A
Stoccolma, in una camera di lusso, si consumano i
retroscena del Nobel. La premiazione e
le domande della stampa hanno risvegliato rancori nel mezzo dei festeggiamenti. I contendenti sono due coniugi
già in là con gli anni: lui, con il pallino dei grassi saturi e
delle belle donne, scrittore vanaglorioso che sin da ragazzo si sognava Philip Roth; lei, prima
allieva prediletta e in seguito moglie trofeo, donna che in segreto
ha sempre mosso i fili del suo successo. Non serviva il sopraggiungere di
flashback quanto mai superflui per illuminarci sulle bugie e i ruoli
di potere della coppia: un matrimonio nato da un tradimento, che di
tradimenti a lungo ha vissuto, in cui un'ereditiera desiderosa di
indispettire la ricca famiglia aveva regalato l'anima e il corpo –
soprattutto, il proprio talento – a uno scrittore ora da pulire, ora da
imboccare, ora da perdonare. L'uno ha le idee, l'altra lo stile.
Tutti i meriti, anche agli occhi del figlio (d'arte) Max Irons,
spettano però all'istrione Jonathan Pryce. L'occhialuto biografo Christian
Slater, al contrario, fiuta qualcosa nei gesti di una Glenn Close in
odore di nomination: i sorrisi tirati, gli occhi bassi, il tormento
delle mani e un animo che ribolle per quel desiderio di rivalsa
svegliatosi all'improvviso. Si può voltare pagina a settant'anni? Si
può trovare nella totale disfatta la voglia di fare l'amore
o di saltare sul letto per celebrare un immeritato trionfo? Storia di
rinascita affatto sorprendente in questi tempi di ritorno al
femminismo, la lenta rimonta di The Wife
ricorda troppo Big Eyes:
palcoscenico austero ed elegante su cui non va in scena
niente che meriti il bis. Classico dramma di attori in cui la
scontata bravura della protagonista si rivela un'arma a doppio taglio. È infatti la stessa donna del titolo, a
suon di dialoghi teatrali e di segnanti primi pianti, a mettere in
ombra l'intero film. (6)
Se
sei un criminale in una Chicago che non perdona, nemmeno un'onorata
carriera nel malaffare può salvarti. La vita di
quattro ladri si conclude in una retata che non lascia scampo. Ognuno aveva debiti, un'idea per cambiare vita,
una moglie. Questa è la storia di tre delle quattro vedove: donne agli antipodi – un'ereditiera affranta con
ridicolo cagnetto bianco al seguito, una giovane maltrattata che si
reinventa escort, una mamma latinoamericana con un negozio pignorato
– che, sotto l'egida di una Viola Davis tanto bad-ass quanto
svogliata, collaborano per riscattarsi. Mentre in città si fanno lo
sgambetto gli aspiranti sindaci – Farrell appoggiato dall'arcigno Duvall, l'altro dal tirapiedi
Kaluuya –, le protagoniste lavorano a far della propria
inadeguatezza un'arma a doppio taglio. E secondo lo stesso principio, in un cast di premi Oscar, a sorprendere sono le attrici
all'apparenza fuori posto: Michelle Rodriguez, per la prima volta in
un film d'autore, e un'irresistibile Elizabeth Debicki. Peccato che i pregi,
le cose da scrivere, finiscano presto con un film che
resterà la peggiore delusione dell'anno. Widows su
carta non ispirava, infatti, ma recensioni positive e grandi nomi lasciavano
intuire il colpo di teatro: Steve McQueen, reduce dai fasti
del potente e arraffone 12
anni schiavo,
non poteva riadattare una soap degli anni Ottanta senza
metterci del genio; non poteva cedere all'heist movie come un
qualsiasi Soderbergh e giocare ancora l'irritante carta del
politicamente corretto con un cast all
women(o
quasi), all
black (o
quasi), con tanto di stucchevole cenno al braccio violento (e
razzista) della legge. Non ne faccio mistero, di Widows mi
hanno infastidito le scenografie da rivista patinata, la scrittura
televisiva della Flynn, colpi di scena che
insultano l'intelligenza di chi si aspettava un'americanata sì, ma
di classe. Freddo e poco coinvolgente, in equilibrio precario fra il
noir e il melodramma, il regista del
chiacchierato Shamefinisce
questa volta per lasciare a bocca asciutta per il desiderio di
accontentare tutti in una seriosa varazione sul tema del dimenticato Ocean's
8.
Torna e fa cilecca. Con la morte nel cuore per questo colpo
clamorosamente fallito, noi fan ci vestiamo già a lutto. (5,5)
I
sorrisi ai neonati sul treno ci dicono che non ha avuto figli. Parte
lesa in un matrimonio senza sesso, continuamente sul piede di guerra,
il giudice Emma Thompson ha un'aria rispettabile, un guardaroba
severo, ma piccoli dettagli ne rivelano l'altruismo e
l'istinto materno. Esperta in autentici casi di coscienza, chiama a
deporre la famiglia di un adolescente morente: in quanto testimone di
Geova, il ragazzo rifiuta la trasfusione.
Avvincente e umano, The Children Act è
nella prima parte un dramma giudiziario convenzionale ma solidissimo.
La seconda, più incerta ma senz'altro toccante, segue invece il
dipanarsi di un candido colpo di fulmine, di una subitanea affinità
elettiva, il cui significato si evince più in pratica che in teoria.
La protagonista, infatti, va al capezzale di Fionn Whitehead: per lui, intelligente e sfacciato, canta e recita Yates. Il giovane –
senza più famiglia, senza più Dio – si affida anima e corpo alla donna,
che ligia al dovere non vuole tuttavia portarsi il lavoro a casa. È già
troppo tardi: in seguito a un imprinting misterioso e immediato, lei gli è entrata sin nel sangue. Se l'ultima mezz'ora non basta
ad approfondire debitamente il rapporto tra il malato ribelle e il
giudice – “My Lady”, come la chiama Whitehead venerandola per
tutto il tempo –, ambiguità e svolte annunciate sono appianate dal monologo finale di un'attrice forse al suo meglio che, piangendo in
abito da sera, si confessa all'infedele Tucci. Ci sono ballate che
vanno cantate: al diavolo le scalette predefinite. Ci sono storie che
vanno raccontate anche se, grandi interpreti a parte, sortiranno
maggiore clamore nei romanzi di Ian McEwan. Ci sono casi straordinari – giudiziari e
non solo – davanti ai quali perfino la legge solleva bandiera
bianca. Abbandonandosi a un ritornello, lasciando andare chi
aveva le smania di farsi libero martire. (7)
C'è
qualcosa di marcio in Danimarca. C'è qualcosa di bello però in un
cinema che quel marcio sa raccontarcelo con l'acume e la sensibilità
che lusingherebbero anche il buon Shakespeare. Vedasi i nervi a fiori
di pelle per Il sospetto di Thomas Vinterberg o, ancora, le
lacrime per la scabrosa Susan Bier di Second Chance.
Alla completezza dei gialli europei mancava un tassello. L'ho
scoperto per caso – non sapendo del successo al Festival di Torino
né che avrebbe rappresentato la Danimarca agli Oscar –, in
un'appassionante chiamata lunga un film. Il telefono squilla. Siamo
in una stazione di polizia e, in seguito a una bruciante
retrocessione, al pronto intervento troviamo un bravissimo Jakob
Cedergren. L'agente paga il fio per i propri metodi poco ortodossi, per
la tendenza a far di tutto un caso personale. Alla cornetta lo
aspettano gli sbadigli per qualche tentata rapina, incidenti stradali
da poco, giornalisti incuriositi da uno scandalo che l'ha reso
protagonista. Fino a quando non intercetta una chiamata diversa:
quella di una donna – e della sua bambina in lacrime, intanto a casa con il
fratellino neonato – rapita dall'ex marito. Lo spettatore è messo al corrente di ogni trillo, vibrazione o messaggio in
segreteria. L'azione vera, un'ordinaria storia di violenza domestica, si consuma però fuori dalle scene.
Come in Locke, la sceneggiatura si crea da sé, alla cornetta,
e sempre alla cornetta prende vita un piccolo giallo dalla grande
emotività. Grazie alla regia attenta e a un interprete dagli occhi
empatici, The Guilty è un
esperimento che funziona alla perfezione: tutti sono colpevoli di
qualcosa, tutti vogliono confessare per alleggerirsi l'anima e tutti,
a fine visione, vorranno comporre un numero dal nuovo (questa volta della persona giusta). La solidarietà, così, scatta tanto verso le
vittime quanto verso un assassino feroce. Non lasciatevi scoraggiare dall'interlocutore sconosciuto; dal pesante accento straniero. Prendete
all'istante questa chiamata. E in certe notti vi sentirete più al sicuro, meno
soli. (7,5)
C'era
una volta un bambino che sperava di non diventare grande. Gli facevano compagnia gli amici animali – un orso, una tigre, un asino e un canguro –, con cui
dividere fantastiche avventure in una radura ai confini della realtà.
