lunedì 30 marzo 2020

Recensione: La dragunera, di Linda Barbarino

La dragunera, di Linda Barbarino. Il Saggiatore, € 16, pp. 192 |

Il mio sangue meridionale reclama onori e attenzioni. Nato in Sicilia da genitori partenopei, gli rendo degnamente omaggio grazie alla lettura e al cinema. Se a Napoli torno spesso però, soprattutto grazie alle magie di Elena Ferrante, dall’isola manco da troppo tempo. Quasi vent’anni, a pensarci bene, nonostante l’estate scorsa ci abbia fatto brevemente capolino galeotto il bestseller di Stefania Auci. Non era andata bene; purtroppo mi ero stufato presto. Stesso esito, a malincuore, ha avuto anche l’esordio di Linda Barbarino. Accattivante sin dalla copertina, per non parlare poi di una sinossi che prometteva passioni e riflessioni sulle donne ai margini nell’Italia rurale, si è rivelato invece una lettura faticosa nonostante i pareri entusiasti raccolti al Premio Calvino. Il pregio più grande è anche il suo difetto maggiore: un dialetto fitto, presente tanto nelle parti narrative quanto nelle dialogate, che mi ha ricordato perché non sia mai stato attratto dai mondo di Camilleri. Per quanto conosca bene quella parlata, ho trovato stancante districarla pagina dopo pagina, frase dopo frase. Queste duecento pagine scarse, così, mi sono pesate più del previsto, anche se ho preferito leggerle in ventiquattro ore per togliermi il pensiero. Soltanto riassumere le vicende della famiglia Rizzuto aiuta a ricordare del mio interesse iniziale.

Suo fratello si prese a una che si capiva subito era meglio starci lontano, coi capelli ricci e niuri come serpenti. La Dragunera, così la chiamavano, come la tempesta di acqua e vento. Se non fosse stata magara, non c’era che dire: fine, alta, che il marito le arrivava neanche alla spalla, e capelli lucidi come una manta.
In una terra fuori dal tempo s’incrociano i dissapori di due fratelli agli antipodi, Paolo e Biagio, e quelli delle rispettive donne. Mentre il primo onora il padre e la madre attraverso il lavoro nei campi, rifiutando però di accasarsi, il secondo ha fatto di testa sua chiedendo la mano della Dragunera: una giovane seducente e fatale, dalla fama di fattucchiera. Al centro di visioni demoniache, in cui sbuca dal mosto come da un bagno di sangue, la moglie di Biagio pare portare sciagura; se da un lato fa sincero spavento ai maschi scaramantici, dall’altro però fa gonfiare anche le patte dei pantaloni. Perfino il cognato ne è carnalmente attratto: quel Paolo fedele a sé stesso e a Rosa, una prostituta dal cuore d’oro che vive di fantasticherie romantiche e malinconia. All’apparenza memorabili, questi personaggi femminili non interagiscono mai; le loro storie si toccano di sfuggita, con una semplice occhiata in chiesa. Se la donna del titolo nel corso della lettura non viene mai riscattata né indagata, sempre inquadrata nell’ottica di perfidia dei compaesani, più convincente appare la figura di Rosa: venduta come carne da macello, vive nel passato e nei ricordi di un terrazzino profumato di basilico. L’infanzia è una parentesi ormai lasciata alle spalle, inattuabile. E il futuro, altrettanto incerto in fatto d’amore?

Magari non viene o verrà con gli amici a farle gabbo da fuori il cancello. E invece arrivò, ed era come tutto il bene del mondo. Avrebbe voluto fosse solo e sempre per lui il rivolo di piacere che le scorreva in mezzo alle cosce, vergine e puttana solo per lui, per Paolo.
Confuso nella scansione temporale e appesantito da risvolti gratuitamente tragici dell’epilogo, il romanzo ha una trama troppo esile che vive di uno stile a me indigesto. Cosa salvare allora? La ricercatezza linguistica, tuttavia fine a sé stessa. Le suggestioni letterarie, dalla Deledda a Verga. La fascinazione che proviamo davanti alle canzoni straniere alla radio, di cui possiamo apprezzare il ritmo pur non capendo tutte le parole. Il dettaglio non impedisce di apprezzarne la potenza, vero, ma limitarsi a capirne il senso generale finisce per svilire l’originalità del lessico, del suono, delle sfumature. All’inizio ci ho fatto caso, ho prestato attenzione cercando perfino qualche significato sul web. Ho rinunciato strada facendo, poi, scegliendo di badare puramente al racconto in sé; di proseguire per sapere come sarebbe andato a finire e per non lasciare a metà un omaggio dell’editore, che ringrazio di cuore. Anche se i chiaroscuri sfuggono e la particolare cura stilistica, eppure lodata, francamente annoia.
Il mio voto: ★★
Il mio consiglio musicale: Carmen Consoli – Contessa Miseria

venerdì 27 marzo 2020

Recensione: Tanti piccoli fuochi, di Celest Ng

| Tanti piccoli fuochi, di Celest Ng. Bollati Boringhieri, € 18, pp. 374 |

Dalle rovine di una casa rispettabile – di quelle tutte uguali, da ricchi, che suggeriscono ordine maniacale, perfezione e decoro – si sollevano le spire di un incendio doloso. Dalle camere dei Richardson sono partiti focolai che hanno inglobato la proprietà in una cortina asfissiante. Dal prato, i membri della famiglia contemplano la disfatta. Si leccano le ferite, additano il colpevole. Com’è potuto accadere? Da un’immagine decisamente cinematografica – non stupisce l’arrivo di una serie TV con due attrici d’eccezione, Reese Whiterspoon e Kerry Washington, debuttata in patria nei giorni scorsi – prende avvio il bestseller di Celeste Ng. Corteggiato sin dai tempi della pubblicazione, l’ho rispolverato per prepararmi alla trasposizione. Denso e corposo – quasi quattrocento pagine, con capitoli piuttosto lunghi –, avrebbe potuto darmi noie in un periodo in cui riesco a leggere poco e male. A sorpresa, nella migliore tradizione dei page turner, ha generato un’istantanea dipendenza.
Quanto ci piace, infatti, curiosare nelle vite altrui? Quanto è divertente smascherare le bugie del perbenismo? Dopo la lettura di La storia di un matrimonio, così, ho conosciuto nuovi segreti coniugali; ennesimi divari generazionali; un nuovo quartiere residenziale dove non è tutto oro quel che luccica.

