lunedì 29 settembre 2014

Recensione a basso costo: Sette minuti dopo la mezzanotte, di Patrick Ness e Siobahn Dowd

Ciao a tutti, amici, e buon inizio di settimana. L'ultima, per me, da trascorrere qui a casa. Si ritorna all'università, e la mia presenza sul blog sarà meno costante, purtroppo. Mi dicono che la connessione sarà lentissima, quindi addio telefilm in streaming e aggiornamenti frequenti: andrò un po' a scrocco, un po' vedrò di essere attivo nei weekend. Ho in mente un ottobre a tema Halloween, per farmi perdonare. Oggi, vi recensisco un libro che ho divorato nel weekend. Sicuramente, la curiosità verrà a fare toc toc alla vostra porta nel 2016: con alla regia Juan Antonio Bayona, A Monster Calls arriverà al cinema. Chi più adatto del regista di The Orphanage e The Impossible per mostrarci questo toccante e drammatico rapporto madre-figlio, spruzzato di magia e toni dark? Tra i protagonisti, Felicity Jones, Liam Neeson e Sigourney Weaver. Dopo tanto, si sa anche chi darà il volto al piccolo Conor (qui una foto dal set). Sul libro: ho inserito la copertina che preferisco, ma i dati sono della recentissima versione economica. Un bacione. M. 
Le storie sono fra tutte le cose più selvagge. Le storie inseguonopredano e mordono. E quando avrò concluso le mie tre storie tu me ne racconterai una quarta. E sarà la verità. La tua.