Il bambino mentiva, alla fine è cresciuto: diventando un uomo segnato dalle
esplosioni della Seconda guerra mondiale, un marito assente, un padre
poco amorevole. I suoi compagni d'infanzia, inevitabilmente, sono stati
dimenticati in nome delle responsabilità. C'era una volta la Disney,
storica fabbrica dei sogni, che voleva parlare a grandi e piccini.
Continua a farlo tutt'oggi, sì, non inventandosi più niente dal nuovo: i
cartoni che prendono vita abbondano, sequel e reboot spettano anche alle
vecchie fiabe. Anche il bambino di Winnie the Pooh, dunque, cresce
per ragioni di copione. Ha il volto del sempre in parte Ewan McGregor
e veste gli abiti di un noiosissimo impiegato che ha rinnegato il
passato. L'orso ghiotto di miele si smarrisce a Londra e si mette
sulle tracce di lui, a cui spetta il compito di riportarlo dove tutto
ha avuto inizio. Favola bucolica nello spirito delle
Cronache di Narnia, Ritorno al bosco dei 100 acri racconta pochissimo che non sapessimo già. Chi come me si si
aspettava i segreti struggenti di Neverland
e Saving Mr. Banks,
autentici backstage sulle difficoltà del processo creativo e
sull'urgenza della scrittura, probabilmente avrebbe dovuto prima dare
un'occhiata al biopic su Alan Milne. Ode spensierata alla
leggerezza, agli affetti, al ritorno ai buoni sentimenti, la commedia
per famiglie del capace Marc Forster è piuttosto una classica
riflessione generazionale che colpisce più gli occhi che il cuore e che qui e lì attinge alla comicità
slapstick del meglio riuscito Paddington.
Malinconico andirivieni fatto di ritorni alla base e morali risapute,
senza buone idee all'interno ma con quel pizzico di magia che sotto Natale non guasta. (6,5)
Le
geometrie di Kubrick, gli split screen di De Palma, l'aspect ratio di
Dolan, il Soderbergh che filmava la claustrofobia con l'iPhone. Sam
Esmail, quarant'anni e una carriera tutta in discesa dopo il successo
di Mr. Robot, è andato a scuola dai migliori. Primo della
classe, nonostante le scarse attrattive di una storia lisergica di
hacker e complotti che al suo esordio non mi aveva
conquistato, torna a ipnotizzare dall'alto di una regia bellissima.
La sua macchina da presa sfida la paura delle vertigini: un tutt'uno
perfetto con l'eleganza del vetro e dell'acciaio, il verticalismo
hitchcockiano delle scale a chiocciola, una colonna sonora che spazia
dalle arie di Handel ai rimbombi stridenti dei noir vecchio stile. E
nobilita, così, un thriller psicologico che più classico non si
può: rigoroso ma non senza ironia, algido ma non senza
sentimento; rétro eppure modernissimo. Un addetto all'ufficio
reclami, ossessionato dalla verità, s'improvvisa investigatore: cosa nasconde una compagnia che
cura i veterani dal disturbo post-traumatico? Diciotto
pazienti, sei settimane per reintegrarsi; lavori di gruppo, giochi di
ruolo, scherzi e confidenze, in una mensa dove il martedì servono gnocchi a pranzo. Qualcuno vorrebbe andare
oltre, qualcun altro addita intrighi dappertutto. Potrebbe saperne di più l'ex
consulente Julia Roberts, che matura – anagraficamente e
artisticamente – senza tradirsi mai, donando il suo sorriso e tanta femminilità a un personaggio che all'inizio appare
intransigente e distaccato. Non più psicologa, ma cameriera in una
sudicia bettola, ha un nuova routine, un nuovo domicilio – vive con
una mamma d'eccezione, Sissy Spacek – e misteriosi buchi nella
memoria. Cosa l'ha spinta a quell'inspiegabile retrocessione
professionale? Il presente asfittico è in 1:1, mentre il passato in 16:9. E nel passato si annidano le chiamate di uno spietato Bobby
Cannavale, Mefistofele che scoraggia (e ispira) riflessioni etiche ed
esami di coscienza; la complicità con Stephan James, che forse esula dalla
relazione medico-paziente e insospettisce qualcuno ai piani alti.
Semplice ma reazionario nel suo piccolo, Homecoming ha episodi
che si aggirano intorno ai trenta minuti di durata – di solito,
priorità delle comedy – e una chiusa poetica in stile Comet.
Se l'ottava puntata è una doppia corsa a cui riescono a stare
meravigliosamente dietro un montaggio e una scrittura senza
segni d'affanno, nona e decima si prendono tutta la calma del mondo in vista dell'epilogo pacato e un po' magico dei film
indie. Ecco le chiacchiere in una tavola calda, il
sorriso commosso davanti a una posata fuori posto, i dubbi dopo i
titoli di coda con la promettente Hong Chau. Homecoming si
accalora, si colora, si amplia e, in campo neutrale, si apre
finalmente all'emozione. Come una gita in macchina dalla Florida alla
California, da The Manchurian Candidate a Eternal Sunshine
of the Spotless Mind, che apre gli occhi sui pro e i contro di
una società alla Black Mirror mentre invoglia a
sognare un po'. (8)
Prendete
una coppia in là con gli anni, ebrea e conservatrice: lui, pubblicitario e scrittore, riposta l'ambizione di diventare il nuovo Salinger, confessa al
barbiere l'idea di sceneggiare una serie televisiva; lei,
un po' Diane Keaton e un po' Allison Janney, è invece una consulente
matrimoniale che si barcamena fra coniugi in crisi e borghesi
annoiati. Fuori impazzano gli anni Settanta: le manifestazioni
giovanili, il rock, la ferita del Vietnam. Possono forse
sentirsi protetti dal divenire storico se nemmeno la loro casetta è
a prova di invasore? Qualcuno irrompe
nella loro routine senza annunciarsi né chiedere il permesso. È una
Miley Cyrus che a sorpresa regge benissimo i dialoghi fiume e i tempi
comici di un cinema al solito verbosissimo, con un ruolo cucitole su
misura: bionda, hippy e spregiudicata, fugge dalle accuse di
terrorismo – immaginatela come l'irrequieta Dakota Fanning di
Pastorale Americana – e semina tempesta. Pane per i denti di
un ottantenne ipocondriaco e misantropo, che sa ridere di morte e
politica a patto che nessuno mangi a tradimento il pollo della sera
prima o le adorate arance Navel. Il risultato della convivenza forzata?
Un'esilarante andirivieni che mette a soqquadro un attempato club del
libro (le adorabili partecipanti leggeranno gli aforismi di Mao, i
segreti della guerriglia, le istruzioni per fabbricare bombe con
gli stessi principi del bricolage), le ideologie di un cocco di mamma
che d'un tratto scopre di preferire le cattive ragazze (con buona
pace di Rachel Brosnaham, futura Mrs. Maisel), le giornate di
due anziani professionisti convertiti presto all'agilità dello spionaggio.
Scrive e sceneggia Woody Allen, e si sente, e si ride, e fa la
differenza. Crisis in Six Scenes,
produzione Amazon vista con estremo ritardo per via del gran parlarne
male, mi è parsa una commedia di quelle che mancavano da
un po'. Da Blue Jasminein
poi, infatti, il regista si era dato a copioni più malinconici e a
stelle più sfavillanti. Si era nascosto dall'altra parte
della macchina da presa, quando in realtà nei suoi occhiali a fondo
di bottiglia e nei suoi modi goffi mi sono sempre rivisto con estrema simpatia. In un formato per lui inedito, in una casa sempre più
rumorosa e affollata, riesce a far faville pur non osando mai con
una storia di conflitti e dissapori generazionali in cui subito mi sono
sentito nel mio elemento. Le orecchie attente ai botta e risposta
pensati con la classica intelligenza newyorkese, gli occhi che saettavano dal
poster del Che in camera da letto a un assembramento di
impareggiabili mattatori, il cuore leggero e pesante insieme. Questo
Natale sarà infatti più spento del solito, complici gli antichi scandali
rispolverati, senza le chiacchiere di Allen in sala. Che sia l'occasione
buona per scoprirlo, rivederlo o, come in questo caso, recuperarlo. (6,5)
Quando
mi sono avvicinato per la prima volta al catalogo Bookabook,
l'editore milanese che per i prossimi ottantotto giorni darà alla
mia storia dal destino ancora in forse una bella vetrina online (a
proposito: tutti i romanzi sono a metà prezzo fino a domani), mi è
venuto naturale avvicinarmi a un autore della mia età: tanta,
infatti, la scelta; troppi i generi. Nel palmo della mia mano,
allora, ecco la sola bussola della solidarietà anagrafica. Ho letto
l'esordio di Lorenzo Arrais, classe 1994, nel dubbio impellente; a
scatola chiusa. Un volume sottile ed elegante, poche pagine e, in
parte come nel caso del mio Malanotte,
una narrazione epistolare: sempre lettere aperte, ma non a una
catastrofe bensì a Mandorla. La ragazza – non di pura finzione, ho
immaginato – colpevole di avere donato al narratore i migliori
sorrisi e di averli richiesti poi indietro con interessi da usuraio.