Proprio quando pensi che sia tutto finito, trovi un modo. […] Come un incendio prativo. Ne ho visto uno anni fa, mentre eravamo in Nebraska. Sembra la fine del mondo. La terrà era bruciata e nera e tutto il verde era sparito. Ma dopo un incendio il terreno diventa più ricco, e possono crescere cose nuove.  Anche le persone sono fatte così, sai? Ricominciano da capo. Trovano un modo.
Anche se non stonerebbe immaginare i protagonisti negli anni Cinquanta, siamo nell’era di Tori Amos e Bill Clinton. La sordida relazione tra il Presidente e la sua stagista fa parlare eccezionalmente di sesso a tavola e a scuola. In un clima già teso, a bordo di una Volkswagen fanno il loro ingresso Mia – fotografa hippy che si arrangia come tuttofare – e Pearl, quindicenne stanca dei continui trasferimenti. Desiderosa di stabilirsi lì in pianta stabile, l’ultima arrivata vince la solitudine e si intrufola nella famiglia degli affittuari.
I Richardson hanno quattro figli pressoché coetanei di Pearl, e accolgono a braccia aperte la studentessa dall’aria bisognosa: generosi e spontanei, neanche particolarmente antipatici, possiedono la naturalezza dei privilegiati di cui si parlava anche in Parasite. Ma a una certa età si è sempre affascinati da ciò che non si può avere, dallo scintillio misterioso dall’altra parte della barricata: la minore dei Richardson, una mina vagante di nome Izzie, compie il percorso inverso rispetto a Pearl. Si avvicina a Mia, semplice donna delle pulizie ma dal talento artistico folgorante. Come preferire gli incarichi ordinari della madre Elena, blanda firma di un quotidiano locale, ai collage della fotografa? Come identificarsi con la donna che ha fatto della genitorialità una professione anziché sognare il passato enigmatico e la vocazione dell’inquilina girovaga?
Grazie a una scrittura agile e bella, che con leggerezza invidiabile scava a fondo e all’occorrenza si libra in coinvolgenti voli pindarici – ho amato i capitoli monografici con le sperimentazioni di Mia –,  la narratrice onnisciente spia dal buco della serratura i membri del suo cast. A proprio agio con la gestione dei diversi punti di vista, la Ng sviscera approfonditamente i pensieri e le azioni dei personaggi: con il rischio di risultare, a volte, un po’ ridondante.

Per un genitore, un figlio non è solo una persona: un figlio è un luogo, una specie di Narnia, uno spazio vasto ed eterno dove il presente che stai vivendo, il passato che ricordi e il futuro che stai attendendo con ansia coesistono nello stesso istante. […]  È un luogo in cui trovare rifugio, a patto di sapere come entrarci. E ogni volta che lo lasci, ogni volta che tuo figlio esce dal tuo campo visivo, hai paura di non potervi più fare ritorno.
Benché non sia un thriller, Tanti piccoli fuochi ne ha il ritmo e gli intrighi. È un garbuglio di fraintendimenti, bugie e non detti, di cui soltanto lettore e narratrice hanno la visione d’insieme. Alcuni personaggi non vengono mai sfiorati dalle conseguenze della vicenda in atto. Altri, senza grandi epifanie, cambiano seduti sui gradini del portico. A differenza che nella serie TV, immagino ben più focalizzata sullo scontro ideologico tra Mia e Pearl, queste donne agli antipodi non si accapigliano e di rado figurano nella stessa pagina. I veri protagonisti sono i loro figli, imprevedibili e ormonali, insieme al magnetismo che lo status dell’una esercita sull’altra. Le madri di Celeste Ng ascoltano, ficcanasano, agiscono per un bene maggiore. E ci fanno riflettere sui bambini nati in serie, su quelli mai venuti al mondo, su quelli promessi e poi pretesi indietro. Cos’è più forte: la biologia o l’amore? 
Mentre nel quartiere si confabula dell’adozione in forse dei McCollough, ci si alzerà di frequente da tavola con il broncio; si infrangeranno i dogmi del politicamente corretto parlando per la prima volta di fecondazione assistita o aborto.  Purtroppo, con il senno di poi, sono costretto a mettere in discussione quell’incipit forte ed esplicativo all’inizio lodato: dice troppo – colpevole incluso –, mentre l’epilogo aggiunge troppo poco. Nel mezzo mezzo, a dispetto della mancanza di colpi di scena, ci sono per fortuna pagine rimarchevoli e tantissima carne al fuoco. Il successo di Celest Ng, un’intrusa in quel di Shaker Heights, non è solo fumo.
Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Adele – Rumor Has It

martedì 24 marzo 2020

Recensione: Agostino, di Alberto Moravia

| Agostino, di Alberto Moravia. Bompiani, € 12, pp. 182 |

Mi mancano molte cose con la quarantena. Su tutte, il mare. Fino a due settimane fa bruciavo i miei diecimila passi giornalieri sul bagnasciuga, d’inverno come d’estate, e lasciavo sbollire l’insofferenza lì. Dove il cielo era più alto e il vento più pungente. Anche il ritmo delle mie letture, all’inizio, ha sofferto per l’osservanza di questa nostra nuova sedentarietà. Bloccato in un quartiere di palazzine grigie tutte uguali, senza cantanti sui balconi né grandi scorci naturali, mi sono spento in fretta negli andirivieni tra la cucina e il soggiorno; ho camminato soltanto quando c’era da liberare il vialetto dalle foglie secche. Per fortuna, dopo una serie di romanzi sfogliati a tempo perso e riposti intonsi in libreria, sono tornato a leggere grazie al  mio primo Alberto Moravia. Sarà che con lui ho corso all’aria aperta; sarà che mi ha portato fino al mare. Un inchiostro limpido e rigenerante come acqua salata mi ha guidato nel cuore in subbuglio dell’irrequieto Agostino.

