turista passeggero. Ed è come se qualcosa si perdesse nella traduzione – non dico in quella ineccepibile di Parolini e Curtoni, sia chiaro – e nel corso del viaggio. L'immagine conclusiva, da fitta al cuore, così amara e necessaria, ha un'intensità smorzata per la scelta consapevole e onesta del freddo rigore di Florence. Fino all'ultimo, lupo solitario. 
Una risposta sarcastica potrà dare mille soddisfazioni perciò, ma un cuore caldo penso assicuri più ricordi.
Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: George Gershwin – Rhapsody in Blue (“Manhattan” Soundtrack)

venerdì 18 settembre 2015

Recensione: Hugo e Rose, di Bridget Foley

Mamma, mi racconti il sogno di Hugo che hai fatto?
Perché mi chiedi sempre di Hugo?
Perché quando parli di lui sei bella.

Titolo: Hugo e Rose
Autrice: Bridget Foley
Editore: Edizioni E/O
Numero di pagine: 330
Prezzo: € 18,00
Sinossi: Rose è delusa dalla sua vita pur non avendone motivo: ha una bella famiglia e una deliziosa casa in un bel quartiere. Ma per Rose questa vita ordinaria è messa in ombra dalla sua altra vita, quella che vive ogni notte nei suoi sogni. Da bambina, in seguito a un incidente, ha iniziato a sognare una meravigliosa isola ricca di avventure. Su quest’isola non è mai stata sola: c’è sempre stato Hugo, un ragazzo coraggioso che cresce assieme a lei negli anni fino a diventare il suo eroe. Ma quando Rose incontra casualmente Hugo nella vita vera i suoi sogni e la vita reale cambieranno per sempre. Si trova infatti davanti l’uomo che ha condiviso le sue incredibili avventure in luoghi impossibili, che è cresciuto assieme a lei, ma ambedue sono molto diversi da come si erano immaginati. Il loro incontro casuale dà il via a una cascata di domande, bugie e a una pericolosa ossessione che minaccia di rovesciare il mondo di Rose. Lei vorrà veramente perdere tutto ciò che le è caro per capire lo straordinario rapporto che li unisce?
                                                  La recensione
Mi aspettavo l'inaspettato. Immaginavo sin dall'inizio che Hugo e Rose mi avrebbe infatti sorpreso, mostrandosi – se non subito, comunque dopo un po' – non la banale storia d'amore che alcune sinossi riassumevano e che i lettori d'oltreoceano, vagamente amareggiati, spesso reclamavano. E rivelandosi, a conti fatti, speciale, coraggioso, originale: a modo suo. Il romanzo d'esordio di Bridget Foley, ai primi passi appena ma bravissima, sfiora corde semplici e ha un suono familiare, come se fosse un lento già ballato. O così si pensa. La storia che passa dalle parti di Domeniche da Tiffany e Se tu mi vedessi ora – la prima a opera di un Patterson che quel giorno si sentiva romantico, la seconda dell'amatissima Cecilia Ahern: entrambe con protagoniste femminili innamorate di amici immaginari che, si scoprirà a lungo andare, così immaginari non sono – non è quel che sembra. A conferma di un'impressione iniziale sorta per determinate aspettative legate a una determinata casa editrice: coloro che pubblicano, tra gli altri, il fenomeno Elena Ferrante e che mai sono soliti darsi a frivolezze, credevano in questa fiaba moderna e un giorno, per email, mi hanno chiesto e tu ci credi?. Poche pagine appena e sì, ci credevo di già. Hugo e Rose passeggiava su spiagge incantate e tra generi confinanti, il rosa e il fantastico; era diverso, ma volevo capire diverso in che senso. L'ho messo da parte per pochi giorni – per una causa, e un romanzo, di forza maggiore – e prima del momentaneo standby di cui mi dispiacevo infinitamente avevo postato una foto su Facebook, con il romanzo in anteprima in bella mostra e, accanto, quel che rimaneva di un bouquet disfatto e messo, come andava andava, in un vaso. Perché nei giorni direttamente precedenti i miei genitori avevano festeggiato le Nozze d'argento e mia mamma ci teneva ad avere una foto, un'altra, delle sue rose bianche; perché con un libro delicato – che sa renderti ispirato e emotivo senza eccessi – andava bene l'ombra di quei petali delicati che adesso, disfatto del tutto il mazzo, seccano tra queste pagine. Chissà se sono capitati nel punto in cui i due protagonisti stanno per incontrarsi, o chissà se diventano gialli, quasi di carta pesta, nel capitolo – più o meno a metà – in cui devono scegliere, combattuti, tra realtà e fuga. Chiariamoci, non che la trama menta. Abbiamo sì una Rose casalinga disperata dall'immaginazione iperattiva e sì un incontro surreale: il bambino che sogna da tutta la vita – diventato adulto insieme a lei – esiste anche a occhi aperti. Ma Rose, mamma a tempo pieno e moglie insoddisfatta, è fatta di carne (stando a lei, troppa) e non di nebulosi cliché. Il marito non la tradisce con la migliore amica: Josh – chirurgo impegnato, ma uomo di gran cuore – cerca ancora i suoi fianchi a letto e, ogni tanto, cucina per tutti i suoi famosi fagiolini con erbe aromatiche; se Rose è a un bivio, infelice, è perché i suoi bambini fanno più cacca e capricci che nei film per famiglie e i chili di troppo, causati da una vita sedentaria e dolci caldi, le hanno formato un morbido salvagente intorno al girovita di cui si vergogna profondamente. Come mai si è lasciata andare, e dov'è – nella vita reale – l'eroina snella e impavida dei suoi sogni? Da trent'anni si addormenta pensando al suo Hugo – compagno di mille avventure – e alla dettagliata geografia di un mondo fantastico: sabbia rosa, castelli irraggiungibili, acque limpide e belve che si uccidono con spade forgiate con fili d'erba. 
Bridget Foley descrive il magico tran tran di una famiglia comune di cui avremmo potuto leggere, magari, in un romanzo borghese vecchio stile con straordinaria fantasia. Due coniugi intimi e fedeli l'un l'altro che non hanno troppo a cui pensare – scuola pubblica o privata per i bambini, quand'è che Penny smetterà di usare il vasino, sarà giusto acquistare la bici della discordia per il compleanno del primogenito – che, sin dalla prima notte insieme, hanno una persona a dividerli. Josh, il personaggio maschile più affabile incontrato quest'anno, vive un bizzarro ménage sentimentale: condivide il letto con sua moglie, che ama perdutamente anche con le smagliature e le pappe dei neonati tra i capelli, e i suoi sogni segreti. Si può essere davvero gelosi di un semplice frutto dell'inconscio? Finché Hugo non si presenta a cena su invito – anche lui studiato per essere contro i luoghi comuni, appesantito, sfiduciato e impiegato in un poco nobile fast food – e coi suoi vividi disegni e tutto un trascorso insieme non diventa importante per Rose. Prima di andare a dormire e al risveglio. Non dico oltre, croce sul cuore. Ma – cosa che ha destabilizzato i più, me neanche un po' – arriva il momento in cui da uno stile fiabesco, rassicurante, si passa a una scrittura cupa e angosciosa. In trecento pagine, Hugo e Rose sa essere tenerissimo e inquietantissimo senza bisogno di una parola di troppo. Quello, forse, l'unico nèo: un passaggio brusco da un estremo all'altro. I sogni sono fatti di materiale invisibile, fuggevole: sono imprevedibili, come la Foley. All'improvviso, diventano incubi e non si prendono la briga di avvertire. La vita di coppia si carica di complicazioni, mentre i sogni hanno strascichi percepibili anche quando si è vigili e attenti. 
Nel mondo di Morfeo e nelle cucine di angeli del focolare spazientiti, ma non per questo madri cattive, si compie un salto stupefacente. Da Cecelia Ahern a Stephen King, passando su una voragine in cui pulsano le piccole faccende quotidiane, le grandi frustrazioni, i mostri del mare aperto. Si giungerà dall'altra parte sani e salvi – anche se qualche segno del folle volo resta, sottoforma di livido – ma niente sarà più lo stesso. Il fantasy tradizionale con belve da fumetto, la narrativa d'autore con donne medie allo specchio, il giallo di un misterioso principe azzurro (medio anche lui), in una narrazione semplice e complessa insieme dove il sogno è metafora, diretta conseguenza, meditata elaborazione. Chi è ospite nel sogno dell'altro, infatti? Chi l'architetto, chi il costruttore, tra lui e lei? Ancora prima dei fiori secchi, ancora prima di un finale visionario e giustissimo, quando comunque era già arrivato il tempo di consigliarlo, i protagonisti mi aveva fatto pensare a The Babadook, l'horror australiano – miracolo che sia stato distribuito anche da noi, e miracolo un po' anche quel film per me grande – in cui una mamma in lutto proteggeva il suo bambino pestifero dal mostro nell'armadio. Hugo e Rose è il Babadook innamorato. Lì c'era l'uomo nero, qui un eterno Peter Pan. Ma sono entrambi racconti che travalicano i generi d'appartenenza e prendendo due opposti, da un lato l'odio incarnato e dall'altro l'amore personificato, ci si accorge pian piano di come parlino in maniera nuova, personale, di vuoti, mancanze e però
Però, solo successivamente, si potrà dire se vinceranno responsabilità o amour fou. 
Però, in assenza di polvere fatata, si potrà provare a volare su una bici, inforcata dopo secoli di paure.
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Tom Rosenthal - It's Ok