Non
importa chi. Non importa quando. Non importa perché. Conta soltanto
il come. Lui e lei, studenti di Medicina passati in un lampo dai
ripassi insieme alla convivenza da innamorati, si sono lasciati.
L'uno porta un nome puntato, l'altra quello di un seme. Sono gli anni
dell'università, delle ultime ribellioni, dei primi sogni spariti
con il sopraggiungere dell'alba. Forse c'entra un tradimento commesso
da una giovane caustica e irrequieta, forse è colpa di un eterno
romantico più bravo in teoria che in pratica. Dettagli inesistenti
perché, in fondo, ininfluenti.
Da
quando sei volata via il mio tempo non vola più, non riesco più a
sentire il tic-tac dell'orologio, quel rumore che odiavi così tanto
e che il destino beffardo ha voluto zittire nello stesso istante in
cui i tuoi passi hanno smesso di fare eco dentro casa, ma non dentro
di me.
Ci
si preferisce concentrare sulla sofferenza del dopo, sui postumi di
una sbornia d'amore. Brutto andare in giro senza meta, di notte;
peggio ancora stare a casa in solitudine aspettando che qualcuno ci
raggiunga nel letto dalla porta del bagno semiaperta. Si ripensa al
primo incontro, si tenta di ricordare l'ultimo bacio. Soprattutto, si
scrive – su un muro con il pennarello nero, sulle superfici umide
con il polpastrello dell'indice, sull'agenda Moleskine che spunta
puntualmente dal camice stirato di fretta. Quello che non saranno
più, le parole che avrebbero voluto ma alla fine non si son detti, i
segreti per imparare a farne a meno, il pensiero di temprare la
volontà smettendo di fumare, le bugie rivolte a una lontananza da
ingannare con messaggi mai inoltrati. Fragile, empatico e
naturalmente inadeguato davanti alla felicità, L. non butta gli
oggetti rotti, piange con Bambi alla tivù, aiuta
sconosciuti con le buste pesanti della spesa. Pensa al futuro, suo
chiodo fisso, a costo di non godersi il presente. Dice di sognarsi
scrittore per vivere per sempre e specialmente per parlare con lei,
Mandorla: che l'ha sbriciolato come fosse un croissant e ormai vive
in lui, di parole e basta. E non si perdona, no, nell'incapacità di
nutrire rancore verso di lei – che forse dalla sua torre d'avorio
non soffre né lo pensa, almeno non quanto lui.
Ogni
mattina ci promettevamo che la volta dopo saremmo rimasti a letto, al
caldo del nostro piumone a fare l'amore tutto il giorno. Adesso
invece mi basterebbe che tu tornassi a prepararmi la colazione, ché
ho finito anche la marmellata. Torna e usa la marmellata che vuoi,
anche quella di agrumi, non mi importa. Però torna.
Riflessivo
e romantico, con un linguaggio un po' social che fa pensare a Chiara
Gamberale, Arrais propone uno struggimento per voce sola che non si
fa mai dialogo eppure riesce magicamente a interloquire con i
lettori. Perfino con il sottoscritto, che di rado si lascia
intrattenere da questi flussi di coscienza; che da bravo razionale
pretende il più delle volte una vicenda che abbia inizio,
svolgimento, fine. Facilitano la lettura i capitoli agili, passi da
leggere a voce alta per meglio farli propri, una schiettezza che
anche in mancanza della nota biografica mi avrebbe fatto riconoscere
Lorenzo come figlio della mia stessa generazione. Ora che il
tempo non vola più ha due protagonisti appena: i nomi
fittizi, un background semisconosciuto, un prosieguo sentimentale
incerto. Non è un romanzo epistolare, non è una storia d'amore: non
in senso stretto almeno. Ma resterà forse la lettura più giusta
nell'attesa che il tempo di noi, eterni romantici, riprenda a
scorrere. Rendendo finalmente l'innamorarsi legale, in questa eterna
ora solare.
|La terra dei figli, Gipi. Coconino Press. Fandango Editore, € 10, pp.
288 |
La
fine del mondo ha confini precisi. È cosa da metropoli americana, da
deserto del Nevada. In Italia nemmeno l'apocalisse si prende la briga
di fare tappa: il Vaticano, corsia preferenziale dell'Altissimo, ci
guarda le spalle; le ristrettezze economiche e politicanti senza
voglia di guerreggiare ci proteggono dalle armi batteriologiche,
dalle alleanze sbagliate, da meteore inghiottite in un sol boccone
dalle buche del manto stradale. Ma in un futuro post-apocalittico già
alle porte, a giudicare dai connotati familiari della
tragedia, è successo: noi, abitanti frustrati e rancorosi della
contraddittoria Terra dei Cachi, ci siamo estinti in massa. O quasi.
La
penisola è diventata una palude stagnante di acque fetide e
velenose. In nome della miseria ci si contende la pelliccia di un
cane ucciso a bastonate, pannocchie e carote come fossero beni di
lusso. Il cannibalismo è un tabù ormai sfatato, le rare donne fan gola
agli adepti di un Dio crudele, leggi inequivocabili regolano nel
dettaglio la routine delle comunità superstiti. I protagonisti
sono i membri di una famiglia di soli uomini: un padre severissimo,
che ha educato la propria prole all'atarassia, e i
suoi due figli. Fratelli opposti quanto il giorno e la notte – il
primogenito un po' matto, l'altro una roccia che osa urlare la
propria commozione soltanto sott'acqua –, con una mamma morta di
parto e un prima difficile da immaginare. Le case avevano il
riscaldamento centralizzato, il frigorifero pieno, animali domestici
accoccolati sui tappeti: possibile, si domandano increduli?
C'era
una volta un padre che voleva proteggere i figli. Renderli forti in
ogni modo possibile. Anche facendosi odiare.
Un
po' Hansel e Gretel, un po' eroi di un racconto pulp di Niccolò Ammaniti,
gli invincibili protagonisti devono cavarsela da soli quando viene meno la loro guida: quel genitore dal cuore segretamente fragile, che si
confessava spesso in un diario e condivideva qualche notte d'amore
con una donna ai margini ribattezzata la Strega. In che modo scoprire
i misteri di quel taccuino chiazzato di lacrime – illeggibile per
via dell'analfabetismo e dell'usura – se imparare a leggere non è
mai stato necessario? Cosa farsene di una terra derelitta che, sin dal titolo, spetta a bambini affamati di verità? Per venirne a
capo non basta inforcare un paio di occhiali rubati, persuadere il
prossimo con le cattive, torchiare un innocente fino ad annegarlo. È
questo infatti il motore di un viaggio che li porterà prima nella
fattoria di un'amorevole coppia di gemelli deformi, poi nelle grinfie
di una setta religiosa alla The Wicker Man: l'ossessione
divorante verso quel lascito da decifrare, che per tutto il tempo
simboleggia l'interiorità di un padre chiuso a riccio e la
cultura da salvaguardare. Fatto di picchi di umorismo beffardo, fughe
rocambolesche e comprimari impeccabili, La terra dei figli ha
una lingua che nello stile sovversivo di Patrick Ness mescola il
dialetto toscano all'inglese informatico; un immaginario super pop –
gli antagonisti, pensate, indossano T-Shirt degli Eagles o dei
Nirvana –; un milione di modi in cui uccidere o farsi uccidere,
sperimentare il brivido della vendetta o la quiete della pietà.
«Tu
da quanto tempo non ti fidi di qualcuno?»
«Da
un po', per questo sono ancora viva.»
I
silenzi contemplativi abbondano, al pari delle brutture sanguinarie e
della spossatezza fisica. E all'orizzonte si delinea uno scenario
acquitrinoso che non ha bisogno di effetti speciali, fuoco e fiamme, per inquietare nel profondo: la luna, nel cielo notturno, sembra la
bocca di un pozzo. Si lavora allora sui dettagli psicologici, sulle
linee frastagliate dei volti e delle ossa: si lavora a togliere. Si
imparano ad apprezzare pagina per pagina il clamore dei bianchi, il
graffio rabbioso dei neri, le perle racchiuse in baloon compilati a
mano libera. Si parla, sì, di graphic novel: eccezione alla regola
resa possibile dai prezzi vantaggiosi della Biblioteca della
Repubblica e dalla fama straordinaria di un artista arrivato perfino
al premio Strega. Come recensire Gipi, in questo periodo anche in sala con il suo secondo lungometraggio, io che eppure non ho mai scritto di
fumetti prima d'ora? Impressionato dalla potenza espressiva della
lettura, dalle suggestioni di un autore con la lettera maiuscola, non
mi sono posto affatto il problema. Ho scritto così come mi è venuto, a
gomito, di una scoperta bellissima e di un futuro post-apocalittico
già alle porte. Quello in cui la speranza è custodita nelle carezze
e nelle domande apprensive delle donne; nell'incertezza del guado.