Ora provava un vago, disperato desiderio di varcare il fiume e allontanarsi lungo il litorale, lasciando alle sue spalle i ragazzi, il Saro, la madre e tutta la vecchia vita. Chissà che forse, camminando sempre diritto davanti a sé, lungo il mare, sulla rena bianca e soffice, non sarebbe arrivato in un paese dove tutte quelle brutte cose non esistevano. In un paese dove sarebbe stato accolto come voleva il cuore, e dove gli sarebbe stato possibile dimenticare tutto quanto aveva appreso, per poi riapprenderlo senza vergogna né offesa, nella maniera dolce e naturale che pur doveva esserci e che, oscuramente, presentiva.
Tredici anni, orfano di padre, si gode la villeggiatura in compagnia della madre: una donna bellissima e senza nome – figuratevela come la Loren: bruna, le gambe chilometriche, uno scandaloso due pezzi –, che a bordo del pattino flirta con un baldo giovine del luogo. Costretto suo malgrado a reggere il proverbiale moccolo, Agostino sviluppa una gelosia fortissima verso la genitrice. Pur non conoscendo ancora il sesso, il desiderio carnale, l’amore, intuisce l’ascendente che lei ha sui maschi di ogni età. Iperprotettivo, si sorprende a spiarla dalla soglia della porta: nel riflesso polveroso dello specchio, in deshabillé, per la prima volta la vede come una donna; non come una madre.
Crescere significa anche questo, accorgersi che i genitori sono persone con bisogni e debolezze, e tagliare il cordone ombelicale con ordinari atti di ribellione. Entrando a far parte, ad esempio, della cricca di monelli del bagno Vespucci. Fra falò, piccoli furti e tramonti infuocati in compagnia di Berto e degli altri, Agostino si guadagnerà un soprannome – Pisa – e l’iniziale scetticismo degli spregiudicati compagni di giochi. Cos’ha da spartire con loro, se in città può vantare una casa con venti stanze, un autista e un cameriere? Come testare la propria virilità messa in dubbio, se non con le parolacce, le zuffe, le prostitute?

Tuttavia sentiva con dolore che non era neppure simile ai ragazzi della banda. Troppa delicatezza restava in lui; se fosse stato simili, pensava talvolta, non avrebbe sofferto tanto della loro rudezza, delle loro sguaiataggini e della loro ottusità. Così si trovava ad avere perduto la primitiva condizione senza per questo essere riuscito ad acquistarne un’altra.
In questo piccolo classico ho trovato il voyeurismo incantato del film Malena, le prurigini universali di Chiamami col tuo nome, i soggiorni isolani tanto amati di recente in L’isola di Arturo e Storia del nuovo cognome; l’amarezza e le ansie di una “straziante età” che somiglia, in Moravia, a un torbido paese dei balocchi. Il pedaggio va pagato attraverso la rottura simbolica dell’immancabile salvadanaio di ceramica: quanto è alto, tuttavia, il rischio di essere imbrogliati all’ingresso e poi tagliati fuori? Né grande né piccolo, né carne né pesce, il ragazzino rifugge le pose dei coetanei della propria estrazione sociale ma fatica comunque ad amalgamarsi ai monelli indigeni. È destinato a fare la spola tra due stabilimenti balneari, così, alla scoperta dei segreti della malizia. 
Agostino è un sempreverde perturbante e modernissimo, meno memorabile del romanzo di formazione di Elsa Morante ma altrettanto anticipatore. Un racconto freudiano sull’eros e la pubertà, dove al calare del sole s’intravedono le ombre torve della pedofilia e dell’incesto; ma anche i simbolismi, gli attimi e le rivoluzioni tipiche dei migliori narratori. Non temetene la fama. Appassionato e scorrevole, in realtà, porta senza rughe i suoi settantacinque anni e stupisce tutt’oggi per il coraggio di infrangere i tabù più taciuti risparmiandoci la morale dell’ultima riga. All’interno, per fortuna, ci troverete i miei cieli sterminati, il vento e il mare; la nostalgia della libertà e dell’adolescenza, che in giorni come i nostri mi sorprendo a cercare dappertutto. Nell’attesa spasmodica di un’altra estate.
Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Gino Paoli – Sapore di sale

sabato 21 marzo 2020

Serie da recuperare in quarantena: Storia del nuovo cognome | The Good Place

Se non bastassero una sceneggiatura sopraffina, un cast scelto attingendo a piene mani dall’immaginario dei lettori e una ricostruzione storica curata nei minimi particolari, per suggerire la grandezza della seconda stagione dell’Amica geniale potremmo soffermarci su una scena della prima puntata: la sensibile Lenù, immersa nella volgarità del rione, si accorge all’improvviso della fine miserabile delle donne del quartiere; sfiorite paurosamente appresso a mariti prevaricatori e figli a cui badare. Desidera forse lo stesso per sé stessa? E per l’inseparabile Lila, costretta a sposarsi? È una sequenza d’insieme magistrale, popolosa di comparse e sottotesti, che lascia respirare aria da grande cinema sulla TV generalista – si pensa a Martin Scorsese e Sergio Leone, fino a omaggiare espressamente la Nouvelle Vague negli episodi centrali diretti da Alice Rohrwacher. Perché la serie napoletana, coprodotta da HBO e premiata dallo share, è un evento all’altezza dei best-seller che traspone. Storia del nuovo cognome alza l’asticella: è il romanzo che ho preferito della saga; le protagoniste vivono gli alti e bassi dell’adolescenza, maturano; i ribaltamenti sconvolgono spesso gli equilibri e le affinità. Stanno al passo la regia di Costanzo, a tratti ariosa e a tratti sghemba come un horror, e soprattutto gli interpreti. Il cast di attori emergenti non si lascia spaventare né dalla violenza dei temi – la prima notte di nozze di Lila è uno stupro brutale: un plauso particolare spetta all’interprete di Stefano, Giovanni Amura, che si sporca fino al midollo con un personaggio fragile ma spregevole – né dalle lunghe sedute di trucco e parrucco che il prossimo anno, a malincuore, non potranno far nulla per mascherare i soli diciassette anni di Margherita Mazzucco (silenziosa e riflessiva, con uno sguardo pieno di cose: un’eterna “quasi”) e Gaia Girace (struggente, carismatica, selvaggia: ora incantevole, ora strega dal ghigno beffardo). A causa di un importante salto temporale, come già accaduto in The Crown, gli attori cambieranno. I nuovi sapranno dare comunque un senso ai lunedì di Rai Uno, ormai sfitti? Saranno altrettanto bravi a farsi amare e odiare, al punto da spingere i social a commentare le puntate in tempo reale? Di ritorno da una vacanza indimenticabile, l’estate ischitana di Lenù e Lila è giunta al termine; la loro adolescenza finisce qui. E la loro amicizia singolare, fatta di supporto reciproco e competizione irrefrenabile? Nel dubbio che attanaglia, per fortuna, restano le foto ricordo di questi otto episodi da incorniciare. Li rivedremo e ci commuoveremo, nell’attesa, come accade alla madre di Lenù – Anna Rita Vitolo, straordinaria – davanti ai libri nuovi di quella figlia maggiore che non capisce; in cui non credeva, proprio come noi spettatori al debutto di questo gioiello. (8,5)