mercoledì 16 settembre 2015

Blogtour - Recensione: Amedeo je t'aime, di Francesca Diotallevi

Terza tappa del blogtour dedicato al nuovo romanzo di Francesca Diotallevi – da ieri in libreria – con la risposta alla domanda più frequente. Com'è? Scopriamolo insieme, ringraziando ancora una volta Francesca, per la sempre ottima compagnia e la disponibilità, e i responsabili di questa nuova collana Mondadori. In fondo al post trovate un riassunto con le tappe precedenti e future – pronti per l'ultima, dopodomani, in cui potrete provare a vincere una copia del libro? - e per qualsiasi cosa, ad esempio quelle che per la fretta di stamattina magari mancano, controllate sui blog in cui Amedeo, je t'aime è già approdato nei giorni scorsi.
Non sono così coraggiosa. Non lo sono mai stata, nemmeno quando danzavo sull'abisso tentando di sfiorare le stelle.

Titolo: Amedeo, je t'aime
Autrice: Francesca Diotallevi
Editore: Mondadori “ElectaStorie”
Numero di pagine: 247
Prezzo: € 18,90
Sinossi: Parigi, 1917. Jeanne Hébuterne ha solo diciannove anni quando, a una festa di Carnevale, incontra il pittore Amedeo Modigliani. SoprannominatoMaudit, maledetto, Modigliani è conosciuto nel quartiere di Montparnasse per lo stile di vita dissoluto e il carattere impetuoso, oltre che per i malinconici ritratti dagli occhi privi di pupille che nessuno vuole comprare. Lei, timida aspirante pittrice con le ali tarpate da una rigida famiglia cattolica, non può fare a meno di sentirsi finalmente attratta da quest'uomo bello e povero, che sembra vivere di sogni apparentemente irrealizzabili e affoga dolori e frustrazioni nell'alcol e nella droga. Per lui lascia ogni cosa, mettendo da parte le proprie aspirazioni, e si trasforma in una compagna fedele e devota, pronta a seguirlo ovunque, come un'ombra, anche oltre la soglia del nulla. Struggente e tormentata, la loro storia scardinerà ogni convenzione, indifferente a regole e tabù, lasciandosi guidare dall'unica legge a cui non ci si può sottrarre: quella del cuore. Amore e morte si mescolano, in questo romanzo, alla passione che anima il cuore di un artista, al desiderio di riuscire ad afferrare una scintilla di infinito.
                                                     La recensione
Sai, non è per forza un male. C'era un artista che non li disegnava affatto, pensa te. Nel momento di dipingerli, con i colori ad olio tratteggiava due mandorle vagamente oblique, così, e le riempiva con un solo tocco del pennello. Sono lo specchio dell'anima, qualcosa di troppo privato, di troppo nascosto, per essere catturata su una tela sessanta per novanta. Ci starebbere stretta, no?, l'anima in un foglio”, e così dicendo mi faceva un occhiolino, come se quella storia la conoscessimo solo noi, e se ne tornava al suo giornale spiegazzato, al di là della cattedra. Le parole che un professore di Arte delle scuole medie rivolgeva a un ragazzino bravo e insicuro che – quando si spiegava, a lezione, come realizzare un ritratto – disegnava volti di donna, soprattutto, e li strappava in due, in cento parti. Avevano sempre un frangia lunga, una ciocca strategica per mascherare lo strabismo di venere, un'ombra per nascondere parte di uno sguardo fuori dall'asse. Occhi disuguali che mi tormentavano: uno grande e l'altro piccolo, uno socchiuso e l'altro spalancato e, quando erano finalmente a posto, erano le pupille a tradirli. Litigiose e ribelli, impercettibilmente diverse. Gli occhi erano un dettaglio arduo da mettere a punto – anche se chi disegna più e meglio di me sa bene che in realtà non c'è cosa più difficile, da fare, di un paio di mani; ma quel giorno ci davamo ai primi piani, quindi meglio non crucciarsi d'altro – e, ogni volta, mi sfuggivano. Perché erano di persone immaginarie, che non conoscevo, e di cui dunque non sapevo come fosse fatto il profondo. Quella, almeno, la scusa, nel momento in cui seppi dell'esistenza del pittore – toscano di natali, ma emigrato a Parigi nella stagione delle Avanguardie – che riempiva le pupille delle sue muse di nero densissimo. Erano gli anni in cui guardavo e riguardavo Ethan Hawke ritrarre una Paltrow senza veli in Paradiso Perduto, il mio Dickens postmoderno preferito, quelli in cui – per la prima volta – mi avvicinai, affascinato, ai colli da cigno e agli occhi vuoti di un uomo chiamato Amedeo Modigliani. Per gli amici e i nemici, Modì: è così, infatti, che si legge l'aggettivo francese maudit, maledetto. Per Jeanne Hébuterne, la giovane artista che visse e morì in nome suo, sarà invece l'amore di una vita. Amedeo, je t'aime – titolo caloroso, dichiarazione spassionata – parla di arte, una Parigi negli anni della guerra e della pace, un rapporto di teste, sessi e viscere che ancora sconvolge tanto che è estremo. Francesca Diotallevi, l'autrice che a tutti ho consigliato almeno in un'occasione, dopo un esordio che veramente non si scorda, ritorna – attesissima – con una storia nuova.
