venerdì 28 gennaio 2022

Recensione: Pancia d'asino, di Andrea Abreu

 
Pancia d'asino, di Andrea Abreu. € 15, pp. 150 |

Qualcuno, non troppo a torto, le ha definite le Lila e Lenù dell'isola di Tenerife. Amiche per la pelle, ma all'occorrenza anche rivali spietatissime, condividono le barbie e le estati. Hanno caratteri spigolosi e, nonostante i loro dieci anni, guardano tutti dall'alto in basso. Ogni giornata è una sfida per primeggiare. Ogni arrivederci è struggente. Appaiate come certi yogurt, forse predestinate, si presentano a noi lettori al termine della scuola per poi salutarci con il sopraggiungere di settembre. Prevedibilmente lasceranno intonso il libro delle vacanze. Hanno troppo da sperimentare, troppo da vivere. Quale sapore hanno l'anice, il caffè o il piccante? È vero che nel bosco vivono streghe che imbrattano di escrementi gli usci delle case? Quanto è spaventoso il sesso, quanto è lontano il mare? Lontane dai residence dei turisti, separati dagli abitanti locali da una specie di strato di pellicola, le piccole protagoniste giocano a fare cose da grandi e puoi immaginarle incedere da lontano tra il gracidare delle rane e il rombare delle betoniere: camminano scortate da uno stuolo di cani randagi e, a ogni passo, si pizzicano le mutande finite nel sedere.

In quel momento, quando il manto di nuvole si apriva in crepe sottili sottili, l'ultima luce del giorno cominciava a trapassare il cielo e tutto diventava d'oro brillante. Mi veniva un'angoscia fortissima al petto, come se mi mancasse il respiro. Io non sapevo mai salutare Isadora. La guardavo come una che dovevo salutarla per molti anni. Ma Isadora mi accompagnava a casa. Mi accompagnava sempre. E poi io accompagnavo lei. E lei accompagnava me. Propio come le confezioni di iogur del negozio, aveva detto lei una volta. Lo aveva detto parlando di noi pensando che non la sentissi, e invece sì. Come le confezioni di iogur che sono sempre a due a due.

La narratrice, soprannominata Shit, vive all'ombra Isora: preda di un'adorazione ossessiva, fagocitante, che un po' somiglia all'amore e un po' a nient'altro. Mentre la prima è duttile e poco intraprendente, l'altra è la reginetta del barrio: nipote della proprietaria dell'unico alimentari in zona, parla senza vergogna ai ragazzi e agli adulti e con il suo sguardo impenetrabile, con i suoi denti infallibili, divora il mondo in maniera bulimica. Shit, però, vorrebbe conoscere anche gli abissi in cui talora sprofonda: dove finisce Isora quando la tristezza è così forte che pensa di farla finita? Immerse in un sudicio canale, qualche volta chiudono gli occhi e pensano al mare: vicino eppure irraggiungibile. Spregiudicato, selvaggio e bellissimo, l'esordio di Andrea Abreu – classe 1995 – somiglia alla lava incandescente che un giorno potrebbe far sprofondare all'inferno l'isola e i suoi abitanti. Sorto all'ombra di un vulcano, il quartiere descritto dall'autrice ha gli odori forti, le feste patronali e i palazzoni abusivi del nostro Sud Italia. Perennemente sormontato da una cappa di basse nuvole grige – il titolo del romanzo si riferisce a questo preciso fenomeno meteorologico –, vive in uno stato di pigra sospensione. Cosa avrà in serbo il cielo: pioggia scrosciante o sole?

Nei giorni che Isora voleva morire sentivo anch'io che volevo morire e lei mi diceva che il modo migliore di morire era riempire d'acqua calda la vasca da bagno fino all'orlo e tagliarsi le vene. Io mi domandavo come faceva a sapere tante cose che io non sapevo e allora diventavo triste perché pensavo che io non avevo una tristezza mia, che la mia tristezza era la sua ma dentro di me, una tristezza come d'imitazione, una tristezza copiata, una tristezza tarocca, quello ero io, perché io non avevo motivi per essere triste ma me li inventavo.