Lo spunto  è di quelli brillantissimi. Uno colpo di scena degno del cinema di Shyamalan, piazzato però volutamente in apertura di serie. I protagonisti di The Good Place – comedy fortunatissima, apprezzata da pubblico e critica, e terminata quest’anno dopo quattro stagioni – sono tutti morti. Affiancati da un’anima gemella, popolano un distretto ridente e colorato  guidato dal saggio Michael: un architetto celeste dai papillon a fantasia, con un’esilarante tuttofare – Janet, il personaggio più iconico tra tutti – e il vizio di prendersi troppo a cuore i problemi degli umani. Nella parte buona tutto è possibile. Anche perdonare qualcuno come la peperina Kristen Bell, che in vita ha collezionato peccati grandi e piccoli e lassù ci è finita per un errore del sistema? Circondata da anime pie, la protagonista a lezione di moralità farà di tutto per mimetizzarsi. Ma il lato oscuro la tenterà fino all’ultimo, rischiando di mettere a soqquadro un paradiso molto diverso dal cliché che ci hanno insegnato al catechismo. L’ereditiera dall’accento inglese Tahani, il professore scrupoloso Chidi e l’imprevedibile Jason, monaco buddista che ha fatto voto di silenzio, meritano forse più di lei una seconda chance? Centellinata in poco più di un mese, questa serie – snobbata ai tempi dell’esordio – è una sorpresa instancabile. Cambiano in fretta i ruoli di potere, gli scenari, i punti di vista, gli obbiettivi da raggiungere: al punto che è difficile parlarvene senza dire troppo. Il finale della prima stagione, in particolare, vi lascerà a bocca aperta davanti a un twist degno di Lost. Certo, non è tutto oro quel che luccica; i difetti abbondano. Ad esempio gli si rimprovera un andamento un po’ monotono, fatto di continui andirivieni, o la relazione poco sentita tra due dei protagonisti. Perciò che via vai sia, sì,  purché sullo sfondo di una mitologia accurata e ricca d’inventiva; su un green screen che qualche volta fa storcere il naso e qualche volta sorprende quando dirige Drew Goddard. Si ride tanto, ci si affeziona alle lotte dei protagonisti, ci si stupisce e si riflette. Chi merita davvero l’espiazione? Il male che abbiamo fatto può cadere in prescrizione? Perfino la perfezione assoluta, a lungo andare, può rivelarsi una gabbia soffocante? Per fortuna c’è sempre una giudice clemente, un cavillo tecnico, un’altra porta da varcare, per salvarci tutti dai proverbiali guai in paradiso. Cos’è la morte allora: una tragedia o il principio del lieto fine? (7)

martedì 17 marzo 2020

Recensione: I baffi, di Emmanuel Carrère

 
| I baffi, di Emmanuel Carrère. Adelphi, € 17, pp. 149 |

Un’osservazione su una certa pendenza del naso mai notata in precedenza. Un occhio storto da riallineare chirurgicamente per guardare il mondo alla maniera di tutti gli altri. I personaggi dei capolavori di Luigi Pirandello, maestri di arrovellamenti interiori e riflessioni profonde, scorgevano per la prima volta allo specchio magagne e difetti. E riflettevano sulla percezione di sé, sulla spersonalizzazione dell’uomo moderno, su fughe dalla realtà ora fisiche e ora metaforiche.
Iniziano sempre allo specchio, in bagno, le disavventure del protagonista senza nome del mio primo Carrère: un architetto in crisi – che tanto, tutto deve agli anti-eroi dello scrittore siciliano – alle prese con un cambiamento importante. Il taglio dei baffi. Come reagiranno la fidanzata, gli amici? Gli donerà il pallore sul labbro superiore? A sorpresa, a taglio avvenuto, nessuno sembra però accorgersi del nuovo look. Anzi, instillano nel protagonista un dubbio divorante: i baffi li ha mai portati? Da uno spunto curiosissimo prende avvio questo strano thriller dell’anima. Una lettura grottesca, sfuggente, che all’inizio affascina e poi lascia interdetti, man mano che i risvolti si fanno inquietanti. Il protagonista diventa sospettoso, aggressivo, delirante: al centro di una fantomatica cospirazione, punta il dito contro la compagna – una donna intrigante e spiritosa, amante degli scherzi di dubbio gusto – e i colleghi. È tutta una macchinazione di Agnés? È pazza? O forse il pazzo è lui, che fruga nell’immondizia, interroga i passanti, non ricorda né le vacanze né la foto sulla carta di identità? Con i comprimari che negano strenuamente la presenza dei vecchi baffi, dunque il suo passato, l’uomo – con cinquanta franchi in tasca e il passaporto arrabattato all’ultimo – punta a vivere una seconda vita come un epigono dell’indimenticabile Mattia Pascal.

Non era pazzo. Solo che nell’ordine del mondo si era verificato un guasto, insieme abominevole e discreto, che era sfuggito all’attenzione di tutti tranne che alla sua, e questo lo metteva nella posizione dell’unico testimone di un crimine, che in quanto tale va abbattuto.
Forse allegoria di una mente che si smarrisce, forse riflessione amareggiata su una convivenza amorosa che annulla l’individuo a favore della coppia, questo romanzo è un lungo forse. Ammetto di non averlo capito fino in fondo. In coscienza, ho chiesto aiuto anche alla trasposizione cinematografica diretta dallo stesso autore e arrivata in Italia con il titolo L’amore sospetto nel 2005: fedelissimo e altrettanto manierato, altrettanto algido, il film brilla per il fascino spiegazzato dell’attore Vincent Lindon e per la vorticosa colonna sonora di Philip Glass, ma si perde comunque nelle svolte rocambolesche della seconda metà. Tanto sullo schermo quanto sulle pagine, infatti, si ha la stessa sensazione: lo spunto si sarebbe prestato meglio a un racconto breve, a un cortometraggio. 
Per le donne sarà accaduto con un taglio di capelli troppo scalato. Per gli uomini con uno sgarbo del barbiere, magari un giovincello con la mano pesante. Un taglio netto, uno sfregio che scontenta e stravolge così il volto e l’autostima. Personalmente sono in guerra con i rasoi elettrici che si inceppano, fanno le bizze, strappano più del dovuto. Un po’ di peluria in viso, inutile negarlo, fa tantissimo. È un trucco per nascondere il mio naso grande, le mie labbra sottili, i miei zigomi sporgenti; un vezzo diffuso per illudersi di essere più affascinanti o semplicemente più adulti. Calcare la mano durante la rasatura non sarà più lo stesso, dopo Carrère: un incubo senz’altro interessante, ma vittima a malincuore della propria vanità. Non aspettavi spiegazioni o risoluzioni consolatorie. Né il romanzo né il film, molto lenti, costituiscono il classico intrattenimento sul filo del rasoio. Tocca soltanto abbandonarsi a questa escalation di violenza, lasciarsi stringere e soffocare dalle spire di una piccola vicenda delirante. Personalmente, in un momento storicamente sbagliato, ho opposto resistenza. Come all’idea di rivedermi allo specchio senza barba né baffi, dopo il trauma insuperato di qualche rasatura fa.
Il mio voto: ★★½
Il mio consiglio musicale: Edith Piaf – Milord