Ma se qualcuno vi dicesse di volere riscrivere Romeo e Giulietta, o di volervi raccontare da capo i quattro atti de La Bohème? Tanto, infatti, a me era familiare la tragedia di un pittore e della sua musa fedele. Ho sentito parlare di loro al corso di Storia dell'Arte Contemporanea – di loro, al plurale, perché se parli di lui non possono non spiegarti chi sia lei, che è ovunque – e avevo potuto dargli un volto in I colori dell'anima, biopic ben confezionato, ma incentrato soprattutto sulla rivalita con Picasso, in cui Modigliani era stato un eccellente Andy Garcia. Il melodramma di Jeanne e Amedeo per me era il più toccante in assoluto, essendo l'unico che – quasi cent'anni fa – si consumò davvero. All'inizio, rimuginando tra me, mi chiedevo cosa potesse darmi una lettura di cui purtroppo conoscevo inizio e fine. Soprattutto, come essere all'altezza di un esordio perfetto – passato in sordina, rispetto a un secondo romanzo che già adesso è maggiormente pubblicizzato, con la fiducia di un nuovo editore e il sostegno di chi ci credeva ancora prima di leggerlo – che solo io e Francesca, che l'ha scritto, sappiamo quanto ho amato? E invece. Le stanze buie e Amedeo, je t'aime – il primo un lungo racconto gotico narrato da un lui; il secondo breve rievocazione di un amore da parte della custode di un gigante fragile – sono storie diverse, imparagonabili, anche se sono umano – e pazzo di Vittorio Fubini e Lucilla Flores – e i pensieri, come i confronti, corrono e fanno il loro giro. In realtà diverse non sono, non troppo, se a raccontartele è una giovane penna che hai lasciato bravissima e hai orgogliosamente ritrovato bravissima. Con Francesca, due anni fa, è nata un'amicizia a distanza, che mai ha minacciato di offuscare la lucidità del mio giudizio: semplicemente, impossibile che si smentissime; che facesse marcia indietro. 
E sapeste quanto mi fa strano sapere che la stessa persona con cui, in chat, ti è capitato di parlare del più e del meno, come va?, come stai?, sia quella che prende due leggende della pittura e, con credibilità naturale, dà loro voce. Raccontando a modo suo una storia che già pensavi di sapere. Ho pensato di saperla al primo, al quinto, al decimo capitolo, ma non davanti a un epilogo annunciato che, nonostante arrivi previsto in precedenza, come coi cicloni colti a mezz'aria dalle immagini satellitari, sa misteriosamente commuovere. Novantacinque anni dopo di loro. E svariate lezioni universitarie, un lungometraggio e la mia tipica curiosità dopo. Con Francesca Diotallevi ci scambiate due parole sui social, magari la incrociate mentre lascia un commento qui sul blog; ecco quello che rapisce nella capacità che ha una ragazza di appena trent'anni di inviarti una faccina sorridente, mentre nel frattempo, su un foglio di Word aperto sul suo portatile, veste – senza che le stiano larghi o stretti, senza che su di lei appaiano polverosi – abiti d'altre epoche. L'autrice non è come l'artista che ci descrive. Con gli scenari volutamente piatti e, in primo piano, volti dai tratti deformati – i colli lunghi, i nasi appuntiti, i vestiti poco dettagliati. Francesca dipinge, ma con le parole, e stende sfondi vivissimi, tridimensionali; aggiunge dettagli su dettagli a personaggi modulati, complessi e amabili quando - gelosi, testardi, incerti - furono, al contrario, esseri umani difficili. Nelle loro mansarde spoglie: luoghi frequentati da topi e bohèmien, non adatti ad allevare una figlia. Nei nodi e nelle pieghe. Nelle rare giornate in cui il bene reciproco, poi, sciolse i grovigli. La mia memoria fotografica mi permetterà di portare con me un'immagine, scattata con un battito di ciglia. Il dettaglio di un bottiglia di brandy vuota. Sul fondo, una sigaretta schiacciata tra pollice e indice, lasciata lì ad affogare. Nell'imboccatura, a dondolare, un pennello ancora sporco. In secondo piano, invece, fuori fuoco, una porta che si apre e si chiude. Una porta che sbatte sulla scia di un mito. Da qualche parte, c'è una donna che muta guarda, paziente sopporta e fedele aspetta. Modì, indossando la sua sciarpa rossa e il suo cappello di feltro, il mare dentro, ha lasciato dietro di sé odore di tempere, arance amare e cocci di cuori. Lui va. E chi resta resta. In Jeanne, un po' la sindrome della moglie del soldato. Gli artisti delle Avanguardie, infatti, prendevano in prestito il nome dal reparto armato che precedeva, in campo nemico, il resto dell'esercito: erano soldati in esplorazione, loro, e ci sono soldati che non tornano, a volte, e compagne pietrificata davanti a una finestra. I dipinti di Amedeo e il romanzo di Francesca hanno gli stessi identici occhi. Occhi stretti e umidi. Senza segreti, quando si parla di Jeanne. 
L'unica creatura dallo sguardo azzurro mare, in un mondo imperscrutabile di orbite insonni.
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Sia – My Love