Quello in cui poter ammettere con l'emozione in gola che la mia
prima volta con la nona arte – e con Gipi no, non sarà l'ultima:
in edicola ho preso a scatola chiusa già i volumi successivi – non
la scorderò mai.
Il
mio voto: ★★★★
Il
mio consiglio musicale: The National - About Today
Quando
si è in caduta libera non resta che un ultimo gesto disperato:
tornare alle origini. American Horror Story, da otto anni a
questa parte, ha sempre avuto dalla sua ambizioni e difetti
esagerati. Dalle case infestate al circo, passando attraverso gli
istitutiti di igiene mentale e la politica contemporanea, ha saputo
rinnovarsi nel bene e nel male. Prendendo una china sfortunata da
cui, tra spettatori che danno forfait e mancati successi nella
stagione dei premi, anche gli autori non avranno
visto ritorno. Quest'anno si ripiega perciò sulla furbizia, in
mancanza di idee brillanti; e a sorpresa, pensate un po', ci si trova a rivalutare in positivo anche le caotiche Hotel,Roanoke e Cult.
Si parla di un futuro prossimo in cui, all'indomani di un'apocalisse
ordita da una coppia di hacker sopra le righe e l'Anticristo, i
sopravvissuti vivono in un bunker arredato come una fortezza
medievale: sono parte dell'èlite – un'ereditiera, una
presentatrice tivù, una gloria del cinema horror – e per capriccio
hanno portato laggiù amanti, parrucchieri e domestiche.
Nei primi episodi assistiamo a una convivenza claustrofobica fatta di
strepiti, regole ferree e tracolli psicologici. Dal terzo in poi,
forse l'unico degno di nota, un ribaltamento a sorpresa trasforma
Apocalypse in quello
che era stato preventivamente annunciato: un crossover. Non vi dico
come né perché – i nessi, fidatevi, sono futilissimi – ma
scendono in campo le streghe di Coven,
stagione da me tutt'altro che apprezzata, per salvare le sorti della
serie e sconfiggere un Diavolo in terra agghindato a metà tra Lady
Oscar e un cattivo di
Twilight. Che fine
aveva fatto la Congrega al femminile e come ha potuto ingannare la morte? Cos'è
stato di Michael Langdon, il bambino infernale concepito
alla fine diMurder House?
Le streghe hanno trovato la passata formazione e cercano la nuova
Suprema: appaiono sprecate, a tal proposito, le partecipazioni in
sordina di Farmiga, Rabe e Bassett, se a lungo rubano la scena le
battute salaci delle sempre straordinarie Sarah Paulson e Frances
Conroy. L'incursione sui luoghi maledetti della stagione introduttiva
è d'obbligo, ma l'effetto nostalgia fa sorridere senza compiere miracoli: un inchino al cameo di Jessica Lange,
il rischio glicemia per il tardivo lieto fine degli amatissimi Tate e
Violet, e subito si scappa a far guerra contro l'Anticristo – con
una piccola tappa in quell'Hotel Cortez senza più tracce di Lady
Gaga. Veli pietosi sui flashback nella Russia dei Romanoff, su una
Bates in versione Terminator, sulle trasformazioni camaleontiche di
un Peters che cambia pelle ma resta svestito di ruoli memorabili.
Compitino presuntuoso e stucchevole, impunemente trash, l'ultimo
American Horror Story
sembra l'opera di un feticista dello show che si sognava sceneggiatore improvvisato: il risultato, godibile ma spesso
involontariamente comico, è una fanfiction fine a se stessa che
regala alla premiata ditta di Murphy la sua annata peggiore. Bisogna
forse auspicarsi conflagrazioni da fine del mondo per far tabula
rasa dello sfacelo in corso? (5)
Dopo
l'approccio negativo con la prima stagione e qualche pregiudizio di
troppo, lo scorso anno avevo evitato senza rimpianti il soggiorno
nella corte più raffinata d'Italia. Non ho conosciuto il Cosimo di
Richard Madden, così, né assistito alla progettazione della famosa
cupola di Brunelleschi. Qualcuno mi consigliava di tornare sui miei
passi, ma la pigrizia e la scarsa attrazione verso le produzioni in
costume hanno sempre avuto la meglio sull'idea passeggera di
recuperare la fortunata collaborazione tra Rai e Stati Uniti.
Approfittando della natura antologica della serie kolossal, non so
nemmeno io perché, ogni martedì sera per quattro settimane mi
sono ritrovato ad assistere agli intrighi e ai sospiri di due
generazioni successive di Medici. Cosimo e Contessina, ancora
rimpianti, si sono trasformati in leggenda nel ricordo del popolo
toscano. L'antico splendore, però, ha un prezzo salatissimo. Se le
strutture desiderate dall'illustre avo sono ancora solide e
inattaccabili, lo stesso non può dirsi del potere della famiglia. Fra la secolare rivalità con i Pazzi di Sean Bean – questa volta,
statene certi, non passerà a miglior vita troppo presto –, le trattative con gli Sforza e i disperati tentativi di
procurarsi i favori di papa Raoul Bova, gli sconvolgimenti sono
nell'aria. Con l'arte e la poesia messe ai margini, abbondano le
alleanze politiche e matrimoniali, e voltafaccia di cui si
finisce per perdere il conto. Il risultato finale non annoia né
coinvolge, grazie o a causa delle trame arzigogolate e di parentesi
romantiche rubate a man bassa a uno sceneggiato per signore. C'è la
volitiva Clarice, non la classica moglie oggetto, desiderosa di
imporsi ai danni della fatale e pessima Alessandra Mastronardi. Ci
sono i biondissimi Bradley James e Matilda Lutz – rispettivamente
Giuliano e Simonetta, in posa per un capolavoro pittorico dell'amico
Botticelli –, amanti appassionati nonostante il matrimonio
oppressivo e la salute cagionevole di lei; la sorella minore Aurora Ruffino, invece, è innamorata del nemico
giurato come in una riscrittura di Romeo e Giulietta. A
prendere le redini di tutto con un colpo di stato è il giovane
Lorenzo, amato dalle donne e odiato dai restanti altri: il britannico
Daniel Sharman, che già rubava la scena in Teen Wolf per una
bellezza e una mascella fuori dal comune, si conferma il migliore di
un cast miscellaneo – poco convincente, in definitiva, l'interazione
fra voti internazionali e nostrani, con gli ultimi penalizzati dal
doppiaggio scadente – insieme a Matteo Martari, antagonista dal
fascino sinistro. Impossibile farsi bastare l'opulenza di
scenografie, costumi, trucco e parrucco. E no, non contano nemmeno
la sigla di Skin o le scene di nudo audaci per
la prima serata. Avrebbero giovato una sceneggiatura meno romanzata e
più solida, i ritmi sostenuti proposti negli episodi conclusivi: I
Medici, tocca riconoscerglielo,
è una serie che per fortuna migliora strada facendo. Fino a un
finale appassionato e violento – la congiura dei Pazzi non poteva
che essere il logico congedo –, dove l'azione e il sangue delle
vittime sacrificali trionfano sui languori da Harmony e i buchi di
una sceneggiatura che distingue fra figli e figliastri. Nella
programmatica scena di chiusura, culmine perfetto, arriva infatti la
Primavera a rianimare in time lapse una tela squarciata. E
assieme a lei, allora, fioriscono le speranze per un prosieguo da
attendere perfino con un briciolo di curiosità aggiunta. (6,5)
Dall'omosessualità
si può guarire. Lo cantava Povia a Sanremo, ne sono fermamente
convinti i bigotti, impartiscono lezioni di virilità le scuole a
tema. Come se amare qualcuno uguale a te fosse un tumore allo stradio
terminale, un difetto alla vista, una slogatura: un accidente, un
malanno più o meno reversibile. Esistono istituti specializzati in
cui vieni perquisito nel dettaglio, schedato e dunque corretto: il
cellulare deve avere una cronologia immacolata; le tentazioni della
carne vanno scoraggiate inscenando i falsi funerali dei dissidenti; i
sensi di colpa e l'intolleranza sono nutriti a suon di preghiere.
Qualcuno abbassa la testa e impara ad apprezzare le donne, lo sport,
Dio. Qualcun altro, invece, non ce la fa: non restano che il suicidio
o, nella migliore delle ipotesi, la fuga. Non sto descrivendo una
distopia alla Margaret Atwood né parlando di un passato dimenticato.