sabato 14 marzo 2020

Comedy da quarantena: Derry Girls | Crashing | Catastrophe S04

Si chiama Derry ma non è la stessa di Stephen King. Viverci fa paura, qualche volta, ma non per i pagliacci assassini né per le fognature che nascondono insidie da horror. Siamo in Irlanda, negli anni Novanta, e crescere significava far fronte a un nemico spaventoso: il terrorismo. In una terra resa una polveriera dalla religione, dalla politica, dalla divisione tra filobritannici e indipendentisti, provano a restare a galla le quattro ragazze del titolo – cinque non tralasciando James, l’unico maschio dell’istituto, membro a pieno diritto della cricca. Studentesse di una scuola cattolica, severissima e tutta al femminile, le nostre eroine trovano spunti per farci ridere a crepapelle e riflettere in ogni puntata. Comedy breve e leggera nello stile delle migliori produzioni del Regno Unito, Derry Girls resterà forse una delle mie personali sorprese di quest’anno. Vista al solito a cena, come riempitivo da poco, si è fatta volere bene pian piano nonostante quelle protagoniste sardoniche e scostanti; nonostante una parentesi – la questione irlandese – conosciuta soltanto per sentito dire. Come può la Storia, quella con la lettera maiuscola, incidere sulle esistenze di chi la vive sulla propria pelle? Lo scopriremo noi stessi più in là, si spera, a pandemia finita. E nel frattempo, in due stagioni disponibili su Netflix in lingua originale, ce lo raccontano Erin e compagne. Ce lo cantano le canzoni dei Cranberries, insieme agli altri pezzi di una colonna sonora a tema tutta da ballare. Si trova comunque il tempo per innamorarsi del nuovo prete in città. Si tenta la strada della rivolta per assistere a film, concerti, adunate altrove. Si fa il callo a famiglie litigiose ma esilaranti, fonte d’imbarazzo e pettegolezzi a tavola. La comicità è donna, e non ha soltanto il nome di Phoebe Waller-Bridge: occhio anche alla penna di Lisa McGee – blasfema, veritiera, commovente –, con la speranza che qualcun altro saprà raccontare il nostro recente disagio, la nostra gioventù prigioniera, in perle altrettanto preziose. (7,5)

Cosa faceva Phoebe Waller-Bridge prima di Fleabag? Dopo i fasti della serie Amazon, da me amata finanche in tempi non sospetti, se lo saranno chiesti in molti fan. Comparsa in ruoli marginali di film e serie TV, ha scritto la prima stagione del thriller Killing Eve e una miniserie in sei puntate, prodotta ormai quattro anni fa, disponibile sempre su Netflix in versione sottotitolata. Com’è Crashing? Chicca da riscoprire o esordio acerbo? La verità sta nel mezzo. Ambientata quasi interamente in un ospedale in disuso adibito a condominio, ha la struttura e le ambientazioni circoscritte delle sit-com più consolidate. Pochi personaggi da far litigare, ingelosire, innamorare, accoppiare e scoppiare a fantasia. Phoebe, anche attrice, è Lulu: saltata fuori all’improvviso, chiede ospitalità all’amico d’infanzia e mette i bastoni tra le ruote alla futura moglie di lui. Sfortunata in amore, disincantata e un po’ egoista anticipa i tratti che renderanno indimenticabile il personaggio della serie successiva. Insieme a lei: un cinquantenne fresco di divorzio, usato come modello da una pittrice dall’accento francese; il dongiovanni di turno che forse nutre molto più di una semplice simpatia per un altro inquilino – Sam e Fred sono una delle coppie che più “shipperete” in questo periodo. Ci si affeziona nonostante il poco tempo insieme? Decisamente. Si ride? Peggio, ci si scompiscia. Con tempi comici già invidiabili, Phoebe conferma di aver sempre scritto benissimo. Anche se l’ironia di Crashing – meno raffinata, con tanto di battute su cacca, vomito e pipì – potrà infastidire chi (chi?) è contrario a un po’ di becera, irresistibile volgarità. (7)

Mi ero scordato di Catastrophe. Anzi, l’avevano scordata i nostri subbers di fiducia. Mai distribuita in Italia, l’ho seguita per tre anni di fila. Ne ho scritto. L’ho consigliata. Dopo la terza stagione è stata rinnovata per la quarta e ultima. Ma è arrivata così in sordina in patria, purtroppo, che non l’avevo notata nemmeno io. Recuperata un anno dopo e in lingua – mi sono adattato seppure consapevole di non cogliere tutto tutto –, è stata perfettamente all’altezza delle aspettative. Allora perché questo basso profilo? Perché questo ritardo, quest’oblio? Ambientata tra Irlanda e Stati Uniti, la serie raccontava agli esordi la relazione tra Sharon e Rob. Costretti a mettersi insieme per l’arrivo di un figlio inatteso, finivano per fare faville non soltanto a letto. Ironici, innamorati, controcorrente, s’incastravano tra alti e bassi come i protagonisti della affine You’re The Worst. Questa volta devono venire a patti con i vizi di lui, che alza il gomito e trova simpatico il sessismo del datore di lavoro. Questa volta devono venire a patti con la famiglia di lei, che approfitta di un viaggio a Boston per distrarsi, nonostante la mestizia di un funerale in atto. Le recriminatorie saranno all’ordine del giorno. Restare insieme per feeling, allora, o sotto costrizione? Il lieto fine è forse a rischio? Si fa poco sesso. I parenti sono ingombranti e i bambini bisognosi di attenzioni. I lavori, poi, non appagano affatto. Cosa spinge una coppia di quarantenni a lottare per restare unita? In periodo di quarantena, di convivenze forzate, di tensioni alle stelle – quando tutto finirà, secondo voi, ci saranno più gravidanze o più separazioni? –, gli insegnamenti di Sharon e Rob per sopportarsi torneranno utili. (7)