11/9 TAPPA #1 ‹‹ Reading is believing ›› Presentazione romanzo
14/9 TAPPA #2 ‹‹ Un libro per amico ›› Incipit + estratto
16/9 TAPPA #3 ‹‹ Diario di una dipendenza ›› Recensione
18/9 TAPPA #4 ‹‹ Il libro che pulsa ›› Intervista + giveaway

lunedì 14 settembre 2015

Mr. Ciak: Rudderless, Fantastic 4, Dark Places, Aloha, Tutto può accadere a Broadway, Return to Sender

Rudderless parte schiacciando il solito tasto. Quello, a orecchio, dolente: la morte di un figlio, la voglia di disperarsi. Eppure la vicenda che ti racconta non è di quelle che che sperano di condurti sull'orlo del pianto. La storia di questo padre straziato dalla perdita – un figlio ucciso in una sparatoria in un campus universitario – si perde, qualche volta, in una bottiglia di birra scura, ma per fortuna si ritrova nella musica. Basta beccare l'accordo o trovare il coraggio di mettere il naso in una stanza che spaventa. Sam – che ha abbandonato tutto, per vivere da spiantato su una barca: per fuggire – un giorno trova i dischi che suo figlio ha inciso prima dell'inizio della fine. Così, in sua memoria, li fa suoi e canta qualche canzone per locali: i testi di Josh sono il mezzo più efficace per essergli vicino. Quel lupo di mare di mezza età, perennemente alticcio e su di giri, stringe amicizia con un ventunenne che cela la timidezza cronica dietro una parlantina a raffica: con lui e due coetanei sfigatelli forma un improbabile gruppo che fa bella musica. Rudderless racconta l'ascesa di una band e il lento risalire la china; dramma – anche un po' commedia però – in musica, sul perdono e il correlato perdonarsi. A sorprendere dell'esordio di William H. Macy – ma sì, il Frank di Shameless – è la leggerezza di cui, nonostante un fatto bruttissimo, è padrone e la presenza di pezzi già riascoltati, personalmente curati da un cast che non ti aspetti. Un magnifico Billy Crudup regala così una prova vocalmente ineccepibile e emotivamente ricca: il suo papà a pezzi un po' clochard è uno di quelli che quando si sbronzano son patetici ma allegri. Anton Yelchin, come il prezzemolo ma in gamba, intonato, suona con convinzione e non si riconosce quasi con il viso emaciato e i capelloni ricci. E l'amicizia strana tra un padre senza figlio e un figlio senza padre, un vecchio e un giovane, ha effetti ora tragicomici e ora miracolosi, senza retorica alcuna – tra i due, inoltre, la fidanzata a lutto Selena Gomez e la mamma recalcitrante Felicity Hoffman. Oltre a una colonna sonora originale e a un'aria trasandata nelle mie corde (e quando mai il Sundance sbaglia, poi?), c'è una simpatica parte teen – il ragazzo impresentabile che ha il talento ma non la faccia tosta – e un colpo di scena da pelle d'oca. Se non ti commuove all'inizio, Rudderless ti commuove quando meno te lo aspetti, con un'intensa ballad di chiusura che è una benedizione; un pugno forte, ma necessario: delicato. Quando il peggio sembra passato, eccolo che riaffiora – con la sua faccia segreta, con la vergogna – e lo si affronta, con la chitarra in braccio e le spiegazioni nel prossimo ritornello. Rudderless – tra Begin Again e La stanza del figlio –  non è mai una scontata, stonata, canzone triste. Mi ha rubato cuore e mp3. (8)