Titolo: Sette minuti dopo la mezzanotte
Autrice: Patrick Ness - Siobahn Dowd
Editore: Mondadori “Oscar Junior”
Numero di pagine: 224
Prezzo: € 10,00
Sinossi: Il mostro si presenta a Conor sette minuti dopo la mezzanotte. Puntuale. Ma non è il mostro che Conor si aspettava, l'orribile incubo fatto di vortici e urla che lo tormenta ogni notte da quando sua madre ha iniziato le cure mediche. Questo mostro è diverso. È un albero. Antico come una storia perduta. Selvaggio come una storia indomabile. E vuole da Conor la cosa più pericolosa di tutte.
                                            La recensione
Ci sono cose che un bambino non dovrebbe conoscere. Ci sono cose che un bambino non dovrebbe saper fare. E' un suo diritto pretendere un bacio, al risveglio, e una colazione coi fiocchi. Sbattere i piedi a terra e fare il muso se, di ritorno da scuola, il pranzo non è pronto; se ci sono le verdure, a tavola, e lui non vuole mangiarle, perché sono amare e hanno un odore cattivo, come quello delle medicine. E poi c'è Conor, che invece sa. Cosa significa rimboccarsi le maniche del pigiama e prepararsi una tazza di latte tutto da solo. Cosa vuol dire tornare, dopo una giornata di interrogazione e odiosi atti di bullismo, e vedere un po' cosa mettere in tavola; cosa inventarsi col poco che c'è in frigo. Di cos'è che sanno e odorano le medicine, quelle vere. Sono molto peggio delle verdure, checché se ne dica. Conor ha tredici anni e, tra l'infanzia e l'adolescenza, scopre il dolore e la fragilità dei grandi. Ha paura di scoprirsi, d'un tratto, invisibile. Ha paura arriverà quel giorno in cui abbandonare ogni cosa e andare da una nonna tutta tailleur eleganti, cibi d'asporto e tintura per capelli, in una stanza degli ospiti che non sarà mai – con quelle pareti bianchicce, con quei quadri anonimi di barche a vela alle pareti – la sua stanza. 
Ha paura che il padre, trasferitosi in america con un'altra donna, lo rinneghi e che la madre, con quella tosse orribile che si fa sempre più forte e i capelli che si assottigliano, lo abbandoni presto. Prima che lui riesca ad abituarsi all'idea dell'assenza. Al pensiero della morte. In un'Inghilterra vaghissima e pallida - di cimiteri, ospedali, licei -, in una solitudine che si anima di piccole visite di cortesia e schiaffi, a raccontare le fiabe a Conor è un mostro. Quello che ogni notte, sette minuti dopo la mezzanotte, bussa alla sua finestra, con rami come braccia, un tronco come busto, un antico tiglio come corpo. Non è necessario avere paura di lui. Conor e il mostro, ormai, hanno un appuntamento fisso, quando la luna sale in cielo, il vento si alza, gli alberi si sradicano dalla terra e camminano, oltrepassando la ferrovia, scavalcando d'un balzo lo steccato. A pietrificarlo, invece, è un altro mostro. Quello dell'incubo. Quello portavoce di una verità, tra crepitii, urla e mani che si annodano e si lasciano, che, se svelata, potrà finalmente liberarlo. Sette minuti dopo la mezzanotte è un romanzo in cui mi imbattevo da troppo. Volevo mettere da parte i soldi; comprare l'edizione cartacea. Quella bella, curata, con le illustrazioni in bianco e nero. Per potere vedere la forma del viso di Conor e conoscere l'aspetto del mostro che, puntuale, andava sempre a fargli visita, chiamandolo per nome. Sapete cosa? L'ho letto sul Kindle, e anche senza disegni ho visto tutto. Ugualmente bene. Non molto tempo fa, la lettura in formato digitale mi lasciava dubbioso. Tutti i libri letti in ebook mi sembravano brutti, non degni di una seconda occhiata. Non era colpa del formato, ho realizzato: erano quei libri stessi a essere brutti. Su un dispositivo elettronico, stampati su carta, rilegati in pelle, lavorati con l'oro zecchino: dimenticabili, inutili. La saggezza dei vent'anni. Il libro di Patrick Ness – autore acclamatissimo, ma in Italia praticamente ignorato, per via di un'ostinata e stupida cecità che ignoro a mia volta – è di quella potenza che non lascia indifferenti. Il libro di Patrick Ness non è neanche opera sua. Un'altra autrice acclamatissima, un altro nome di prestigio ignorato, aveva iniziato a scriverlo, prima che la malattia la stroncasse a metà di una frase: Siobahn Dowd. Questa commovente, tragica, suggestiva fiaba, che parla di morte, ma soprattutto di quant'è straordinaria la vita, grazie a Ness e alla sua prosa magica, ha avuto diritto a una vita più lunga di quella della stessa Siobahn. A una meritata seconda chance. Io non pensavo, sapete?, ma è uno di quei libri che davvero tocca. Uno di quei libri, piccini picciò, che resta dove deve restare. Prevedibile, per il lettore più maturo. Ma con gli occhi lucidi, alla fine, girando pagine che non girano perché sono già finite, cosa diamine può fregarcene della prevedibilità. Lì pulsano cuori, ferite, palpebre, e la banalità non è contemplata, davanti a un'emozione che più... emozionante non si può. 
Ness, con l'ispirazione segreta e profonda della Dowd, mette a punto una bambola russa da esporre in prima fila, di modo che non passi inosservata nel nostro negozio di giocattoli preferito. Un romanzo di storie dentro storie. Un vaso di Pandora che – esorcizzata la paura – è da aprire senza timori. La narrativa per ragazzi ci parla di giovani malati che si amano, ma muoiono. Una vita in potenza e mai destinata a farsi atto è infatti un oltraggio, uno schiaffo forte a Madre Natura. I figli devono seppellire i genitori, perché quello è l'ordine naturale delle cose; così va il mondo. Facile a dirsi. Le fiabe che il mostro racconta a Conor dovrebbero parlare di quello: speranza, umano conforto, fiducia nel futuro. Invece quale morale c'è nella storia della regina cattiva, del curato che viene punito, dell'uomo che sogna di smettere di essere invisibile per poi desiderare fortemente il contrario, a conti fatti? Dov'è che sta il lieto fine? Tutte cose che si scoprono con Conor, mentre anche la sua personale fiaba sta per concludersi, com'è che deve concludersi. Una metafora sulla sopportazione; una parabola per bambini che hanno sofferto e non vogliono soffrire più; un memento infraintendibile per gli adulti che devono mettere a conto il dolore per essere coraggiosi quando, immancabile, li travolgerà. Un romanzo bello, tanto, che ho scelto per riempire il weekend e che invece mi ha riempito, smussandoli a dovere, gli angoli più nascosti. L'altro giorno, su Facebook, si parlava di romanzi che distruggono. Discorsi sciocchi, da fandom, in cui si tiravano in ballo saghe distopiche e non capolavori, messi bonariamente alla berlina da lettori un po' cinici, come me, che ritenevano che che nessun romanzo fosse scritto e progettato per far soffrire. Sette minuti dopo la mezzanotte è l'esempio perfetto che mi avrebbe fatto comodo per avvalorare la mia posizione. Nonostante le apparenze, al di là della tristezza, non vuole farti niente di male. E' catarsi. Sono più le cose che ti dona rispetto a quelle che ti sottrae. Perché i romanzi non distruggono mica. Costruiscono cose così.
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: A Great Big World – Say Something 