giovedì 12 marzo 2020

Recensione: La storia di un matrimonio, di Andrew Sean Greer

La storia di un matrimonio, di Andrew Sean Greer. Adelphi, € 10, pp. 224 |

Gli anni Cinquanta sono gli stessi dello splendido Lontano dal paradiso, a sua volta ispirato ai melodrammi del regista Douglas Sirk. Gonne a campana, scarpe Oxford, capelli impomatati e foulard annodati sotto il mento. Una schiera di villette tutte identiche, tutte perfette, con i rampicanti sulla facciata e l’oceano al di là del vialetto. In un quartiere residenziale da depliant, il Sunset, la coppia composta da Holland e Pearlie si oppone ai dispiaceri più grandi – la poliomelite contratta dal figlio, le notizie della guerra in Corea, i commenti maliziosi di parenti e vicini – concedendosi la carezza di un dessert dopo cena. Se il marito incarna le migliori virtù americane, bellissimo e cordiale, la moglie sembrerebbe al contrario mite e servizievole: custode silenziosa dei meccanismi familiari, in realtà, Pearlie si è assunta le responsabilità maggiori. Accettare Holland con i suoi misteri, con i suoi silenzi, con il suo cuore mal funzionante; difenderlo dalle preoccupazioni – gli schiamazzi, le tragedie internazionali – scegliendo il cane più ubbidiente della cucciolata e tagliando via dal quotidiano le pagine dedicate alla cronaca nera. Lo ha conosciuto in Kentucky, prima della Seconda guerra mondiale, e lo ha ritrovato su una spiaggia della California alla fine del conflitto. Ha promesso alle zie che si sarebbe presa cura di lui, che lo avrebbe tenuto d’occhio. Anime gemelle, pensate, sono nati ad appena un giorno di distanza. Come continuare a portare felicemente una maschera se l’arrivo di uno sconosciuto alla porta rompe gli equilibri? Buzz ha occhi scintillanti e indagatori, un passato da obiettore di coscienza e un appartamento da scapolo di cui si dichiara stanco. A capo di una fabbrica di corsetti, conosce a menadito i segreti del mondo femminile. Dunque anche quelli di Pearlie?

Crediamo tutti di conoscere la persona che amiamo. Nostro marito, nostra moglie. E li conosciamo davvero, anzi a volte siamo loro: a una festa, divisi in mezzo alla gente, ci troviamo a esprimere le loro opinioni, i loro gusti in fatto di libri e di cucina, a raccontare episodi che non sono nostri, ma loro. Li osserviamo quando parlano e quando guidano, notiamo come si vestono e come intingono una zolletta nel caffè e la guardando mentre da bianca diventa marrone, per poi, soddisfatti, lasciarla cadere nella tazza. Io osservo la zolletta di mio marito tutte le mattine: ero una moglie attenta. Crediamo di conoscerli, di amarli. Ma ciò che amiamo si rivela una traduzione scadente da una lingua che conosciamo appena.
Ora amici e ora nemici, in un poligono sentimentale dai risvolti imprevedibili, i protagonisti balleranno un tango della gelosia fatto di passioni, sgambetti, tiri mancini. Giunto per la prima volta alla mia attenzione grazie all’omonimia con il film di Noah Baumbach, La storia di un matrimonio è un dipinto di Edward Hopper che prende finalmente vita. Un ritratto struggente ma incantevole su anni insidiosi. Dietro la patina dorata, regnavano il perbenismo e il sospetto, l’intolleranza e la discriminazione: non c’era spazio per gli invisibili, per i medi, per gli ordinari. L’autore, allora, sceglie di ricordarli qui. Con una testimonianza che al lettore ricorderà un’abitudine dei soldati in partenza: firmavano una banconota da un dollaro per continuare a circolare; per lasciare un segno nel mondo. Con bravura impressionante Andrew Sean Greer racconta le esercitazioni antiaeree, le cacce alle streghe e ai comunisti, il conflitto dalla prospettiva dei vili che non l’hanno combattuto. Nati in una brutta epoca, i suoi personaggi si adeguano con rimedi estremi all’atmosfera tesissima del circondario.

Da quella sera sarei stata come una forestiera venuta da un paese lontano, dove non è mai stato nessuno e di cui nessuno ha mai sentito parlare. Un'immigrata di una terra scomparsa: la mia gioventù.

Dal momento che in guerra e in amore ogni mezzo è lecito, quanto ci vorrà affinché la crocerossina senza macchia cominci a pensare alla maniera dei reazionari, ad abbracciare il cambiamento, a rifiutare l’osservanza delle convenzioni sociali? Su un fondale teatrale composto da salotto e corridoio, specchio insieme di una nazione e di una relazione, si mescolano i pudori e i fervori, l’eccezionale e l’ordinario di una partitura di rara eleganza. Esercizio stilistico, dirà pure qualcuno, davanti a uno stile d’altri tempi che sembra proprio risalire all’epoca dei classici del genere noir – l’autore, contemporaneo, sta per compiere cinquant’anni. Ma fra le pagine si respira a ben vedere commozione vera, una suspance palpabile. La storia di un matrimonio è una perla che invito a scoprire o riscoprire, saltata fuori dai sogni degli esteti di ogni dove. L’erba del vicino è sempre più verde. Ma nel buio oltre la siepe dei Cook, lo stesso del capolavoro di Harper Lee, si nascondono intrighi agrodolci e malefatte un po’ crudeli. Il tutto, messo in scena nei toni del bianco e nero, in un eterno contrasto che rende raggianti le zone di luce e spaventosi i coni d’ombra.
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Franco Battiato – La canzone dei vecchi amanti

lunedì 9 marzo 2020

Recensione: L'esercizio, di Claudia Petrucci

| L’esercizio, di Claudia Petrucci. La nave di Teseo, € 18, pp. 333 |

La costruzione di un amore, cantava Fossati, spezza le vene delle mani. E quella di un'identità?
Potrei riassumere così la trama del romanzo d’esordio di Claudia Petrucci. A occhio e croce la lettura più singolare in cui mi imbatterò quest’anno. Non la più indimenticabile, forse, ma quella senza pari in quanto all’originalità dell’idea di partenza. Si parla di recitazione; dello spirito d’onnipotenza di certi registi, così presuntuosi da considerarsi Dio, e della fragilità degli interpreti. Coloro che calcano le scene per professione, infatti, sono esibizionisti dediti al culto di sé stessi o al contrario insicuri dal basso profilo? Sognerebbero di emergere o di scomparire, nascosti dietro ruoli di comodo?
Non ho mai pensato di recitare, troppo timido, ma la recitazione mi affascina: all’università avrei voluto scrivere una tesi sul metacinema, ma piccole divergenze con il relatore mi hanno fatto cambiare poi soggetto e disciplina. A colloquio nello studio dell’insegnante avevo nominato le star sulla soglia dell’abisso di Birdman, Viale del tramonto, Che fine ha fatto BabyJane; le attrici di La sera della prima, Eva contro Eva e Sils Maria, protagoniste di una retrocessione bruciante a causa dell’ingratitudine dello star system. Amo quando l’arte imita la vita. E quando la prima, con amara sorpresa, scatta contro l'altra per azzannarla alla gola e fagocitarla. La lettura di L’esercizio, in un mondo parallelo, avrebbe garantito spunti di riflessione infiniti per la tesi che non c’è stata.