Io odio il cinecomic. Così, quest'anno, era cominciato un post in cui – tra posizioni finto snob e ricordi – mi ero per metà ricreduto. Non odiavo il fumetto quando era come il Daredevil Netflix, ad esempio. Per il resto sì. Neanche quando il film è amatissimo io riesco ad apprezzarlo; figuratevi quante probabilità ci siano che mi piaccia, invece, il disastro annunciato che neanche gli appassionati salvano. Fantastic 4 – flop clamoroso, rinnegato perfino da chi l'ha diretto e interpretato – a sorpresa non mi è dispiaciuto. Alla sufficienza piena non arriva, e facile sarebbe fare ironia con l'aggettivo fantastico, mai così fuori luogo qui, e con il numero nel titolo che, per magia, va a richiamare il quattro secco della valutazione finale. Prima di vederlo, e viva il pregiudizio, avevo un'idea per un bel commento negativo. Ma poi, pronto al peggio, mi sono mediamente goduto quest'ora e mezza, vista solo per una curiosità di quelle brutte: quando mai di mia spontanea volontà guarderei un prodotto Marvel? Vista a suo tempo la saga originale, che mi aveva diverto e poco più, non mi ha turbato l'idea di un reboot. Il cast, inoltre, vanta alcuni tra gli attori più promettenti della nuova generazione: la rivelazione di Whiplash, la sorella meno impegnata di Rooney Mara, il Billy Elliot cresciuto con Von Trier e Vinterberg, il protagonista del premiato Fruitvale Station. Questa riscrittura in chiave giovanile, per me, parte bene: un cenno a un'infanzia da nerd e a una lunga amicizia, la coesione non messa in gioco da nessun amore, salvare il mondo come fosse un progetto del liceo. Spensierata, la prima ora vede un quinto membro di passaggio – un giovane Dottor Destino non ancora cattivo – e la scoperta di un mondo parallelo. Non ci sono momenti seriosi né la simpatia per forza; New York non sarà nuovamente distrutta. Da qui in poi, la situazione precipita: qualcuno schiaccia "avanti veloce". Un'ellissi narrativa buttata lì, un anno è passato: sviluppi che nessuno ti ha spiegato, uno scontro finale di pochi minuti, un epilogo aperto. Quello c'è di negativo – non la Torcia Umana di colore che tanto ha fatto strepitare (momento ironia: la fiamma l'avrà scurito un po' troppo?), né il mondo alternativo che ricorda preoccupantemente i wallpaper dozzinali del mio portatile: ossia, il sembrare il pilot introduttivo di un telefilm senza un to be continued. (5,5)

Gillian Flynn – dopo il fenomeno Gone Girl – non ci ha messo molto a tornare al cinema. Presta la sua interessante penna al francese Gilles Paquet-Brenner. Dark Places è un poliziesco non particolarmente piaciuto in rete, di cui mi sono concesso direttamente il film, senza prima passare per il romanzo. Come saprà qualche lettore, parla di un caso di cronaca riportato alla luce dopo trent'anni: Libby Day – unica sopravvissuta al massacro di famiglia di cui è stato dichiarato colpevole il fratello maggiore – adesso è una donna che ha bisogno di soldi e pace. Non indaga per sete di giustizia, ma per conto di uno strano club finanziato da appassionati di crimini irrisolti: torna ad aprire la porta al passato, e scopre che forse il mostro in galera aveva avuto un ruolo marginale in quella notte di sangue. Cos'è successo davvero? Nelle zone d'ombra del titolo, una storia tra passato e presente, ambientata in una America rurale, dura e polverosa: le fattorie pignorate, le bettole che attirano i papà alcolizzati, i ragazzini precoci che adorano il Demonio. I paragoni scattano e non sembrano tenere in considerazione lo spirito diverso delle due storie: quella proposta da Fincher, cinica e all'insegna del colpo di scena; questa a cura del modesto regista di La chiave di Sara – capace, anche in quell'occasione, di districarsi con fluidità tra diversi piani temporali – verosimile e lineare. Davanti a una svolta non perevista ma poco incisiva, ho però avuto l'impressione che sin dall'inizio Dark Places fosse una piccola storia; ma il risultato – nonostante le imperfezioni e i limiti – è più che sufficiente. Merito di una confezione classica e di un ritmo lento, che ti lascia apprezzare più il dramma ambientato in quei sonnacchiosi anni ottanta che il giallo contemporaneo. Ottima la scelta dei comprimari – una sexy Chloe Moretz, una Christina Hendricks dimessa, un Nicholas Hoult che ha fatto di meglio altrove – e prevedibilmente in parte la Theron, camaleontica e dello stile androgino, à la Jodie Foster. (7)