Corrono i primi anni Duemila, gli stessi della mia infanzia. Shit e Isora ascoltano le canzoni degli Aventura con l'mp3, scrivono su Messenger, guardano i Simpson e Walker Texas Ranger, sbraitano contro contro il telegiornale quando la notizia della caduta delle Torri gemelle interrompe i loro intrattenimenti preferiti. Ma si sbucciano anche le ginocchia a sangue, simulano atti sessuali con le bambole, si masturbano con i pennarelli colorati, si inducono il vomito o la dissenteria. Ricordate com'era avere dieci anni, tabù compresi? A differenza di Elena Ferrante, sempre impeccabile, Abreu è incuriosita dalle pelurie, dai fluidi corporei, dal contatto fisico, dalle storture. La scrittura, innovativa, si adegua alla sua voce: la lingua di Pancia d'asino è un esperanto euforico, sgrammaticato, volgare, fatto di uno slang americano scimmiottato alla bell'e meglio e di una punteggiatura spesso assente (bravissima la nostra Ilide Carmignani, chiamata questa volta non a tradurre alla lettera, bensì a inventare). A volte credo di vederla con la coda dell'occhio, Shit. Eccola, mossa da sentimenti spaventosamente adulti, che supera i confini tracciati e insegue il sole. Magari si spingerà oltre il barrio, oltre l'amicizia con Isora, fino alla fine del mondo.

Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Gaia – Nuvole di zanzare

martedì 25 gennaio 2022

Recensione: La casa senza ricordi, di Donato Carrisi

| La casa senza ricordi, di Donato Carrisi. Longanesi, € 22, pp. 398 |

Me lo hanno regalato per Natale, come da tradizione, e l'ho portato con me in vacanza nella terra d'origine dell'autore. In una vecchia presentazione Donato Carrisi aveva dichiarato che Il suggeritore, esordio indimenticabile, fosse nato proprio all'ombra dei trulli. L'idea di terminare l'anno ospite di La casa senza ricordi, sfortunatamente, non è stata delle migliori: per me, fan della prima ora, è il romanzo più deludente del giallista pugliese. Sequel di La casa delle voci, a sua volta già poco entusiasmante, riprende le vicende di Pietro Gerber: psicologo infantile e ipnotista, ha messo a rischio famiglia e reputazione per il caso di Hanna Hall. Ormai divorziato, gira lungo le strade di una nebbiosa Firenze nel solito trench Burberry in attesa del prossimo caso di cronaca nera. Può un bambino con il caschetto biondo e gli innocenti occhi azzurri essere il novello mostro della città?

Tu l'hai mai incontrato un mostro, dottore? Uno di quelli che pensi esistano soltanto nelle fiabe o nei film dell'orrore? Un essere immondo, uno sbaglio di Dio? Per capire che ce l'hai proprio davanti agli occhi, devi prima convincerti che è possibile. Ed è la parte più difficile. Perché nessuno ti ha mai insegnato a riconoscerlo. Nessuno ti ha mai spiegato che, quando lo vedrai, ti sembrerà del tutto simile alle persone che incontri ogni giorno.

Scomparso insieme alla mamma otto mesi prima, Nico è stato trovato nei boschi del Mugello in stato catatonico ma senza un capello fuori posto: che abbia ucciso la madre, rimasta nel frattempo irrintracciabile? Passo dopo passo, innesto dopo innesto, il protagonista s'intrufola nel girone infernale dei ricordi del bambino. Ma la storia da incubo che racconta Nico – ossia la convivenza con un misterioso orco in un casolare sperduto – è ambientata vent'anni prima e appartiene a qualcun altro. Esclusa l'evenienza di una possessione demoniaca, non resta che un pensiero: la mente del bambino, vittima di un subdolo parassita, è manipolata da un affabulatore; un ipnotista pari a Gerber, se non perfino più potente.