Non soffro la mancanza di me come individuo, un concetto astratto e sommariamente privo di valore. Io che cosa sono? Mi costringono a pormi una domanda senza risposta. Di che cosa dovrei avere nostalgia? Dall’infanzia tremenda, della famiglia che non ho avuto? Io voglio quello che vogliono tutti: voglio dissolvermi.
Giorgia e Filippo convivono. Lei lavora come cassiera, lui fa il barista. Entrambi hanno rinunciato ai propri sogni: da un lato il teatro, messo da parte per la routine; dall’altro una laurea in lettere mandata alle ortiche. Filippo conosce la ragazza da capo a piedi, l’ha spogliata mille volte, ma la sua interiorità è un mistero di cui non sospetta nulla. 
Filippo fa parte della seconda vita di Giorgia. Che si rifugia nei romanzi fantascientifici, nell’ordine maniacale, nella quotidianità di una relazione da curare pur di non cadere vittima dei pensieri ingombrati e delle allucinazioni. La sua diagnosi segreta: schizofrenia paranoide. La coppia vive un’esistenza sacrificata, da vecchi, senza hobby né guizzi. Cosa succederebbe se lei – senza passato, con un amico regista che improvvisamente le propone uno spettacolo su Peter Pan – lasciasse d’un tratto le briglie? Ridotta in stato catatonico in un letto d’ospedale, la protagonista ha perso il filo tra realtà e immaginazione. Il ruolo l’ha posseduta come un demone dell’inferno. Da lì la svolta: un’idea abbastanza assurda da funzionare. Perché non riscriverne l’identità in forma di copione, in modo che recitando torni a impersonare sé stessa? A quattro mani ci lavoreranno Filippo, ridotto all’ombra del ragazzo che era, e il regista Mauro: guida fedele in un microcosmo fatto di competizione sfrenata, lunghe prove e figuranti radical chic.  Anzi, a ben vedere, in totale le mani son otto: meglio non dimenticare quelle dell’autrice, abilissime, che tirano imprevedibilmente i fili di un cast di personaggi da Oscar. La loro vita, strada facendo, diventa tutta una performance, mentre il dilemma morale li schiaccia; li percuote.

Non c’è nessuna distinzione tra quello che crediamo di conoscere e ciò che conosciamo: quello che crediamo di conoscere è tutto ciò che conosciamo.
La nuova Giorgia rimpiazzerà la vecchia? È giusto pensarla senza dolori, senza macchie – né troppo gentile né troppo sincera, né troppo provocante né troppo ambiziosa? Cos’è l’essenza di una persona: la somma matematica di come ci percepiamo e di come ci percepiscono? L’esperimento di scrittura creativa rischia di travalicare i confini del bene e del male, trasformando la ragazza in un novello mostro di Frankenstein.
L’esercizio è uno psicodramma romantico e sinistro, ben sviluppato e con ritmi da thriller. Nonostante lo stile mi abbia convinto a tratti – l’ho trovato un po' artefatto nelle parti narrative, a cui ho preferito l’energia dei dialoghi: perfetti per un’eventuale pièce –, incuriosiscono il senso d’ambiguità persistente e un erotismo appena suggerito. Addizionate la natura opportunistica dei rapporti interpersonali ai ruoli sottili ricoperti da attori, registi, spettatori inermi. Il risultato dell’esercizio è un’interessantissima metafora sul mestiere dell’artista. Sul potere della scrittura, che crea mondi e personaggi. E a volte, perfino, persone?
Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Levante – Le mie mille me

mercoledì 4 marzo 2020

Recensione: Giovanissimi, di Alessio Forgione

| Giovanissimi, di Alessio Forgione. NN Editore, € 16, pp. 224 |

Memore del trauma che fu il romanzo d’esordio – il resoconto disperato di un trentenne senza futuro, in una Napoli di amori e incertezze –, mi ero ripromesso che avrei dovuto rileggere Alessio Forgione a tempo opportuno. Quando l’umore era alto. Maestro di arrovellamenti interiori e frustrazioni, nell’ultimo periodo, avrei finito purtroppo col non farlo più. Così l’ho affrontato senza starci troppo a pensare. Ma quant’è affidabile il detto via il dente, via il dolore? Giovanissimi ha fatto male ugualmente.
Siamo in un rione. Questa volta, giocando con l’effetto nostalgia che altrove va per la maggiore, si fa un salto indietro negli anni Novanta. Marco, detto Marocco per la carnagione olivastra e i capelli riccissimi, è un quattordicenne che si domanda come finirà il campionato e quando l’innocenza. Abbandonato dalla madre, vive col papà – un uomo onesto e tutto d’un pezzo – una routine scandita da paste col pesto, tè alla pesca e partite di pallone. È sin dall’infanzia che sogna di diventare un calciatore famoso. Marocco si divide tra sale giochi, sigarette, giornalini pornografici e Dylan Dog; scrocca passaggi in motorino – il padre l’ha iscritto allo scientifico e poi ha infranto la promessa: non gliene ha mai regalato uno – e all’improvviso salta fuori un piccolo traffico di droga a ingrossargli le tasche. Quando il migliore amico, Lunno, gli ha proposto di spacciare nei bagni della scuola, lui subito ha detto di sì: per carattere non sa tirarsi indietro, infatti, e il loro è un giro talmente modesto da non scomodare mai i prepotenti del quartiere.

«Voglio mangiare con te tutte le volte che mi viene fame». «Che significa?».
«Che ti amo?». «E perché non me l’hai detto?». «Perché mi fai paura».
In queste pagine sperimenta: la prima punizione, il primo bacio, la prima volta con una ragazza – Serena, che ha le zizze grandi e rende tutto più meraviglioso. E leggendo, capitolo dopo capitolo, si rischia di volergli un bene esagerato; di affezionarsi troppo. Checché se ne dica, è un bravissimo ragazzo; un’anima fragile. Ferito dalle malelingue, dall’abbandono, dagli avversari rissosi con cui farebbe meglio a non immischiarsi, piange senza far rumore e si allena per non soffrire. Candido, semplice e innocente, cammina suo malgrado in una realtà eternamente sotto assedio: a un appuntamento può incrociare un passante accoltellato, il cui cadavere macchia un lenzuolo all’altezza del petto; sentire scoppiare i fuochi d’artificio fuori stagione, segno che non lontano ci sono traffici illeciti in corso; perdere compagni di squadra da un momento all’altro, dal momento che la loro età anagrafica non è sinonimo di lunga vita.
Giovanissimi non è La paranza dei bambini né La terra dell’abbastanza. Protagonisti e figuranti si sporcano senza puntare al potere, ma soltanto per mantenersi a galla. Sconvolge, allora, constatare quanto sia facile mettersi nei casini fino al collo; e se va male, rovinarsi i migliori anni.  Senza ansia da prestazione, Alessio Forgione mi è parso genuino e immediato come ai tempi del debutto. Il traguardo della pubblicazione e il successo non ne hanno cambiato l’approccio neorealista e la visione del mondo: compreso l’inconfondibile nichilismo di chi vede spesso il bicchiere mezzo vuoto. Lo stimo, e un po’ non lo sopporto. Si comporta con i suoi personaggi e i suoi lettori, infatti, alla maniera spietata di certi scrittori.