Bradley Cooper è un eroe in congedo – traumi di guerra dopo American Sniper? - che arriva alle Hawaii con un gamba dolorante e piani confusi. Riallaccia rapporti con una Rachel McAdams mai scordata; si innamora di un rigido caporale con gli occhi di Emma Stone; finanziato da un esagerato Bill Murray che vuole comprarsi il cielo, fa da paciere tra americani e indigeni. Questo e qualcos'altro, con illustri comparse che non vi sto a elencare e un intreccio a metà tra la commedia sentimentale e la spy story, capita in Aloha, ultimo film del buon Cameron Crowe – nel mio cuore a vita per Quasi Famosi e Vanilla Sky – su cui, in Patria, hanno detto peste e corna. Se ingiustamente, guardate, non saprei: la stampa criticava posizioni politiche che non ho colto e un razzismo di fondo nel descrivere le tribù locali; non la sceneggiatura – disimpegnata, ma estremamente gradevole – e il lavoro dei protagonisti – rilassati e bene amalgamati. Glissando perciò su questi elementi – forse dolenti per gli yankee, ma noi siamo italiani, quindi chissene – resta il fatto che Aloha, film di puro intrattenimento sorretto da un ottimo cast e da più di qualche scena brillante – il dialogo muto tra Cooper e un laconico Krasinski, il ballo a Natale tra la Stone e Murray -, diverte e intrattiene con intelligenza. Dovrebbe sorprenderci la cosa? Direi di no, con un Crowe che ci mancava, i suoi classici personaggi combattuti e dai lavori inconsueti, la profondità e l'acume, gli epiloghi non scontati. Se la surreale parentesi spionistica non si segue con molta convinzione, è anche perché si è impegnati a vedere il protagonista alle prese con due delle donne della mia vita, su uno sfondo esotico che non fa da cornice folkloristica. Per una volta il titolo italiano non sbaglia, in ballo infatti c'è il cielo, ma preferisco quello internazionale, che significa “ciao” e “arrivederci”. L'unico termine che conosco insieme a ohana, direttamente da Lilo & Sitch: “famiglia”. Altra parola che può andare tanto bene, per riassumere questa storia di salvataggi sopra le righe, nidi, sogni di secondo taglio. (7)

Una stella in ascesa racconta a una giornalista l'incarico con una compagnia in cui – suo malgrado – ha seminato zizzania. Quella nuova diva, infatti, un tempo lavorava come squillo in attesa della grande svolta: uno dei suoi amanti – un regista filantropo o puttaniere – aveva finanzato generosamente i suoi sogni e, per pura coincidenza, si era ritrovata a recitare proprio nello spettacolo di quest'ultimo. Ma con una moglie sospettosa, un attore inaffidabile che sa tutti i dettagli del tradimento, uno scrittore pazzo d'amore, lo spettacolo con la bella Isabella – ingenua, nonostante la professione più antica del mondo – sarà stato allestito senza divorzi o, per un crimine d'amore, reputazioni rovinate? Tutto può accadere a Broadway – in inverno da noi – è il ritorno al cinema di Peter Bogdanovich, settantaseienne che – come sapranno i cinefili doc, dunque non troppo io – è un'istituzione quando si parla di commedia. Qui, tutti in un colpo, il Wilson cascamorto, l'Ifans istrione, una Aniston pazza; soprattutto, una Imogen Poots – se sia più bella o simpatica non si sa, con il suo personaggio alla Audrey, di gran classe – da cui portano tutte le strade. Newyorkese con orgoglio, Bogdanovich cita sé stesso, Lubitsch e l'Allen più brillante, in un film dalla comicità sofisticata, in cui una scrittura pimpante, un cast all stars e colori retrò trovano l'approvazione di un pubblico che stravede facilmente per le cose così. Luccicanti, parlatissime, d'altre epoche. Non un attore fuori forma o un momento di silenzio, quando tutti si affidano a un'anziana leggenda e fraintendimenti e battute fulminanti – in cui si parla di sentimenti, show business e dintorni – ti sommergono come un'onda e ti intontiscono di chiacchiere. Ma giusto un po'. (6,5)

L'ultimo Fincher aveva lasciato scoprire ai più il potenziale di una grande attrice. Dopo Gone Girl, si attendevano riconferme dalla Pike; collaborazioni importanti e nuovi progetti, anche se, cronologicamente, si ha la sfortuna di imbattersi prima in Return to sender. Il lavoro direttamente successivo a quello che la portò a un passo così dall'Oscar: scivolone imperdonabile. Perché è un thriller scialbo e inconcludente; perché il personaggio di Miranda – algida, perfetta, impenetrabile – è la fotocopia in bianco e nero di Amy. Un anno dopo, con un'altra vendetta e un'altra regina di ghiaccio? Scelta sbagliata e ingiustificata, dato uno script inconsistente e l'idea vecchia. La storia della perfetta infermiera che, in pieno giorno, viene stuprata da un fattorino (no, non lo mandava Zalando - "urla di piacere") e medita punizioni poco esemplari, infatti, regala un'unica sorpresa: la vendetta ci sarà, ma rimandata di un'ora. Se la violenza manca, si nega all'appello anche una degna caratterizzazione dei personaggi – incomprensibili – e il minimo sindacabile di coinvolgimento. Lei ha la vecchia maschera, Nick Nolte è il papà burbero e premuroso che sempre gli riesce; nota positiva, Shiloh Fernandez: giovane antagonista che intriga. Il resto: il trauma e la nascita di disturbi ossessivi, le cure miracolose della legge del taglione, innumerevoli cambi d'abito tollarabili unicamente per il fisico statuario della Pike. Bellissima sempre, ma qui tornata alla leziosità e al rigore di quando nessuno la conosceva. Rosamunde mia, perché? (4)