Sono reduce piuttosto dalla lettura di Boy Erased.
Il dramma psicologico di un figlio dei miei tempi, nonostante appaia
davvero difficile crederlo, che a diciannove anni giocava a Halo,
leggeva Harry Potter,
scopriva la differenza fra l'amore e il sesso. Frequentava una
coetanea, Chloe, e a tratti pensava perfino di amarla. Ma durante il
primo anno di università sperimenta l'attrazione per David, bello e
prepotente, a riprova di tendenze omoerotiche da sempre intuite: ci
va a letto e l'esperienza con il ragazzo sbagliato lo segna in
negativo. È allora che finisce per confondere il sesso gay con lo
stupro. Glielo suggerisce il padre, pastore del profondo Sud dall'improvvisa vocazione. Glielo conferma il movimento ex-gay, presso il
quale si hanno due settimane iniziali per ritrovare la retta via.
Guardai
le fotografie incorniciate appese alle pareti del soggiorno, tutti i
volti sorridenti dei nostri famigliari che mi guardavano dall'alto,
la prozia Ellen quando era ancora giovane e ignara di tutto, e mi
dissi: Qualsiasi cosa. Farò qualsiasi cosa pur di cancellare questa
parte di me.
L'outing
ha ripercussioni pesantissime. Il giovane Garrard, pur di onorare il
padre e la madre, perde peso, amici e identità. Lui che sin da
bambino sognava di fare lo scrittore, così, si racconta – e si
ritrova – nella cronaca della sua silenziosa ribellione. Quante
maschere ha indossato in nome del quieto vivere? Prima l'avatar dei
giochi di ruolo online, poi la matricola di studente di Lettere,
infine la sessualità cancellata con spugna e sapone presso
l'organizzazione Love in Action. Cos'è di lui, che ha vissuto una
doppia vita senza preoccuparsi intanto di costruirsene una propria,
oggi? Ne viene fuori un resoconto freddo e distaccato, per
quanto ben scritto, a opera di un ventenne confuso e perennemente in
colpa. Un narratore poco amabile – spiace dirlo, ho fatto fatica a
empatizzare con il suo esagerato spirito di abnegazione –, che
tuttavia sa renderci partecipi di un clima di riconciliazione troppo
improntato a celebrare le sfumature della diversità per puntare il
dito contro i consulenti (non c'è, infatti, nessuno che lo obblighi)
o i genitori (un predicatore che vorrebbe tenere invano tutto sotto
controllo, una sosia di Dolly Parton confidente e gioviale). Colpa
mia se mi aspettavo qualcosa di diverso. Volevo commuovermi e
indignarmi, volevo il dramma viscerale: il romanzo più che il saggio
a tesi. Con Boy Erased non
c'è stata la proverbiale epifania: lettura impegnata, ma per me poco
coinvolgente, che ho trovato frammentaria e confusa nell'alternarsi
dei piani temporali. L'intolleranza altrui ha allontanato l'autore
dalla fede e dall'amore. Dieci anni dopo, qui, prova a rimettere
insieme i pezzi.
Alle
superiori avevo sprecato molte energie per evitare di farmi piacere
troppo i libri; temevo che delle storie coinvolgenti mi avrebbero
trasformato in un eretico, mi avrebbero fatto imboccare uno dei
sentieri empi in cui finivano regolarmente i personaggi che amavo.
Solo durante il mio primo e unico anno di università, in un ambiente
dove la lettura era incoraggiata, mi ero sentito davvero libero e per
poco non avevo dimenticato che cosa si provasse a sospettare del
potere di un libro.
L'emozione
arriva in ritardo e solo allora: scoprendo che il danno psicologico non
era irreversibile, che in fondo c'è speranza. Garrard Conley ha sì
un corredo genetico che a volte gli dà da pensare – il promemoria
di una prozia malata di mente, quando per molti le sue inclinazioni
altro non erano che i segni di un bipolarismo in fieri –, ma anche
un film di prossima uscita in cui lo impersonerà Lucas Hedges,
parenti illuminati che gli hanno rivelato che l'importante è essere
felici, un matrimonio solido alle spalle. Con un uomo. Basta il lieto
fine allora per perdonargli le parole di troppo e quel cuore, al
contrario, sfiorato a malapena; per fare mia una formula dei
dipendenti anonimi. Grazie per la condivisione, ti vogliamo bene.
Il
mio voto: ★★½
Il
mio consiglio musicale Troye Sivan & Jònsi – Revelation
I
venti funesti di Halloween sono passati così come sono arrivati.
Nelle vetrine del cinese all'angolo brillano già le
luminarie natalizie. Tra una cosa e l'altra, questa volta, sono
rimasto un po' indietro: la zucca da buttare con un groppo in gola
nell'umido organico – è stata la prima incisa da me, l'ho chiamata
Belinda –, il mancato biglietto per il reboot di John Carpenter in
sala, la recensione di un romanzo rispolverato in una sera di candele
tremolanti e castagne tenute in caldo. Fino al mese scorso inedito in
Italia, I due esorcisti ha
preceduto di un decennio buono romanzi cult come L'esorcista
e Rosemary's Baby. I
titoli venuti dopo, non facciamone mistero, lo hanno raggiunto e
abbondantemente superato in fretta. Nell'inedito di Ray Russell –
scomparso vent'anni fa e nel mentre diventato autore cult per Stephen
King e Guillermo Del Toro –, c'è tuttavia del pionieristico: molto di lodevole. Un'ironia affilata e un gusto per il satirico, ad esempio, che nei
primi anni Sessanta facevan sì che lo scrittore parlasse e
sparlasse senza peli sulla lingua di ciò che di più sacro esistesse
per l'americano medio: la Chiesa e la famiglia.
Non
potremmo dire che gli attuali psicoanalisti, credendo di curare
scientificamente i loro pazienti, stanno invece praticando in maniera
inconsapevole un moderno esorcismo che scaccia effettivamente e
letteralmente il diavolo dai corpi dei loro pazienti? Danno alla cosa
un altro nome, ricorrono a rituali e termini differenti e si
rifiutano di riconoscere il Diabolus quando lo vedono, certo, ma
questo si spiega semplicemente rifacendosi a Baudelaire. È così che
vuole il demonio. La migliore astuzia del diavolo sta
nel convincerci che non esiste.
Siamo al St. Michael: parrocchia che appare decorosa ma provinciale agli occhi
del nuovo parroco, abituato alle migliori frequentazioni e alle
peggiori calunnie. Padre Sargent, bello e chiacchierato, è approdato
in città perché in fuga da uno scandalo. Peccava infatti di
eccessiva vanità e, di tanto in tanto, alzava un po' troppo il
gomito. O una retrocessione o la scomunica, gli hanno intimato, proponendogli di sostituire un sacerdote destinato ad altre greggi. Forse perché promosso, forse perché in
procinto di scappare da qualcosa di losco: l'influenza di
Susan Garth. La sedicenne, orfana di madre, rifugge la
vista del crocifisso, si spoglia in pubblico attirando sguardi
libidinosi, pecca di cattiva condotta. Le servirebbe uno psichiatra,
ma un padre burbero e omertoso la porta invece in canonica. Da lì i
parrocchiani sentiranno urla e risate indecorose, il frastuono dei
vetri infranti, l'odore dello scandalo. Non sanno che c'è un
logorante esorcismo in corso né che Sargent – la barba sfatta e
tentazioni dappertutto – è affiancato dal Vescovo Crimmings in
persona. All'appello non possono mancare vomito, turpiloquio e
mutilazioni corporee. Ma il rito, per fortuna, questa volta è fatto
più di parole che di brutture. Mentre la mano dell'Altissimo minaccia
all'esterno fulmini e saette con un temporale da apocalisse biblica,
fra le mura sacre si è tutti presi da un assedio di cui sono ignari
i pettegoli e i complottisti della città. Una prova di forza
disputata da sacerdoti di generazioni opposte: il primo scettico e
con gli scritti di Kafka e Baudelaire sul comodino, l'altro dal credo
incrollabile. All'inizio, eppure, scartano l'ipotesi di una
possessione demoniaca. Forse che in fondo non credano nel Diavolo, e
dunque in Dio? Il bene e il male, infatti, sono facce complementari
della stessa medaglia.
L'omicida
e la vittima si guardarono l'un l'altro con una certa comprensione e,
in quel frangente, compresero per la prima volta la più profonda,
terribile ed eterna verità della dannazione: che non distingue tra
colui che commette l'atto colpevole e colui che in cuor suo desidera
sia commesso.