Fu così che pensai che nel primo ciao che si dice è compreso anche l’addio e che l’inizio è solo l’inizio della fine e che ogni incontro non è altro che un lungo abbandono, centellinato goccia a goccia, lento.
Inutile aspettarsi un finale tarallucci e vino. Ma questa volta non poteva forse accadere, cogliendoci tutti di sorpresa? Su Marocco e gli altri incombe una nuvola nera, un nuovo tormento. Un fatalismo che mi è sembrato raggirabile. La drammaticità del romanzo, su di me, ha avuto un impatto diverso rispetto a Napoli Mon Amour. Se quello si rivelava essere una escalation inesorabile, questo è una stoccata più rapida; più a tradimento. Meno necessaria? Le eccezione, in storie del filone, sono gli epiloghi quieti: Marocco, senza sbilanciarsi, per me ne avrebbe meritato uno. Perché è un personaggio eccezionalmente atipico. Senza machismo, racconta con commozione le amicizie e i flirt, gli sfottò, il cameratismo da spogliatoio, le sbronze tragicomiche e i reggiseni da slacciare. È un compare fedele, un fidanzato dolce. Apprezza gli abbracci del babbo, stringe i fianchi degli amici in scooter per bisogno di calore umano, e se ne infischia bellamente dei votacci e delle conseguenze. Corre, cade, si rialza, commette fallo. Qualche volta si merita il cartellino rosso, qualche volta fa goal. Giovanissimo, finché dura. 
Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Anastasio – Correre

lunedì 2 marzo 2020

Teen Netflix: I Am Not Okay with This | Sex Education S02

Prendete il regista di The End of the F***king World. Aggiungete la vena soprannaturale e le infinite playlist di Stranger Things. Setacciate la bibliografia di Stephen King: un tocco di Carrie – con una ragazza che fugge insanguinata dalla presunta notte del ballo – e come se non bastasse, all’appello, ecco due dei volti più apprezzati dell’ultima trasposizione di It. Immergete in abbondante olio di palma. Lo spettatore medio non si lamenterà: fritto piace tutto, compresa l’aria. È questa la ricetta segreta che hanno seguito gli sceneggiatori di I Am Not Okay with This: la serie adolescenziale che tutti attendevano e di cui tutti parlavano, che nel mio caso si è rivelata essere, però, la prima delusione dell’anno. La sempre graziosa Sophia Ellis, destinata qui a farsi amare meno del simpaticissimo vicino di casa Wyatt Oleff, è una diciassettenne problematica che sfoga l’ansia sociale in fenomeni paranormali incontrollabili. Eroina o super-cattiva? Sperando di non risultare autocelebrativo, chiedevo lo stesso del protagonista del mio primo romanzo: un racconto di formazione a tinte violente in cui paranormale e disagio giovanile andavano a braccetto, con tanto di narrazione in forma di diario. Il problema della serie è il suo non sviluppo. Presa com’è a rubacchiare qui e lì, finisce dopo soli sette episodi: prima di rivendicare la sua autonomia, la sua originalità. Darò un’altra occasione a un’eventuale seconda stagione, ma il fastidio resta. Verso l’occasione sprecata senza un briciolo di buona volontà. Verso una protagonista che gioca facile, tra omosessualità, padre suicida ed emarginazione. Verso l’ennesimo omaggio al cult Breakfast Club, già proposto il mese scorso in Sex Education. Verso i soliti look hipster, le solite atmosfere alla moda, la solita colonna sonora – quale adolescente, oggi, ballerebbe sulle note di una canzone di Rick Springfield? Cari anni Ottanta, anche basta. Questo effetto nostalgia a ogni costo può andare a farsi f***ere. (5)

Non si smette mai d’imparare. Soprattutto in fatto di sesso. Soprattutto in fatto di sessi. Strappando consensi generali, a gennaio è tornata la serie Netflix che parla di uomini e donne con una genuinità che conquista. A lezione da Sex Education torniamo tutti sui banchi del liceo; diventiamo tutti più giovani, nonché studenti modello. Come nella prima stagione, si parla fuori dai denti di sesso – e spesso lo si mostra – senza tabù. Di masturbazione, prime volte, omosessualità, asessualità, amori acerbi e amori maturi. Questa volta è stata introdotta anche la tematica tanto scomodata quanto attuale delle molestie: all’inizio liquidata con menefreghismo dalla vittima, in realtà lascia strascichi durante tutte le puntate. E chiama a battagliare un femminismo necessario e per nulla stucchevole, il migliore, che mostra come l’unione faccia la forza; anche su un autobus trasformato, dopo un gesto viscido, in uno scenario da incubo. Nonostante personaggi femminili sempre più autonomi e centrali, non scordiamoci di Otis: il sessuologo in erba con turbe evidenti, diviso tra la scontrosa Maeve e la solare Ola. A proposito di triangoli, poi, come tralasciare mamma Gillian Anderson indecisa tra il focoso idraulico e l'ex che torna a cadenza fissa? O ancora Eric, l’amico che ha il corteggiatore perfetto ma nel frattempo scalpita segretamente per il bullo Adam? C’è qualche evitabile cliché da commedia per ragazzi, ad esempio le dichiarazioni plateali nei momenti di aggregazione scolastica. C’è qualche personale rimostranza, soprattutto se serie più impegnate – vedasi Euphoria o Cercando Alaska – non godono purtroppo della stessa visibilità. Ma son quisquiglie, in un prodotto che cresce assieme ai suoi personaggi; in una stagione ancora più simpatica, emotiva e coinvolgente della precedente. In cui tutti lo fanno, tutti ne chiacchierano in lungo e in largo, ma senza volgarità. Garbati, pulitissimi fino all'ultimo. Chi ha detto che parlare di sesso è parlare sporco? (7,5)