venerdì 26 settembre 2014

Mr Ciak #44: Sin City 2, Tutto può cambiare, Maps to the stars, Third Person

Ciao a tutti, amici! Eccomi ancora una volta con un appuntamento di Mr Ciak, a parlarvi di alcuni film molto, molto attesi. Caso strano perché, nel post di oggi, ogni film parla di un aspetto diverso dell'arte: il fumetto, la musica, il cinema stesso, la letteratura. Tra occasioni mancate e piccole delusioni, però, non ve ne sconsiglio nessuno. Non del tutto. Dal sequel di Sin City, dopo anni di attesa, ci si aspettava più impegno; il ritorno del regista di Once, per me, è stato graditissimo: Tutto può cambiare mi ha stampato un sorriso in faccia che non va più via e ho adorato la colonna sonora; Maps to the stars, dopo alcuni scivoloni da parte del regista, potrebbe forse essere il ritorno vero di Cronenberg - un po' satira, un po' parodia; Third Person, al cinema da noi il prossimo 23 ottobre, mi è piaciuto, ma non mi ha completamente soddisfatto. Quali vedrete? Quali attendevate? Un abbraccio e buon weekend. M.

Io facevo la quinta elementare quando Sin City arrivò al cinema. Dieci anni fa, quasi. Si parla di un seguito da allora. Piccolino, ero rimasto molto affascinato dai bulli, le pupe, le poppe, le auto, gli squarci di colore nel buio. La potenza visiva di Sin City era impressionante, per il me di allora, come per il me di adesso. Anche questo secondo capitolo, giunto la bellezza di due lustri dopo, è un gioiello per gli occhi. Eccitante, avvolgente, adrenalinico, non stanca mai: è il noir che incontra il fumetto. Una meraviglia per chi apprezza le belle cose. E le belle cose, qui, non latitano. Il motore del film, infatti, sono le donne. Donne per cui vale la pena uccidere: coloro che borbotteranno, perché no, Gesù piange se fai pensieri come questo, saranno messi a tacere da uno o due primi piani da infarto. Sin City 2 è pieno di pensieri sporchi, colmo fino all'orlo di lussuria; sanguinante e vagamente erotico: a Gesù non piacerebbe. Del primo ho un ricordo positivo, ma tutto fumo. Era più complesso, lungo e articolato di questo che, con i suoi novanta minuti, risulta un compitino che i suoi lati positivi ce li ha, anche se la stringatezza di alcuni passi ne mette in dubbio l'autenticità. Il nuovo film di Robert Rodriguez, girato spalla a spalla con Miller, è furbissimo, ammiccante, letale. Lo vedi e, per un motivo o per l'altro, che vuoi dirgli di male? I contenuti scarseggiano e i tre episodi, autoconclusivi, hanno ritmi altalenanti: il primo ruba attenzione agli altri. Li mangia in un boccone. Cosa ci si poteva aspettare da Ava Lord, la mangiatrice di uomini: la dea del sesso, la femme fatale... la mia amata Eva Green. Sin City fa miracoli con il suo corpo tutto forme. Gioca con i suoi nudi, mette a punto ombre perfette a nascondere quello che solo Bertolucci ha mostrato, fa del vedo-non vedo opera d'arte. I suoi occhi verdi lampeggiano, la sua voce è roca, e per Josh Brolin non c'è scampo. Non è casuale l'assonanza con Ava Gardner. Per Eva: dieci più! Dopo le sue, hanno inizio e fine le vicende di Joseph Gordon Levitt – un giovane fortunato al gioco, sfortunato in tutto il resto – e quelle della bella Jessica Alba, stripper mossa dalla sete di vendetta e da anni di meditazione. A unire i personaggi, un saloon in cui ogni notte c'è una rissa, quel piantagrane di Mickey Rourke, squillo di periferia armate fino ai denti e dal vestiario assai ridotto. Sin City risulta un'antologia pulp, che pare scritta da un Ellroy in preda ai fumi dell'assenzio: la durata ridotta permette lo sviluppo di uno scarso numero di vicende e, per forza di cose, alcune risultano più sviluppate (e accattivanti) delle altre. Fiacche quelle del buon Joseph, frettolose quelle della Alba, seducenti quelle della Green e del collega Brolin. Tra i cameo tanto cari a Rodriguez, Lady Gaga, Juno Temple, Ray Liotta e la mia portinaia. Scherzo, lei era in Machete Kills, creduloni. Una donna per cui uccidere è come la vendetta del personaggio di Nancy: un'attesa e bang! Un attimo, poi cala il sipario e si sloggia dalla sala. Spassoso, tutto sommato, e inevitabilmente ipnotico. Eva Green - ebbene sì, sono recidivo - su Vanity Fair, ha affermato, parlando del suo censuratissimo poster: "le mie tette non hanno mai ucciso nessuno". Dolcezza, le bugie non si dicono. Perché, qui, mettono K.O tutto il resto. (6,5)