Ben scritto ma sconsigliato a chi in
cerca di brividi facili, I due esorcisti doveva risultare
senz'altro provocatorio per l'epoca: i vizi privati del clero messi
alla berlina, la denuncia della violenza fra le mura domestiche, le
prime controversie sessuali e nessuna risposta consolante racchiusa
nell'epilogo. Le pagine son poche, la suspance abbonda. Merito dei
salti equilibrati da un personaggio all'altro e di un'inattesa
dimensione corale. Dei capitoli lapidari e accattivanti, conditi da
dialoghi fiume e tracce di psicoanalisi. Di una struttura variabile
che, alla maniera degli autori moderni, vive sospesa fra psicologia
ed esoterismo, questo mondo e l'altro. Quanto è sottile la linea che
li separa, tocca chiedersi, se l'autore chiude il romanzo con un
inquietante aneddoto biografico? Il ronzare di quattro mosconi
sbucati dal nulla gli diede il tormento, pare, proprio nella
stesura del capitolo clou: un frullare di ali, uno sfregare di
zampette che lasciano suggestionati al pensiero di questo presunto
sabotaggio. Ben più della lettura di un horror che paura non me ne ha fatta, no, ma in compenso mi ha
regalato un'importante lezione di filosofia morale sulla
fede, il libero arbitrio, la natura spinosa del peccato.
Il
mio voto: ★★★
Il
mio consiglio musicale: Depeche Mode – Black Celebration
Appena una settimana fa trovavo il coraggio di condividere con voi un'altra
parte di me. Una storia scritta e riposta, con il serio rischio di
tradirmi dimenticandola, finalmente in cerca di una casa sua.
Ancora prima che presso un editore – e di questo devo dirvi grazie,
mille volte grazie – l'ha subito trovata in voi. Che l'avete
accolta con curiosità, condivisa e suggerita, fatta un po' vostra a scatola chiusa. Nei giorni scorsi ho cercato di vestirla al
meglio per non deludervi. Nelle venti pagine di anteprima previste
della Bookabook ho cercato così di imbrogliare come potevo, fra
tagli strategici e un font minore, mettendoci tutta la dolcezza di
Milo, scorci delle ombre di Eureka, una nuova arrivata che fa il suo
ingresso proprio sul più bello. Ho inseguito i colleghi blogger per
il passaparola, scritto due post – questo è il terzo e ultimo, giuro –, limato i capitoli introduttivi nei
limiti delle mie possibilità (e che fatica incastrare incombenze
grandi e piccole, ma ce l'abbiamo fatta anche questa volta
mascherando il fiato corto). Come ti senti, mi ha chiesto qualcuno?
Felice, agitato, dubbioso? L'ansia è andata sbollendo man mano, sarò
sincero, come succede in fila agli esami decisivi, e adesso non mi
resta che quel moto di rassegnata accetazione che sulla mia faccia
somiglia vagamente alla pace dei sensi. Ho fatto il mio, infatti, e
da quando lo scorso venerdì ho inviato il file Word all'editore ho
ripreso a respirare più piano dedicandomi alle cose di sempre: sfoltire la barba cresciuta nel mentre, ripetere Romanza per l'imminente
appello per laureandi, pulire il bagno e fare la spesa, scrivere
recensioni arretrate che tuttavia non hanno perso d'urgenza. Da
domani si riprende con la solita vita, con il solito blog – lo
stesso che con quasi 4000 voti, ho scoperto, si è classificato sesto ai
Macchianera Internet Awards. Oggi, invece, sono online.
| Malanotte.
Lettera aperta a una cara catastrofe.
Cartaceo, € 16.00. Ebook, € 5,99. pp. 280 |
Sono
le mogli affrante di un gruppo di criminali colti in flagranza di
reato. I loro mariti avevano una doppia vita di cui non le donne non
erano a conoscenza e, siccome l'elaborazione pretende spietate
simmetrie, adesso hanno diritto a una doppia vendetta raccogliendo
fedelmente l'eredità dei compagni. Colpiscono il sistema
coalizzandosi e, insieme, le sale cinematografiche di un mese già
pieno di uscite. Se lo sviluppo da classico heist movie poco chiama – l'omonimo romanzo di Lynda La Plante ha già ispirato
una miniserie degli anni Ottanta –, lo stesso non può dirsi di un
cast femminile al tempo del #metoo.
Cuore della rapina una Viola Davis sempre e comunque in odore di
nomination. Le menti, invece, sono lo Steve McQueen di Shame e 12 anni schiavoe l'onnipresente
Gillian Flynn.
Chesil
Beach
15
novembre 2018
Squadra
vincente non si cambia. Lo sa bene Ian McEwan che, passato purtroppo
in sordina con l'intenso The Children Act di cui si parlerà a breve,
quest'anno torna sul grande schermo portandosi dietro una piccola grande
interprete a cui devo il mio amore e il mio odio smisurato per
Espiazione: maestoso
dramma in costume che sempre da un romanzo dell'autore britannico era tratto. Siamo nei primi anni Sessanta, il sesso è tabù. Come
se la caveranno a letto due timidi sposini – lei non poteva che
essere, allora, l'instancabile Saoirse Ronan – durante una travagliata luna di miele? Il romanzo, a
titolo preventivo, mi aspetta sul comodino.
Un
piccolo favore
13
dicembre 2018
Una
gentilezza tra mamme, una cosa da poco. Soprattutto se tu sei Anna
Kendrick, blogger goffa e svampita, e lei al contrario ha le forme statuarie di una Blake Lively affascinante e autoironica. Peccato che
l'invidiata moglie trofeo scompaia nel nulla, con una valigia carica
di segreti e un compito ingrato per l'altra. Il giallo è dietro
l'angolo, nel film campione d'incassi di Paul Feig, ma si tinge a
tratti di glamour e sorrisi sardonici come pare succeda nel romanzo di Darcey Bell. Un po' thriller, un po' chick lit: sarà all'altezza dei paragoni con Big Little Lies?
The
Little Stranger – L'ospite
31
agosto 2018 (USA)
Nemmeno
il tempo di buttare via la zucca intagliata, di chiudere la parentesi
dedicata a brividi freddi e salti in poltrona, che mi trovo di nuovo a
pretendere una visione a tema Halloween. E che visione! Una
villa infestata, l'arrivo di uno straniero, il confine invisibile tra
psiche e paranormale. Scrive Sarah Waters, consolidata promessa del
mystery. Dirige Lenny Abrahamson, che dopo l'indie si dà al gotico.
Ruth Wilson, Domhnall Gleeson e Charlotte Rampling, invece, figurano
come eccellenti padroni di casa. I tiepidi pareri d'oltreoceano
suggeriscono di non aspettarsi il bis, no, all'indomani dei fasti di The Haunting of Hill House. Male che vada, comunque, cosa pretendere di più
british di così?
Wildlife
19
ottobre 2018 (USA)
Ci
sono tanti, troppi buoni motivi per cui dovremmo affrettarci a
conoscere la storia dei coniugi Brinson. Proviamo a elencarne appena un
paio. Si tratta di un dramma neorealista in stile Revolutionary
Road che parla di sogni – l'amore per sempre, quello americano
– in crisi: a portarlo in libreria è stato
l'osannato Richard Ford. È l'esordio alla regia di Paul Dano, attore passato dall'altra parte della macchina da presa fra gli applausi di Cannes e del Sundance. Segna la prima collaborazione tra alcuni dei più grandi e sottovalutati di Hollywood: Jake Gyllenhaal e Carey
Mulligan. Abbastanza per diresì, sì, assolutamente sì?
Bel
Canto
14
settembre 2018 (USA)
Avrebbe
dovuto dirigerlo il nostro Bernardo Bertolucci prima dell'inattività, pare.
Lo ha salvato dal cestone delle sceneggiature dimenticate, infine, il
volenteroso Paul Weitz. È tratto da un titolo Neri Pozza atteso al
varco per una ristampa richiestissima in rete. Ha fra i protagonisti i premi Oscar Julianne Moore, qui splendida cantante
lirica, e un Ken Watanabe sotto sequestro. Insomma, quando è così,
viva il riciclo. Presi in ostaggio dai terroristi in un paese del Sud
America, i due saranno al centro di una storia di suspance,
solidarietà e forse amore. Che melodramma vecchio stampo sia, purché
appassionato.
Lunedì ho condiviso con voi annuncio e agitazione.
Leggere i vostri commenti mi ha messo il cuore in pace e,
abbiate fede, fra una lassa di Filologia da tradurre e qualche altro preparativo
da ultimare, prometto di rispondervi uno a uno, piano piano.
Domani
mi apriranno le porte sia Pensieri Cannibali con
un'intrigante playlist a tema, sia Un libro per amico con
un assaggio dell'incipit nella rubrica Chi ben comincia.