Nessuno è disposto a credere alle storie dei bambini.

Questo Carrisi si concede ritmi più dilatati, tempi meno serrati. Caratterizza i personaggi un po' meglio che negli ultimi scritti – li avevo trovati rapidi e cinematografici quanto sceneggiature –, introduce comprimari, sottotrame e idee. Le parti più degne di interesse riguardano il passato di Pietro e il suo rapporto con il defunto padre, il Signor B., membro di un'affascinante confraternita di ipnotisti fiorentini: è qui che l'autore intriga, da grande intrattenitore qual è, con giochi di carte in cui si rischia la pazzia o con brevi dissertazioni sulla licantropia (esiste davvero!). Il resto è una sfida a distanza tra ipnotisti, circondata da un'aura di paranormale alla The Prestige, in cui il piccolo Nico diventa un tramite tra Pietro e il suo personale Moriarty. Quale sarà l'identità della sua nemesi? Lungo, nebuloso e frustrante, il romanzo finisce per seminare domande e disappunto in un epilogo inconcludente più che sospeso: un buco nell'acqua. Non aspettatevi colpi di scena né risposte: sono rimandate al prossimo best-seller, per fidelizzarci tutti meglio. Sempre di arrivarci, questa volta, con qualche ricordo a cui aggrapparsi.

Il mio voto: ★★

mercoledì 19 gennaio 2022

Recensione: Cara Rose Gold, di Stephanie Wrobel

| Cara Rose Gold, di Stephanie Wrobel. Fazi, € 18, pp. 360 |

Quali sono i confini dell'amore? Quali, ancora, quelli della follia? Patty e Rose, madre e figlia, ne saggiano i limiti – spingendosi fino al punto di non ritorno – nell'esordio narrativo di Stephanie Wrobel. Noir familiare parzialmente ispirato all'omicidio di Dee Dee Blanchard, già raccontato nella serie TV The Act, Cara Rose Gold prende spunto dalla cronaca nera ma immagina un prosieguo diverso: perfino più sadico. Quando la figlia adolescente osa rivoltarsi contro la madre-carceriera, artefice di soprusi e bugie, è soltanto l'inizio di un nuovo incubo. L'autrice, infatti, immagina l'incontro tra le due dopo un lustro di reclusione. Mentre Patty confida nel perdono, Rose medita vendetta trasversale.

Il legame fra una madre e una figlia è sacro. Lei, meglio di chiunque altro, sa che, a prescindere da quando siano orribili, troveremo ancora nel cuore le forze di amarle.

Raccontato a voci alterne, il romanzo è un'esilarante guerra di logoramento che descrive il reintegramento della prima – guardata con legittimo sospetto dall'intero vicinato – e la maturazione della seconda, spesso combattuta tra nostalgia e rancore. Rose Gold è la vera protagonista, disposta a tutto – anche a far leva sul proprio status di vittima – per trovare un posto nel mondo. Cresciuta con la consapevolezza di avere un difetto cromosomico in realtà inesistenze, sempre cagionevole e malnutrita, è diventata una giovane donna con un sorriso guasto di cui si vergogna profondamente, un neonato da accudire e una rabbia repressa che, talora, esplode in sanguinose fantasticherie. Ancora incredula davanti alla violenza psicologica subita dalla madre, si guarda intorno con irrequietezza: su cos'altro le ha mentito Patty? Suo padre è davvero morto per overdose? Quale segreto nasconde la casa dei suoi nonni materni, tornata nuovamente sul mercato immobiliare? È forse possibile fidarsi di un fidanzato virtuale, di un'amica scostante, se perfino i parenti stretti le hanno fatto del male?

Avevamo imparato nel modo più difficile che i genitori non hanno tutte le risposte. Siamo stati noi a volere che le avessero. Abbiamo creduto che le avessero per i primi due decenni delle nostre vite, a seconda del tipo di genitori e alle loro capacità di sapersi parare il culo. Ma, alla fine, scoprire che i nostri genitori erano dei semplici mortali non è stato molto diverso dallo scoprire la verità su Babbo Natale e il Coniglietto pasquale.