C'era una volta Once. Minuscolo, quieto, imprevisto, era arrivato agli Oscar, zitto zitto, cantando cantando. Non lo vedo da una vita, ma lo ricordo di una fragilità splendida. Non sentivo da una vita il nome del suo regista, John Carney, ma quest'estate in America – dopo il silenzio – è tornato. Il primo film americano di un irlandese. Cose che, con la fama, succedono: i cambiamenti. Con la fama ci si perde un po'. Di questo parla il suo film, che invece non si perde. Tutto può cambiare è una commedia indipendente personalissima, anche se con il film precedente ha in comune note, pentagrammi e basta. Il cinema che parla delle strategie discografiche, della musica, dei sogni messi all'asta, di mode che ci vogliono tutti ammiccanti e tutti uguali sa intrattenere, perfino divertendo. Ha lo sguardo di chi New York la vede davvero per la prima volta. Quello del turista poveraccio che può permettersi solo gli angoli, non il lusso. Quello di un appassionato vero, che ne conosce i segreti e li regala ai passanti, insieme a un sorriso. Sguardi spaesati, incantati, contemplanti: così si conoscono Keira Knightley e Mark Ruffalo. I traditi, i senza radici. Lei, cantautrice inglese giunta in America con un sogno; lui, produttore grassoccio e negligente che ha fallito come padre e ha fallito come professionista, nell'istante in cui abbandona il suo ufficio in una scena madre alla Jerry Maguire, ma senza Renée Zellweger adoranti al seguito. La musica lo salva, in un bar in cui gli strumenti iniziano a suonare da soli: in una visione ad occhi aperti con al centro una musa schiva dall'accento britannico. Il nuovo film di Carney è di un'intimità vista da lontano; una sorpresa che lascia i classici “momenti da film” ai titoli di coda, come se non avessero importanza; una commedia che evita accuratamente qualsiasi momento romantico. Gli attori sono naturali, anche come cantanti. Escono con camicie stinte ed abiti a fiori, pinocchietti e jeans con le toppe, e la loro trasandatezza non penso sia studiata: la loro voce, insieme ai vestiti, è spiegazzata. Mentre camminano, non c'è quasi macchina da presa che ascolti le loro critiche sui tizi che si fanno crescere la barba perché fa figo; sulle adolescenti con quegli orribili pantaloncini a vita alta che mettono in mostra la mercanzia e uccidono la femminilità; sulle case discografiche che rubano soldi e identità. Keira Knightley, introversa e delicata, canta canzoni che sono come lei: esili, ma con carattere da vendere. Però quante smorfie che fa... Adam Levine, in una vaga parodia di se stesso, fa bene quando è su un palco con i Maroon 5, ancora meglio quando è da solo con una chitarra in mano. Ruffalo, be', maestro di versatilità, dopo la prova potentissima in The Normal Heart e la parentesi "supereroesca" con The Avengers. Sbirciare l'ipod per conoscere l'altro, incidere pezzi per strada, avere come sottofondo la City e Frank Sinatra: Tutto può cambiare è un'orecchiabile fiaba acustica, che conosce il traffico, il rumore, le seconde opportunità, artisti che si mettono comodi e ti dedicano una canzone. Lost Stars (per sentirla, qui) come Falling Slowly, agli Oscar? (7+)