venerdì 11 settembre 2015

Dear Old Mr. Ciak: Perfect Sense, Shame, Vincere, Storie Pazzesche

[2011] Si conoscono tante persone, si commettono troppi errori. Ogni tanto, basta una scintilla scambiata per qualcos'altro, e ci si alza prima, bruscamente, in un letto in cui non c'è posto per noi. Fare l'amore con una persona sconosciuta e svegliarsi con lei o lui che ci chiede di andare via. L'intimità fino a un certo punto, infatti, se sei come Michael – chef di successo; il bello che seduce, abbandona e non chiede mai scusa e vuoi restare?. E se sei come Susan, scienziata di successo con un passato di anoressia e una motivata sfiducia verso il generale maschile, prendi le tue cose, indossi i tuoi abiti da corvo e fili via. La storia di una notte, questione di chimica e lenzuola sporche, può avere un seguito se fuori scoppia il caos? Una Glasgow di piombo fa da sfondo a un inspiegabile contagio: la popolazione mondiale sta perdendo i cinque sensi, in una lenta apocalisse. Si parte con improvvisi attacchi di melanconia, fragorosi pianti in pubblico, e in un inquietante conto alla rovescia, scandito da impulsi a farsi male e da attimi di esagerata felicità, si lotterà per passare quel che resta del giorno, quel che resta del mondo, con l'unica cosa che rimane quando ciò che distrae e induce in tentazione si fa fumo. Il cinema ci ha parlato spesso di epidemie che facevano paura, con il sangue e la violenza dei morti tornati in vita; mai così però. Ecco quello che, a distanza di anni, dopo una sentita seconda visione, proprio mentre la fantascienza inizia ad aprire finalmente le braccia all'umano, rende ingiusta la sorte dell'originalissimo Perfect Sense, mai arrivato da noi. Presentato al Sundance e diretto con mano abile da David Mackenzie, talentuoso e sottovalutato, andrebbe spiegato, interpretato, parafrasato come una poesia moderna. Purtroppo, essendo sconosciuto ai più, ma per me perla immancabile, ci si limita a dire guardatelo, guardatelo e basta, per non anticipare l'emozione, per non diluire la pena, per non rovinarlo neanche un po'. Quanto tragico sarebbe dimenticare, dimenticarsi? Gli amanti al tempo dell'apocalisse indossano le mascherine bianche e si baciano senza potersi baciare davvero, come in un quadro di Magritte. In un giro angoscioso e commovente di ultime volte, uomini che non soccombono senza arrendersi al non vivere: ripiegano su altro, ricercano gioie alternative, infatti, in un universo che brucia. Perché la vita non è limitarsi ad adempiere a bisogni elementari. Nutrisi non è solo ricerca di grasso e farina. Il sesso non è tecnica senza cuore o pazienza. La fantascienza intimista di Mackenzie non ha alieni e galassie da conquistare, ma celebra la sacralità del cibo e la ritualità del vivere di coppia. Nelle orecchie i sussurri di una colonna sonora perfetta, le papille gustative solleticate dai piatti che vedi sfilare oltre lo schermo e non puoi assaggiare, gli occhi straordinariamente pieni dei corpi in armonia di due divi magnifici. Eva Green e Ewan McGregor che si stringeranno forte se farà buio. Il tutto, scritto con delicatezza e un po' di lirismo. Ci si stordisce di sensazioni, così, e se verrà l'oblio ci si auspica sarà come in Perfect Sense. Che sa raccontare l'amore presente e futuro alla maniera di pochi film, e nessuno ancora lo sa. (8)

[2012] Chi non ricorda lo scandaloso Shame quando, dopo la Coppa Volpi a Venezia, arrivò al cinema? Il dramma erotico che metteva a nudo il corpo – e le voglie – di un disinibito e poco noto Fassbender faceva clamore. Solita e rumorosa pubblicità, grossomodo. Ma si apriva con un nudo frontale senza imbrogli, si chiudeva con il protagonista che dispensava attenzione a due amanti e nel mezzo, spudorato, c'erano riferimenti a porno e droghe. Le dipendenze di Brandon, rampante uomo d'affari e scapolo per sempre, in una città che non dorme perché c'è sempre troppo a cui stare dietro. Il Don Giovanni di Kierkegaard dei giorni nostri: eternamente in cerca, schiavo e disperato. E' la festa che ormai cerca lui. Ed è la donna che ormai lo sceglie, sorridengogli lasciva in metropolitana. Nel suo appartamento sul grattacielo, spazio solo per una sorella minore che non è la bene accetta. Perché è l'unica persona capace di farlo sentire vulnerabile; perché è l'unica donna che vuole proteggere dall'essere esattamente come lui. Shame, da cui forse anch'io al tempo mi ero lasciato scandalizzare con un niente, non ancora diciottenne, in realtà è un film distinto e tutt'altro che pruriginoso, anche se – nelle conversazioni tra appassionati, soprattutto quando c'è una fan del bel Michael dal sorriso da squalo nei paraggi – farà nascere sempre una risatina imbarazzata. Steve McQueen guida due grandi protagonisti – accanto a un lui chiacchierato, una volubile Carey Mulligan che con il nudo, dandoci ai paragoni da bettola, fa una figura oggettivamente meno clamorosa del collega, ma quando canta incanta, e esattamente in rima baciata - in un dramma intimista e raramente intimo (e c'è differenza, se ci fate caso), svestito dal superfluo ma già stanco di provocare. Significativo il fatto che la scena più bella, accanto al magistrale piano sequenza della corsa nel traffico cittadino, sia un'orgia in cui il culmine del piacere somiglia a un singhiozzo, a un brutto presentimento. Pensiero già proiettato, magari, al tristissimo ritorno da una notte di eccessi. Muto, senza gemiti e volgarità, con l'impeccabile colonna sonora firmata da Harry Escott che lì raggiunge il suo apice. Mentre Brandon si avvicina un orgasmo, l'ultimo, che somiglia all'abisso. Dopo un inizio distaccato e pieno di rigore, Shame – nel tuffo angosciante verso la fine – si scopre di carne e ossa, terreno e capace di emozionarsi, emozionandoci. Con gli uomini che non devono chiedere mai che piangono solo quando piove, così che le lacrime si confondano con l'acqua che cade, e una chiusa brillantemente sospesa tra redenzione e ricaduta. Non c'è vergogna, in Shame. Manierato e fine, forse anche troppo apatico per avere grandi strascichi emotivi, come la New York, New York intonata dall'inaffidabile Sissy: languida, inquieta, jazz. Senza il crescendo della Minelli. Cantata da chi, in certe città – e in certi letti - non si sentirà mai in pace. (7,5)