A metà tra Che fine ha fatto Baby Jane? e uno qualsiasi dei film con Rosamund Pike, il romanzo – scritto senza il minimo guizzo, ma pervaso da una piacevolissima ironia di fondo – affascina grazie ai suoi personaggi disturbati e al continuo ribaltamento dei ruoli. Prevedibile nell'epilogo ma spassosissimo, Cara Rose Gold gioca sin da subito a carte scoperte e vede le sue protagoniste darsi reciprocamente il tormento dall'inizio alla fine. C'è un po' di romanzo, insomma, in questo disagio. Strano che Hollywood, attratta dagli orrori della sindrome di Munchausen per procura anche nel recente Run, non ne abbia già tratto un horror. Quando la proverbiale forza delle donne viene usata per il peggiore degli scopi, ossia la vendetta, come distinguere la vittima dalla carnefice?

Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Miley Cyrus - Mother's Daughter

sabato 15 gennaio 2022

Biografie da Oscar: Spencer | Belfast | King Richard | Being the Ricardos

A che serve l'ennesimo biopic, per di più con The Crown in corso d'opera, sull'icona più famosa al mondo? Ultimo ritratto di signora per Pablo Larraín, Spencer racconta i tre giorni di agonia di un matrimonio lungo dieci anni; la donna in pezzi prima del mito inscalfibile. Diana festeggia il Natale in un castello stregato in cui i riscaldamenti sono sempre spenti, le ceneri dei vecchi regnanti ricoprono ogni cosa e i servitori, invitati al silenzio, sono schierati come un esercito. Ma, aggrappata alla tazza in ghingheri come una sposa, Diana vomita, disobbedisce e semina dissensi: il suo tormento si manifesta con l'autolesionismo. In una scena già cult, si strappa la collana e ingoia le perle insieme a una zuppa immangiabile. Favola nera o forse horror dell'anima, il film è una psichedelia di danze, spettri e fagiani dove tutto, fatta eccezione per l'epilogo, è gelo. In questo inferno di ghiaccio, Kristen Stewart si rivela una scelta tanto azzardata quanto vincente: sorprendente con accento british, presta gli occhi malinconici e il temperamento nervoso a una figura in tensione perenne, in grado di sciogliersi soltanto al cospetto dei figli e di Sally Hawkins; i costumi da Oscar fanno il resto. Si può fuggire a un destino segnato? C'è spazio per i miracoli, in un mondo in cui perfino i bambini sono educati alla violenza della caccia? Per fortuna il buon cinema tutto può. Il qui e ora non esistono, sussurra Diana: passato, presente e futuro sono la stessa cosa. Il tempo si fonde come in Dalì, allora, e attraverso questo magma Diana Spencer può andare incontro alla vita (e alla morte) nei luoghi in cui è stata bambina spensierata. È possibile la stessa felicità? Basta lasciare in pegno il vestito buono agli spaventapasseri e, fanculo il mondo, inseguire «gli amori, lo shock e le risate». (7,5)