Mi piace Cronenberg. O almeno credo. Mi è piaciuto Maps to the Stars. O almeno credo. Hollywood va a fuoco e il fumo arriva fino a qui e rincoglionisce. Non vedo a un palmo dal mio naso: in cielo però si vedono ancora le stelle, ma è tutto un imbroglio. Sono cose morte, anche se fanno una luce fortissima. Cronenberg ci dà un cannocchiale e ci lascia spiare le vite su cui tutti fantasticano. Il ritratto che ne viene fuori è impietoso e bollente, cinico e malato. Una commedia nera che vive di dialoghi perfetti e di gallerie senza fondo popolate da personaggi stralunati e grotteschi. Tutti comunicano qualcosa, tutti rappresentano una fetta di un meccanismo a torta, che rimpinza crudelmente i diabetici, tiene a stecchetto gli anoressici, vizia i bulimici, tenta i golosi. La pellicola, ciarliera e caotica, ha personaggi irrisolti che rimuginano su rapporti irrisolti, stretti dai nodi dell'incesto e del malessere. Si scrivono dal nulla personaggi che incarnano la materia umana di cui sono fatti i sogni e i rotocalchi. La recitazione richiesta al cast non è delle più naturali, ma i protagonisti sono tanto bravi da non rendere quei personaggi macchiette da vignetta satirica. Cusack non spicca, Robert Pattinson ha una particina inutile come lui, tra gli uomini, è il piccolo Evan Bird a farsi ricordare: un enfant prodige che, a tredici anni, ha già problemi di droga e un'attiva vita sessuale. Misterioso il filo che lo lega alle vicende della bravissima Mia Wasikowska, che sfoggia aria dimessa, il viso segnato, scatti schizofrenici. Trionfatrice a Cannes, una Julianne Moore fuori controllo, che fa il suo meglio e il suo peggio: una diva volgarotta e vuota – tutto il contrario della professionista che la interpreta - che si è arresa alla chirurgia estetica, ma non all'idea di essere rimpiazzata. Bipolare e isterica, fa notizia per avere denunciato le molestie di una madre morta che continua ad apparirle con il fare languido e inquietante della Sarah Gadon di Cosmopolis. Un film imperfetto, che culmina in un epilogo onirico e mozzato, ma giustissimo. Non immaginerei altro finale. Per chi è rimasto colpito dalle potenti immagini iniziali di quel The Canyons che – per me - non era del tutto da buttare. Per chi sogna uno spregiudicato Viale del tramonto nell'era di Scientology. Tante chiacchiere, tanto veleno, tanto fuoco in petto. (7)

Tre città, una luce accesa, infinite storie. Qual è il confine tra fatti e immaginazione? Qual è la distanza esatta tra New York, Parigi, Roma? Third Person. La terza persona: quella che Liam Neeson, autore vincitore del Pulitzer, usa per mantenere il distacco dalle trame che inventa, saccheggiando la vita sua e delle persone che ha conosciuto. La terza persona è quella di troppo, l'ombra che si allunga su rapporti destinati a mantenersi imperfetti. Quella che impedisce a una disperata Mila Kunis di abbracciare il suo bambino, per un tragico errore che ha commesso e che James Franco non perdona. Quella che ha sottratto la figlia a Moran Atias, una bella rumena che, in una città eterna ed indifferente, trova l'aiuto finanziario di Adrien Brody, un turista straniero con un lutto segreto e conti in sospeso con criminali che trafficano in una Puglia inospitale. Ancora, quella che allontana una sexy e fragile Olivia Wilde dalla stanza d'albergo in cui Neeson, in cerca di una musa eterna, vorrebbe tenerla per sé. Dopo Crash, Haggis propone al suo pubblico un'altra storia lunga, lenta, appassionante. Fatta di mille hotel di lusso, centinaia di individui, soldi spesi in rose bianche e vasi di cristallo, inchiostri a fiumi e parole a cui ripenso. Un dramma corale, con donne bellissime e pericolose, che non perdonano noi uomini, ma nemmeno loro stesse. Hanno anime pesanti e paura dell'acqua alta. Il suono del pianoforte non si zittisce mai, neanche quando – in una bettola romana – si sente in sottofondo una Tatangelo o un Biagio Antonacci, con il limoncello in bicchiere e uno Scamarcio con la ritrosia verso gli zingari. Il montaggio è dei più sapienti e la direzione di un professionista lega e scioglie le storie, grazie a un cast ottimo in cui tutti e nessuno sono protagonisti. Una parola giusto per Moran Atias, italiana d'adozione, che si tiene tutti i vestiti addosso – al contrario della Wilde – e si dimostra all'altezza della situazione: con la lingua inglese, la collaborazione con star affermate, un personaggio scontato.Third Person è un film che sembra non esplodere mai, ma che chi ama la scrittura – e la maledizione e il miracolo che rappresenta – comprenderà pienamente. Uno sguardo su un mestiere, sull'espiazione, su furti di vite che possono garantire l'immortalità o la completa distruzione. (6,5)