Il
12 novembre, invece, il lancio ufficiale previsto per il tardo pomeriggio: una volta online sul sito Bookabook, ve lo ricorderò sui social e con
un piccolo banner nella colonna laterale del blog. Vi ho
parlato di date, cifre e scadenze. Delle mie immancabili ansie da
tenere a freno e del progetto di crowdfounding, gradino poco
convenzionale che a tratti spaventa. Resta, a questo punto, la cosa
più importante: il romanzo da presentarvi. Con tanto di nota
biografica e quarta di copertina, che ritroverete nel mezzo della
campagna, e un'immagine promozionale. Essendo la
pubblicazione in forse non ho una copertina da diffondere, ma l'editore
mi ha dato carta bianca e libero accesso a quell'immenso archivio di scatti che è il sito Unsplash. Avevo in mente un unico dettaglio
fondamentale – una lampadina incandescente nel buio – e il tocco
magico della mia amica Sara, eccezionale padrona di casa di My Caffè Letterario, ha trasformato poi una semplice foto in una meraviglia. Avrete
senz'altro modo di sentirmi parlare qui e lì di Malanotte,
di com'è nato, quando o perché. Potrete chiedermi di leggere o
sfogliare una bozza del romanzo non appena lo avrò riletto e
impaginato – sarà compito di un editor professionista, in caso venga raggiunto il goal dei 250 lettori, ma da perfezionista insicuro quale sono preferisco avere l'ultima parola
e, soprattutto, il tempo di tirare di nuovo le fila. Mi eclisso lasciando la parola al mio Milo: un taglio netto del cordone
ombelicale. Spero vogliate avere cura di lui. E attraverso di lui,
così, anche di me.
|
Malanotte.
Lettera aperta a una cara catastrofe.
Cartaceo, € 16.00. Ebook, € 5,99. pp. 280 |
SINOSSI
Cronometro
alla mano per lavarsi i denti, i lacci delle Converse a far pendant
con gli stati d'animo e corde del bucato su cui sventolano i
capolavori di Beethoven. Milo Jenkins, sedici anni, è un virtuoso
del pianoforte, ha mille nevrosi e il fantasma di un pesce farfalla
per migliore amico. I suoi lunghi silenzi e un candore senza età
hanno reso sicura la diagnosi: è affetto da una forma di autismo ad
alto funzionamento. Un ragazzo speciale, lo definirebbe qualcuno. Se
vivi in una città che somiglia alla cupa Eureka, però, non ci sono
parole gentili per un orfano di madre con gli occhiali a fondo di
bottiglia, la schiena ricurva sotto il peso dei libri e gli incisivi
a zappa. La svolta tanto sperata ha la gonna troppo corta e le
occhiaie viola di Iris, forestiera bella come un film di Tim Burton.
Sulla tela della loro adolescenza, uno schizzo rosso sangue. Sotto
una coltre di foglie secche, cadaveri innocenti. Corre, Milo. Ma
verso Iris o lontano da lei? Un diario ritrovato, un'eredità
improrogabile, due storie parallele che si incontrano seguendo il
filo conduttore della musica. Truce e dolce, Malanotte. Lettera aperta a una cara catastrofe è una fiaba splatter
dove i baci hanno un retrogusto segreto e tra sogno e delirio, amore
e morte, non c'è grado di separazione.
L'AUTORE
Michele
Del Vecchio (Palermo,1994) nasce su un'isola, passa le estati della
sua infanzia all'ombra del Vesuvio e a otto anni si trasferisce nella
regione che, stando a torto alla pagina Facebook, non esiste. Vive
tra Termoli e Pescara con quel che resta della sua famiglia e
l'irresistibile Ciro, un tigrato europeo che odia tutti e in cui
spera fermamente di reincarnarsi in un’altra vita. Fondatore nel
2012 del blog Diario di una dipendenza e plurifinalista ai
Macchianera Internet Awards nella categoria Miglior sito letterario,
sta lavorando a una tesi magistrale in Letteratura teatrale italiana.
Scrivevo
queste esatte parole. Ai fedeli degenti di Diario di una dipendenza, che
hanno creduto. Purtroppo, nel mentre, al solito, non ci ho creduto
io. Rischiando che le dediche in apertura andassero sprecate e che le
mie storie, sotto silenzio, finissero nel cassetto della scrivania in
cui tengo le foto di famiglia che non guardo più e un pacco di pastelli dalla punta ben temperata, ormai inservibili per chi, con l'inattività, ha
dimenticato quanto gli piacesse disegnare da bambino. Ho rispolverato
il tutto, in questi giorni, perché ho trovato infine il coraggio
di fare una cosa molto poco da me: in cerca di salvezza dal pantano di
un settembre bruttissimo, e forse lo avrete percepito fra le righe di
qualche post, ho mandato in giro una cosa scritta qualche anno fa e presto messa da parte. È successo che qualcuno, a sorpresa, mi ha risposto nell'arco di un mese.
Ho ricevuto un contratto editoriale, una chiamata a casa con il prefisso di Milano, una data
che cadrà proprio il prossimo lunedì. La vita, sarò sincero, mi ha preso in
contropiede. Neanche il tempo di riuscire a domandarmi tra me e me: in cosa mi sono
imbarcato proprio adesso, con gli ultimi esami, la tesi magistrale,
un alloggio da fuori sede per le mani? Ho accolto la notizia con un misto familiare di orgoglio e paura. Nel momento più giusto e sbagliato dell'anno.
Al pensiero che quel treno, poi, sarebbe passato oltre. Ho scritto
un romanzo un po' sui quaderni a righe del liceo classico, un po'
all'università. Bookabook mi ha dato il via libera. Mi pubblicano
(forse).
Bookabook
e il crowdfounding
In
una parentesi tonda, eccola lì: l'incertezza. Perché la proposta di
pubblicazione non è il traguardo, questa volta, ma il punto di partenza.
Bookabook, editore indipendente giovane ma dalle idee brillanti,
lascia che la parola decisiva spetti ai lettori. Dopo la regolare
selezione, infatti, finirò in prevendita nella data pattuita: sul
loro sito troverete a breve una sinossi, una breve nota biografica,
un'immagine promozionare ancora da definire e,
soprattutto, venti pagine da sfogliare in anteprima. Parleranno i
numeri, parlerà chi mi acquista. Per quale motivo arrischiarsi a
pubblicare un romanzo che nessuno vorrà leggere, se l'editoria è
satura di novità e di pessimi investimenti? Dal 12 novembre sarò
allora in prevendita, in versione cartacea (€ 16,00) e in ebook (€ 5,99). Limpidissimi,
i ragazzi della Bookabook mi ospiteranno sul loro sito per cento
giorni, fino alla chiusura della campagna: cosa avrò raccolto nel
mentre? Si spera, abbastanza lettori – minimo 250, che pochi non sono –
per andare avanti nel mio percorso: essere seguito da un editor,
pubblicato, distribuito nelle librerie fisiche e virtuali. Cosa
succede se il goal delle campagna di crowdfounding non dovesse essere
raggiunto? I diritti del romanzo torneranno miei, il denaro delle
prevendite sarà restituito agli acquirenti e, al di sopra delle 60
copie vendute, pur non essendoci chance di pubblicazione, l'editore
si impegnerà comunque a far ricevere copie limitate e corrette ai
lettori di buona volontà che, a scatola chiusa, si son fidati di
me. Non vi nascondo che, giacché timidissimo, pessimo a vendermi, più
abituato a parlare delle cose altrui che delle mie, il gradino da
superare mi pietrifica. Cosa ho da perdere, d'altra parte? Me lo
domando da giorni, e così facendo mi faccio forza. Qualcosa bolle in
pentola, vero, ma a un passo da Halloween ho avuto paura a sollevare il coperchio. Mi guardo intorno – vi leggo, vi vedo –
e mi rassicuro già. Mi butto (lo prometto: non via).
I
passi da fare
Non
ho intenzione alcuna di snaturare il mio blog, in cui continuerò a parlare
di cinema, serie TV e romanzi con cadenza regolare – non del mio, tranquilli! Non voglio darmi
allo spam selvaggio, né costringervi a post a tavolino o a blog tour
in nome di una lunga conoscenza. Non vi annoierò: liberissimi, anzi, di essere interessati ai miei post e non al resto. Come si fa a
consigliare spassionatamente, tra l'altro, un romanzo ancora in
forse? Qualcosa che c'è e non c'è al tempo stesso? Un gatto di Schrodinger? Devo chiarirmi
le idee: cerco consigli spassionati e un po' di pubblicità, che non guasta. Oggi
stesso scriverò all'editore – a tal proposito ringrazio
pubblicamente la redazione, e in particolare Chiara, che perora
instancabilmente la mia causa e risponde senza batter ciglio alle mie
domande più stupide – e spero di potere inviare a coloro
che lo vorranno il banner, la sinossi ufficiale e un estratto per
un'anteprima a tema. Poco ma sicuro, venerdì mattina sarò ospite sul blog
Pensieri Cannibali per parlarvene un po' attraverso una speciale playlist.