Dopo Cuarón, Almodóvar e Sorrentino (anche Spielberg è atteso al varco con un'operazione simile), è il turno di Kenneth Branagh: riacciuffare una carriera ondivaga al suono di ricordi agrodolci. Il tutto rigorosamente in bianco e nero, con una fotografia talmente incantevole da essere degna del cinema Pawlikowski. Siamo nell'Irlanda degli anni Sessanta. Il piccolo alter-ego del regista si difende con uno scudo di latta dai draghi, dai drammi familiari, dagli sconvolgimenti politici. Benché molto preso dalle scorribande e da una coetanea, è impensierito da una serie tematiche: i genitori, sommersi dai debiti, meditano di andare altrove; i nonni, anziani, seminano perle di saggezza e preoccupazioni; le strade, un tempo familiari, ospitano barricate durante gli scontri tra protestanti e cattolici. Ogni elemento è al posto giusto, selezionato per non scontentare: mamma e papà sono di un'avvenenza fuori dal comune anche quando discutono (Caitríona Balfe è, a onor del vero, intensissima), gli anziani brontolano da Oscar (inspiegabile il casting di Ciaràn Hinds, di vent'anni più giovane della Dench e invecchiato malamente a colpi di trucco), le visite al cinematografo offrono significativi squarci di colore al biancore generale. Ma in Belfast, purtroppo, è tutto talmente attrattivo da risultare furbetto, patinato, piatto. Ogni anno c'è un film che sembra accontentare tutti tranne me: questo sarà l'anno di Branagh, con la pellicola più sopravvalutata e, forse, premiata della stagione. Un pugno di cartoline provenienti da un'infanzia così artefatta da sembrare di nessuno. (5,5)

L'ascesa di Venus e Serena Williams dal punto di vista dell'uomo che le ha messe prima al mondo, poi sui campi da tennis (solitamente appannaggio dei ricchi bianchi privilegiati): Richard, il loro papà. Ambientato nei primi anni Novanta, con le campionesse poco più che bambine, questo biopic tanto classico quanto appassionante mette in scena i sacrifici, l'orgoglio e lo spirito di abnegazione di una famiglia vincente. Padre di cinque figlie femmine, il protagonista ha un piano per ognuna di loro: cambieranno il mondo e si salveranno dal ghetto. Ma la perdizione esiste soltanto nel loro quartiere, o anche nelle competizioni del circuito professionistico? Solido nella prima parte, in cui prevale la grazia della dimensione corale, il film perde qualche colpo nella seconda: più concentrata sugli esordi di Venus, fa porre qualche domanda sulla condotta del genitore. La loro è una famiglia o un team? È giusto predisporre il futuro dei figli ancora prima che nascano? Quelli di Richard erano sogni o ossessioni? Disinteressata ad approfondire le controversie sul papà-manager, Hollywood sceglie per la vicenda un taglio fiabesco e toni bonari. Non stupisce, allora, la scelta di Will Smith come protagonista: idolo di generazioni vicine e lontane, qui spiegazzato come non mai, rispolverara i discorsi motivazionali del set di Muccino e punta facilmente agli Oscar. Pregi e difetti di un dramma sportivo senza ombre e con una morale sul valore dell'umiltà (non secondaria, però, al divertimento), che piace anche ai profani. (6,5)

Agli spettatori italiani Lucille Ball e Desi Arnaz diranno pochissimo. Star di una sitcom degli anni Cinquanta, erano i nostri Sandra e Raimondo. L'ultimo film del sempre bravissimo Sorkin è un biopic che ce li mostra a un crocevia: accusata di simpatizzare per il comunismo, Lucille fa i conti con i tradimenti del marito e una seconda gravidanza. Come mandare avanti comunque lo show? Nonostante Javier Bardem sia una spalla esemplare, Being the Ricardos è una masterclass tutta al femminile. Già anima della sitcom originale, Lucy diventa ancora il fulcro del tutto: Sorkin la mostra dagli esordi fino alla retrocessione in radio, in preda al fervore delle riprese e durante le tensioni del quotidiano. Buffa sul set, tutta smorfie e gridolini, nel privato era una padrona di casa perfezionista, polemica e sbloccata. Contestatissima da alcuni spettatori, una Nicole Kidman fresca di Golden Globe incarna entrambe le anime del personaggio alla perfezione e strega con un mimetismo che le arrochisce la voce e stravolge il viso (più del chirurgo, sì). La vicenda ha scarso appeal, soprattutto per il pubblico straniero? La struttura a tasselli non appare sempre funzionale? Se amate le grandi performance e i grandi autori, sedetevi ugualmente in poltrona e applaudite Sorkin. La sua è una commedia elegante, pulita, all'apparenza semplicissima. Ma, proprio come I Love Lucy, di quella semplicità che soltanto i set collaudati sanno rendere nascondendo gli sforzi del cast sotto il tappeto. (7)