giovedì 25 settembre 2014

I ♥ Telefilm: Finding Carter, You're the worst, Under the dome

Finding Carter
Stagione I
La mia attività preferita, in estate, è annoiarmi. Cercavo la compagnia di una nuova serie tv e, poco convinto, mi sono avvicinato a Finding Carter. L'ennesima robetta adolescenziale, immaginavo, con un tono che non volevano essere dispreggiativo: a me la robetta adolescenziale piace, soprattutto se targata MTV. In questo caso, di nuovo c'è poco, ma sapete che Finding Carter merita? L'ho capito dai due episodi iniziali, rilasciati contemporaneamente, come fossero una lunga puntata di un'ora e mezza, e dalla sensazione di avere a che fare con qualcosa di profondamente familiare. La storia è quella dell'adolescente Carter che, grossomodo, è una come tante. Un problema con la giustizia, una notte, non le assicura macchie sulla sua fedina penale, ma una scoperta che rivoluziona tutto. In commissariato hanno già le sue impronte digitali. Lei non si chiama Carter, lei non è figlia della giovane donna che l'ha cresciuta: è stata rapita da bambina e, per tutta la vita, ha vissuto con la criminale che l'ha strappata ai suoi genitori. L'adolescenza è un periodo terrificante: mette in discussione tutto. E cosa mette in discussione, esattamente, la consapevolezza di non essere chi pensavamo? Carter può riabbracciare la sua famiglia e ritornare a casa, tredici anni dopo. Ma quelli che la abbracciano sono estranei, e lei non ricambia l'abbraccio. Finding Carter è uno young adult sulla scoperta delle proprie origini e sul riappropriarsi di un'identità negata, ma narrato dal punto di vista di una protagonista umana ma tormentata, che capiamo e non. Perché Carter si scopre parte della famiglia perfetta – ma esistono famiglie perfette? - eppure quello che vorrebbe fare è fuggire via, con quella mamma fasulla che seguirebbe in capo al mondo. All'inizio non può, poi non vorrà più, ma porterà novità e danni nell'esistenze con cui entrerà in contatto. Inserita in un nuovo liceo, si procurerà amicizie e inimicizie, amori e odi e, curiosa e screanzata, godrà della luce della popolarità. Kathryn Prescott, minuta e bellina, dopo Skins e una “spregevole” particina in Reign, si mostra una brava padrona di casa, ma sono i comprimari a farsi volere bene. L'affascinante mamma poliziotto, la timida sorella gemella, il carinissimo e precoce fratello minore e, soprattutto, Max: il migliore amico che, dietro l'aria da ragazzaccio, tocca con un'anima da autentico bambino perduto. Il finale di stagione, con segreti mai rivelati che aleggiano ovunque, è sospeso e abbastanza forte. Ci vorrà l'anno prossima per mettere insieme i pezzi. I colpi di scena non mancano, la serietà non pesa, la leggerezza incontra il dramma e lo stempera come meglio può. Finding Carter cattura con il pregio di una semplicità intelligente. E piace, per la descrizione di dinamiche familiari che fanno pensare nostalgicamente ai teen drama classici, tradizionali: a me a The O.C, ma senza villette con piscina, e a Kyle XY, ma senza alieni. Be', Carter – adorabile e odiosa – un po' alieno lo è. (7+)