Il
romanzo: Malanotte
In
questi giorni l'ho sfogliato di nuovo, sapete? La rilegatura scricchiolava,
talmente tanto era il tempo passato dall'ultima volta. Maestro
nell'autodemolirmi, così come avevo cercato invano l'inghippo in un contratto oggettivamente inappuntabile, volevo convincermi che
i miei personaggi, la mia storia, non mi parlassero più. Invece sono
cresciuto, sono cambiato, ma a sorpresa non ho smesso di volere loro bene. Ho un difetto, infatti: mi affeziono a tutto
quel che faccio, anche se mi dicono spesso che non dovrei. E così mi sono
scoperto affezionato ancora a loro, che mi hanno fatto compagnia
durante l'ultimo tratto dell'adolescenza e nei pensieri dei quali,
ormai ventiquattrenne, potrò rispecchiarmi ancora per poco. Ci vuole
un'età per tutto, credo: certamente per essere credibili. Ci vuole un foglio
volante che tenga traccia di chi e come sono stato: l'adolescenza, per
quanto atipica sia stata, penso vada tenuta stretta. Era nato così Malanotte
(che per ragioni editoriali molto probabilmente avrà un
sottotitolo). Per dire che alcune città alla Stephen King di giorno
possono sembrare rassicuranti, ma
la notte
qualcosa cambia nell'ululato del vento. Per dire che se hai sedici
anni, gli occhiali a fondo di bottiglia, i denti storti e mille piccole manie certe notti
possono sembrare cattive da morire. Per dire, soprattutto,
qualcos'altro. Se non hai il physique
du rôle,
nella migliore delle ipotesi, altrove ti ridurrebbero infatti a una spalla comica; a un figurante anonimo che non ha diritto strada facendo a
qualche colpo di testa o di cuore. Qui, invece, ti ritrovi tuo malgrado voce narrante e
protagonista assoluto: puoi risolvere all'occorrenza il
giallo di macabri omicidi rituali, innamorarti dell'ultima arrivata in città mentre in un cinema d'essai guardate
Cantando
sotto la pioggia,
avere finalmente voce in capitolo. A partire dalla settimana prossima, a tal proposito, potrete avere voce in capitolo anche voi, che ringraziavo già in quella dedica programmatica. Miei
sostenitori sulla fiducia, spero, capaci di farmi credere nei miracoli della lettura e in com'è che gira il mondo ancor prima che aprissi bocca. Per questo e per altro, per questi sei anni e mezzo di blog ad esempio, già grazie.
Hanno
vissuto per quindici anni in un bunker. Pensavano che la vita, fuori,
fosse stata spazzata via dai venti di un'apocalisse biblica.
Purtroppo per loro, si sbagliavano. Le Donne Talpa
rivedono la luce del sole: liberate durante un'incursione militare di
tutto rispetto, con il colpevole assicurato alla giustizia e un
intero mondo da scoprire. Messa così, la storia
di Kimmy potrebbe sembrare la stessa del Jack diRoom:
anche qui la claustrofobia, le bugie, la scoperta tardiva della
libertà. Peccato che lei, più che all'adorabile Jacob Tremblay, somigli alla coinquilina trentenne di New Girl:
candida, rumorosa, colorata. Devono essere state le somiglianze
con un film e un sitcom da me molto amate a non farmi
andare d'accordo, all'epoca, con i modi di questa Kimmy tutta pepe: sopravvissuta sopra le righe con uno sviluppo che pensavo già
di conoscere e un'ironia non per tutti. Ci ho
riprovato anni dopo, giacché di comedy intelligenti non si ha mai abbastanza, cercando la sua compagnia a pranzo e cena.
Durante i pasti, tutti i giorni, per quattro
stagioni e un po' – i restanti sette episodi, gli ultimi, andranno in onda il prossimo anno. Per
un pelo mi sarei perso un gioiello del suo genere, con tempi comici
pazzeschi, cameo d'eccezione – una doppia Tina Fey, la
Laura Dern che non t'aspetti e, soprattutto, il predicatore
truffaldino di Jon Hamm – e un cast senza un personaggio fuori
posto, che spesso e volentieri, a suon di battute vincenti e
stramberie nonsense, ha rischiato di
farmi andare il boccone di traverso. Il
merito, a detta dei più, va alla rivelazione
Ellie Kemper, che cerca se stessa, il lavoro e
l'amore in una Grande Mela la cui buccia luccica, sì, camuffando
l'acidità e i vermi; o ancora alla spalla Tituss Burgess: appariscente
coinquilino omosessuale che punta ai musical di Broadway e al cuore
di un muratore italo-americano. Ovviamente, fatto a modo mio, pur
riconoscendone il talento non mi sono affezionato tanto a loro quanto alle
irresistibili comprimarie Jane Krakowski e Carol Kane: la prima
moglie trofeo con appartamento con vista che, perso il brillante al
dito, perso l'attico, si reinventa senza deporre mai le arie da
bionda svampita; l'altra, affittuaria dalla
fedina penale losca, rattristata per l'arrivo degli
hipster in quartieri malfamati che andrebbero lasciati tali.
Qualche calo, percepito però di sfuggita nella continuità del binge
watching, è da segnalare giusto in una terza stagione con puntate
che superano spesso la mezz'ora e passi un po' incerti. Per il resto, la
verve contagiosa di Kimmy Schmidt, più che infrangibile, mi è parsa inarrestabile. Avrei voluto che le mie pause pranzo, così, fossero più
lunghe; che non ci fosse il prossimo 25 gennaio come data di scadenza
per questo tornado di buonumore che sfida
la pioggia, la presidenza Trump e il rischio indigestione. Sarà che nel tempo speso a
ridere e mangiar bene c'è sempre tanto, tutto, di guadagnato. (7,5)
Gli
esami e l'adolescenza, si dice, non finiscono mai. E la pubertà? Non
di certo in Big Mouth, serie animata giunta con straordinario
successo alla seconda stagione e finita a sorpresa, lo scorso anno,
nella fortuna decina delle mie serie del cuore – lo so, qui si
parla di ben altri organi vitali, ma son dettagli. I giovani e
smaliziati protagonisti, alla scoperta del proprio corpo e
all'occorrenza di quello altrui, ci avevano parlato senza peli
sulla lingua di masturbazione maschile e femminile, mestruazioni,
omosessualità e genitori in crisi. A tredici anni, a un
anno di distanza, meglio non aspettarsi grandi cambiamenti dall'oggi
al domani. Né sul piano fisico, né tanto meno su quello della scrittura.
Restano i soliti i protagonisti, il linguaggio colorito, le grasse
risate. Questa volta si parla però di malattie veneree e
contraccettivi, delle sabbie mobili della friendzone, della
competizione spietata tra donne, e fa il suo ingresso un altro mostro
spaventoso: la Vergogna. Quella con la lettera maiuscola, un mantello
nero al seguito e un look alla Nosferatu. La stessa che semina imbarazzo fra
coetanei, fa riflettere Jay sull'esistenza o meno della bisessualità,
mette sotto la luce dei riflettori un'ultima arrivata
con la voce diJane The Virgine
un seno esplosivo. Si sfatano i luoghi comuni, o almeno si tenta con
ritmo e ironia. Anche le ragazze si toccano, sognando a occhi aperti
le generose profferte dell'attore Nathan Fillion. Anche i ragazzi
cambiano: trovano il coraggio di dire grazie e scusa, in fatto di
petting e batticuore. Nick, Andrew e i loro amici devono
infatti capire che alla loro età ognuno vive gli stessi drammi, in
preda alle stesse creature tentatrici. Come ci vedono gli altri è davvero inconciliabile rispetto a come ci vediamo noi? Se la bellezza della
condivisione insegna durante una reunion scolastica alla Sausage Partyche mal comune è mezzo
gaudio, che si è tutti a bordo di una barca alla deriva tra i flutti
della malizia, il rischio di ripetersi si è verificato senza grandi
recriminatorie. Certo, alcuni meriti tocca riconoscerglieli: le
stratificazioni e gli incastri del geniale quinto episodio, in cui le
infezioni sono raccontate come in un horror, le cisti ovariche come
in un film di fantascienza al femminile, la vasectomia in una
commedia newyorkese alla Woody Allen; le figure eterogenee che
popolano l'ultimo – un irrequieto demone in prova, ad esempio, o un
gatto accomodante e tentatore che simboleggia la depressione, male
affatto sconosciuto in giovane età –, prese in prestito da un
Inside Outvietato ai
minori. Sempre esilarante, sempre fresco e sincero, Big
Mouth è tornato a farci ridere
nonostante l'inevitabile venir meno della magia della prima volta insieme; dell'effetto sorpresa. Su Netflix. Sotto le lenzuola. (6,5)