mercoledì 12 gennaio 2022

Recensione: I margini e il dettato, di Elena Ferrante

| I margini e il dettato, di Elena Ferrante. E/O, € 15, pp. 154 |

Quante volte lo abbiamo detto? Di alcuni autori leggeremmo tutto, anche la lista della spesa. In attesa della terza stagione di L'amica geniale – a febbraio su Rai Uno – e, si spera, del prossimo romanzo, Elena Ferrante è tornata in libreria con un volumetto dalla copertina bellissima consigliabile soltanto agli appassionati accaniti. I margini e il dettato non contiene gli ingredienti segreti della cena di Natale, no, bensì tre lezioni universitarie destinate alla cittadinanza di Bologna e un saggio critico in occasione del settecentenario di Dante Alighieri. Breve ma densa, destinata a essere fruita in ambito accademico, la lettura è interessante ma non sempre godibile. A differenza di L'invenzione occasionale, che prediligeva al contrario illustrazioni variopinte e toni piacevolmente informali, l'ultimo libro Edizioni E/O mostra una Ferrante destinata a un pubblico universitario. Per fortuna resta comunque traccia dei suoi modi affabulatori, uniti qui a una scrittura rigorosa e a un bagaglio personale sempre vivissimo.

Così il romanzo d'amore comincia a soddisfarmi quando diventa romanzo del disamore. Il romanzo giallo comincia a prendermi quando si che nessuno scoprirà chi è l'assassino. Il romanzo di formazione mi sembra sulla via giusta quando è chiaro che nessuno si formerà. La bella scrittura diventa bella quando perde la sua armonia e ha la forza disperata del brutto. E i personaggi? Li sento falsi quando sono di limpida coerenza e mi appassiono a loro quando dicono una cosa e fanno l'opposto.

Benché protetta da uno pseudonimo, l'autrice ama raccontarsi. E questa lettura appassiona proprio allora: negli aneddoti sulla sua infanzia, nei retroscena dei romanzi più famosi, nei tentativi fallimentari e nelle insperate rimonte. Autocritica, contraddittoria e smaniosa, Ferrante si è sempre librata tra due opposti: la scrittura diligente e quella smarginata, la norma e la frantumaglia. Il suo caos interiore poteva forse rispettare i margini dei quaderni delle elementari? Questo conflitto sarà il fondamento della tetralogia. Lenù e Lila sono l'apollineo e il dionisiaco, l'ordinario e lo straordinario, e rappresentano un approdo importante: il passaggio dal solipsismo dei primi romanzi alla scoperta di una coralità, di “un'altra necessaria”. Chi l'ha ispirata? Sono moltissimi i nomi da appuntarsi: da Gaspara Stampa a Virginia Woolf, da Emily Dickinson a Gertrude Stein. In una letteratura appannaggio del sesso maschile, Ferrante ha coltivato la propria identità attraverso letture e suggestioni differenti.

Le frasi vere, buone o epocali, cercano sempre una loro strada tra frasi fatte. E le frasi fatte sono state una volta frasi vere che si sono scavate una via dentro frasi fatte. In questa catena di operine e grandi opere, in ogni anello grande o piccolo, c'è duro lavoro e illuminazioni casuali, fatica e fortuna. La via di Damasco non è una via ben segnata in quanto deputata alle folgorazioni. È una via come un'altra su cui, per caso, può capitare, mentre si sgobba e si suda, di accorgersi di un'altra via possibile.