You're the worst
Stagione I
Un'altra serie debuttata nei mesi estivi. Un'altra scoperta. You're the worst – sfrontato, dissacrante, ironico, sexy – è un modo più o meno nuovo di tornare a parlare d'amore. Le cose di cui parlare sarebbero tante - dalle battute fulminanti all'alchimia tra i protagonisti, dall'originalità dei toni al ritratto grottesco di un pugno di trentenni tutti vizi e grigliate in giardino – ma parto dicendone un'altra. Per guardare i dieci episodi di cui la prima stagione è composta mi ci sono voluti due mesi. Duecento minuti complessivi, distribuiti in una sessantina di giorni. Ma come si fa? Personalmente, la curiosità che ho provato agli inizi è finita per scemare e, verso il finale di stagione, una certa irritazione ha prevalso. Non tanto nei confronti della serie, quanto del formato sit-com. You're the worst, visto una volta ogni tanto, non me lo sono goduto come avrei voluto. Peccato, perché in questo modo non so parlarne oggettivamente. Recuperatelo adesso, e guardatelo in due giorni. Sarà uno spasso: garantito. Avrete tutta la mia invidia, ché è un gioiellino. Io il primo episodio, visto a luglio, neanche lo ricordo più. Ho vaghi flash dell'incontro tra Jimmy e Gretchen, ma, ormai, so come va a finire tra loro. Due tipi strambi e sopra le righe. Due pitbull, per citarli, che prendono a morsi gli altri cani, ma che tra loro vanno d'accordo. Si contendono il posto sullo stesso divano. La loro non-relazione è fisica: questione di chimica. Giurano di non amarsi mai, ma prima che un sentimento (per noi non tanto) impreviso faccia capolino, fanno del gran sesso, si saccheggiano i frigoriferi, ridono delle vite degli altri. Come la Kunis e Timberlake, ma in una rilettura politicamente scorretta, sono Amici di letto... ma diventeranno altro? Fantastici i protagonisti, che non conoscevo: Chris Geere, biondino dall'aristocratico accento british, e la rossa tutto pepe Aya Cash, divertita e seducente. Lui, scrittore fallito che salta da un letto all'altro, da quando quell'acidona della sua ex l'ha mollato; lei, manager di rapper all'avanguardia, con una parentesi da galeotta, l'allergia all'amore, la simpatia verso il bicchiere. Attorno a loro, tra ambienti finto chic, vernissage e brunch, un mucchio di parlocce e comprimari esilaranti: come Lindsay, paffuta mogliettina ninfomane, e Edgar, reduce di guerra che vive di programmi di cucina, crisi isteriche e così via. You're the worst, cattivo e inviperito, romantico e osé, non è un'altra stupida commedia americana. O forse sì? Come Don Jon, il telefilm Fox, infatti, i clichè li usa e li getta, li bacia e li mangia, con l'aiuto di un cast a sorpresa e di uno script brillante, ma – per me - vagamente schiavo della monotonia. Una commedia, questa, che non diventa mai rosa. Abbasso l'amore! (7)