[2009] Il film storico – perfino il più bello – ha la sfortuna di appartere al genere che, se fosse cosa concreta, avrebbe quintali di polvere addosso, a causa della mia tipica dimenticanza – perché metto da parte, dico poi lo guardo, e invece no; mi scordo – e del sentore di antico che ha sin dal giorno della sua distribuzione. Nella lista dei “lo vedrei volentieri, se solo non avessi il rapporto che purtroppo ho con la storia”, questo Vincere di Bellocchio. Che, per sentito dire, immaginavo un po' come Il giovane favoloso: bello, televisivo e lento. Troppo per lasciarselo da parte per una visione domestica in tranquillità. Ho ripensato a Vincere, un giorno di questi, dopo essermi imbattuto in una clip: insieme a quella di una Mezzogiorno arrampicata nella sua gabbia, appesa alle sbarre mentre fuori nevica, senz'altro la scena più significativa del lungometraggio. L'interrogatorio a Ida Dalser: questa donna che è stata di vera carne, con gli occhi pesti e il moccio al naso, che – per dimostrare la sua sanità mentale, mentre gli psichiatri facevano domande su domande – giurava di essere la prima moglie del Duce. La macchina da presa che, in una sequenza da brividi, non aveva occhi che per una protagonista intensa, forse, come non mai, nella vicenda tristissima e dimenticata dell'amante che un giovane Mussolini in ascesa sedusse e abbandonò, destinandola – insieme al figlio – alla camicia di forza; agli appelli rimasti inascoltati. Il film storico che non deve somigliare a una lezione di storia dovrebbe avere, dal fascismo secondo Bellocchio in poi, un po' l'indole di Vincere. Intrattenimento che coinvolge, nonostante le due ore totali, e che – a dispetto dei miei pregiudizi – non è la mancata fiction supposta. Merito di una Giovanna Mezzogiorno che resta l'attrice più grande che abbiamo e che una candidatura, minimo, l'avrebbe meritata e di un Filippo Timi - l'attore che solo quando recita non balbetta - che gioca coi gesti ampi e il tono perentorio di un fantasma bastardo che ammaliava le folle e metteva a tacere le donne. Perché Vincere – più di un biopic, meno di una pagina di diario destinata al vento – è un melò che, se sapesse cantare, canterebbe. Le eroine che si ammalano d'amore, le arie dell'opera lirica a fare da barocco commento sonoro, la tragedia annunciata degli ultimi atti. Ci si bacia come nel cinema in bianco e nero di una volta – con passione fasulla, inclinati di lato come nel valzer – e come nel cinema muto, però in quello futurista, dinamico e tutto lettere maiuscole e punti esclamativi, la velocità è raddoppiata e irrompono titoli in prima pagina con funesti annunci di guerra. Vincere ha la plasticità e la compostezza del muto d'altri tempi, sì, ma a volte urla – e gli italiani sono grandi urlatori, nei loro drammi – e intontisce dal dolore. (7)

[2014] Quando mi piacciono gli intrugli, le pozioni, gli abbinamenti strani? Quanto i generi ibridi? Quando la comicità sposa l'inquietudine, ad esempio, e nasce una cosa bizzarra che si chiama commedia nera. Risate cattive e violenza, il quotidiano che – arrotondando per eccesso i vizi e la prepotenza – si fa grottesco. Come nelle trame di Storie Pazzesche: il film argentino a episodi che quest'anno era nell'ambita cinquina dei film stranieri. Senz'altro di troppo, lì, tra pellicole più impegnate come Ida e il latitante Mommy. Nel suo essere fuori luogo, tuttavia, c'è forse il segreto di un inspiegato successo, come in una fluidità naturale che rende leggerissimi i suoi centoventi minuti. L'ho visto in tarda serata: gli occhi bene aperti, l'interesse costante, un'ironia assurda che si sposa ogni tanto con il mio risaputo cinismo. Eppure non amo i film con una simile struttura, né tutto ciò che è amorale e senza utilità. Ma se qualche vicenda lascia a desiderare, altre sono dei gioiellini di scrittura e resa. Szifròn, in queste novelle senza cornice, alterna ora toni briosi, altri scabrosi, passando dal noir classico al quotidiano orrore con destrezza e umorismo. Tra gli episodi maggiormente a fuoco, quello iniziale, rapidissimo, con un nutrito gruppo di vecchi conoscenti che si incontrano su un aereo dirottato; il tragicomico The Hitcher con la faida tra un automobilista in difficoltà e il suo aguzzino; la festa di nozze di una giovane sposa che scopre in diretta il tradimento del marito bastardo. Mi ha divertito, ho riso di gusto, mi ha intrettenuto. A modo suo mi è piaciuto, un po' a causa di recensioni negative che avevano reso basse le mie aspettative e un po' perché è un prodotto alternativo nel classico contesto patinato. Però. Ci sono strategie in ballo, votazioni imperscrutabili, ma – anche dopo avere recuperato queste due ore ben dirette di sorrisi e sconcerto – mi domando come sia possibile che Damiàn Szifròn, bravo ma sopravvaluto, non abbia fatto posto sul podio al magnifico Dolan. Quel che è fatto è fatto. Rosicherò ancora tra me e me, ma parlandovi della commedia sudamericana uscita sotto l'ala protettiva di Almodòvar, non avrò mai più parole negative; giuro. Perché Storie Pazzesche, nel suo non rispettare i gusti convenzionali dell'Academy, è una parziale sorpresa – una maleducata canaglia sul Red Carpet – e ha lo smalto che il buon Pedro ha perso e chissà se ritroverà. (6,5)