La sua voce risuona di una pluralità di voci, dunque, in un gioco tanto affascinante da apparire quasi stregonesco. Ma anche Dante Alighieri le ha insegnato qualcosa d'importante sui banchi di scuola: pionieristico, infatti, il poeta fiorentino rivoluzionò le gerarchie femminili della Divina Commedia e regalò all'amata Beatrice né leggiadria né gentilezza, bensì un ruolo di guida salvifica. Mentre gli uomini, fragili, vagavano nei meandri della selva oscura, le donne di Dante avevano “intelletto d'amore” e un'invidiabile favella. Quali sono stati i primi passi della scrittrice italiana destinata presto a finire nel novero dei grandi classici? Chi l'ha formata, e in che modo? Come ha coltivato la propria vocazione realistica, pur sperimentando nel corso della carriera il noir, il romanzo sentimentale e l'horror? Annotiamo titoli, informazioni, passi. Prendiamo diligentemente appunti. La verità, però, è che ci accontenteremmo di sentire Ferrante raccontare di Elena a oltranza: lontana dalla cattedra, oltre questa aura di sfinge inarrivabile.

venerdì 7 gennaio 2022

Mio caro Stoner: lettera aperta a un altro me stesso per i primi dieci anni del blog

Mio caro Stoner, 

qualche anno fa ti leggevo ed entravo in crisi d'identità. Non volevo diventare come te; insegnare. Mi spaventava la tua vita grigia e monotona, nei binari. Ti leggevo, ascoltavo Brunori Sas («la verità è che ti fa paura l'idea di scomparire») e piangevo. In comune avevamo gli studi, la malinconia e il destino annunciato. Perché avevo studiato Lettere, accumulato i crediti giusti e tutto il resto? Perché mi ero condannato inconsapevolmente a vivere la tua esistenza e i tuoi medesimi sbagli? Nel 2021 appena salutato ho scoperto che essere come te, invece, non è così male. 

Mi piace la mia routine, mi piace avere una tabella di marcia, mi piace sentirmi adulto e indispensabile per qualcun altro. Questo post nasce per ricordare il compleanno del blog, sono online da dieci anni tondi tondi, ma  anche e soprattutto per stilare un lucido bilancio dell'anno appena trascorso. Nonostante tutto, sono grato al 2021: mi ha messo alle strette fino a farmi diventare più me stesso. Mi piaccio così? A giorni alterni, a tratti, ma adesso almeno so chi sono: Michele Del Vecchio, ventisette anni, insegnante precario, con un angolo virtuale in cui raccontarmi e un romanzo nel cassetto (semifinalista a un concorso letterario, è stato poi oggetto di due illustri rifiuti da cui fatico a riprendermi). Da ragazzino avevo l'ossessione di condividere, arrivare, scrivere: volevo farne un lavoro. Ora che sono diventati semplicemente hobby, me li vivo meglio e me li godo di più. È il sette gennaio e non ho ancora cominciato una nuova lettura; non scrivo, invece, dalla scorsa estate. Sono meno presente che in passato? Pazienza. Leggo meno? Non fa nulla, ma spero di leggere almeno i libri giusti. Mi comporta troppo tempo scrivere lunghi post? Poco male, mi racconto così come viene su Instagram e Letterbox. 

Dieci anni fa, per la prima volta, pubblicavo un post online. Era una presentazione di poche righe, goffa ma onesta proprio come il sottoscritto. Sono andato a rileggerla, oggi, e non mi sono scoperto poi troppo diverso dal diciassettenne di quando tutto cominciò. Resto ancora così, anche se tanto è cambiato nel frattempo: perfino il mio modo di descrivermi, raccontarmi, interagire. Sono subentrate la consapevolezza della malattia, la sindrome d'abbandono, l'ansia sociale. Ma anche la pacata accettazione di chi non sarà mai il fantastico Harry Potter o l'ambizioso Jay Gatsby, bensì qualcuno come te: un insegnante occhialuto e riservato, magari un po' grigio se visto da fuori, ma con una vita immaginaria di un'intensità talora commovente. Questo significa arrendersi? Significa crescere, forse, e considerare i sogni per quel che sono: cose da fare nei ritagli in cui la vita, finalmente, ci lascia in pace. Spero comunque di farne ancora e ancora di bellissimi. 

A rileggerci tra altri dieci anni, 

Michele