Under the dome
Stagione II
Certo che chi Stephen King lo conosce solo per Under the dome, ragionevolmente, chiederebbe: ma re dell'horror dove? La serie televisiva, tratta da un corposo romanzo del mio autore preferito che ahimè non ho letto, perché pubblicato in un periodo di rottura provvisoria tra me e il caro zio Stephen, ha caratteriste contrarie a quelle del suo famosissimo ideatore. Cose che, quando leggo King, sottolineo spontaneamente: la scrittura magistrale, i personaggi dinamici, gli intrecci fitti ma coerenti, la tensione che non si perde, nonosante le tante pagine e i tanti dettagli. Cose che ci sono in Under the dome: nessuna delle precedenti elencate. Ah, non proprio vero: nel primo episodio, in una scena girata in un bar, c'è l'autore in persona – in un simpatico cameo – che chiede tutto gentile una tazza di caffè. Stephen, carissimo, non potevi chiedere che si facesse qualcosa di poco, poco meglio? Come la prima stagione, infatti, che mi aveva lasciato con un gran bel punto di domanda, anche la seconda – coi suoi tredici episodi – va avanti tra alti e bassi, ripetizioni e noia, trovate fantasiose (poche) e altre (parecchie) un tantino assurde. Nonostante la voglia di spoilerarmi tutto con l'aiuto magico di Wikipedia, mi trattengo, e quindi non so dirvi quali sciocchezze siano da attribuire alla riscrittura per la televisione, quali allo scrittore stesso, che in quel periodo pareva oggettivamente non brillare granchè. Si riparte da dove si ci era fermati (e chi se lo ricordava?) e si cambia il minimo indispensabile. Il microcosmo rappresentato da quella Chester's Mill in una bolla aliena rimane invariato, se non fosse per gente di poco conto che muore e gente (non sempre) di poco conto che, in qualche strano modo, torna. Viene meno, purtroppo, la mia amata Britt Roberson, destinata ad essere un'apparizione evanescente soltanto verso la fine, e si aggiunge un'altra ragazza, sbucata dagli anni '80 e tornata da una morte per omicidio. Posso anticiparvi che, questa volta, si esce all'esterno, ma la Cupola non lascia mai i suoi personaggi del tutto liberi. Si aprono dei tunnel, passaggi incomprensibili per dimensioni parallele, ma – con personaggi che giocano ai piccoli esploratori delle caverne e altri in preda alla sete di ventetta – si marcia più che altro sui consolidati drammi. Una vaga atmosfera apocalittica-catastrofica si respira, ma forse gli esigui effetti speciali non permettono grosse trovate. La storyline si infittisce, ma si lasciano seguire soltanto le vicente dei due belloni Mike Vogel e Rachelle Lefevre (lei bellissima!) e degli adolescenti “in vitro”, Colin Ford e Mackenzie “che fronte alta che hai” Lintz, a cui si aggiunge un occhialuto hacker doppiogiochista e la Melanie che visse due volte. Limitatevi a guardare le scene in cui ci sono loro, se non volete perdere il filo conduttore ma di seguirlo per intero non vi va. Finale leggermente ansiogeno e spalancato nel vuoto, un enorme boh, un ovvio to be continued. (5,5)

martedì 23 settembre 2014

Recensione: Arrivano i pagliacci, di Chiara Gamberale

Ciao a tutti, amici. Questo pomeriggio, nuova recensione di un romanzo nuovo e vecchio insieme. Arrivano i pagliacci è l'ultimo romanzo di Chiara Gamberale arrivato in libreria, ma allo stesso tempo è anche uno dei primi: ormai introvabile, è stato ristampato, con una nuova veste grafica che adoro. Copertina bellissima, assolutamente. Ma non si giudica da quella, quindi – grazie a Maddalena, che saluto anche qui – l'ho letto e ve ne parlo, mentre parlo un po' anche di me. Inevitabile, con quella chiacchierona di Allegra che, anche se non vuoi, ti spinge ad aprirti e a condividere ricordi. La butto lì: penso che di Chiara, finora, sia il libro che ho preferito. Un abbraccio e buona settimana, M.
L'importante è non tradirsi. E, ogni tanto, ricominciarsi.

Titolo: Arrivano i pagliacci
Autrice: Chiara Gamberale
Editore: Mondadori
Numero di pagine: 204
Prezzo: € 15,00
Sinossi: Allegra Lunare ha vent'anni, è nel momento in cui la vita, per molti, comincia: invece per lei finisce, e deve trovare il coraggio per iniziarne una tutta nuova. Allora Allegra scrive: per non avere paura, per salvarsi l'infanzia, per non dimenticare il senso delle persone e delle cose che sono stati il suo mondo fino a quel momento. Scrive una lettera ai nuovi inquilini che abiteranno la casa dove ha vissuto con la sua bizzarra famiglia, e prende spunto dagli oggetti che rimangono nell'appartamento e di quei pochi che porterà con sé. Ognuno di essi racconta una storia: quella di suo padre, universitario rivoluzionario, e della mamma, giovanissima modella americana; la nascita di suo fratello Giuliano, con la sindrome di down; l'amore magico tra Adriana e Matilde; l'incontro con Zuellen, che è affamata d'amore e sa trasformare tutto in qualcos'altro; le cose che ha imparato a teatro e al circo, la più importante: che dopo il numero dei trapezi arriva sempre il numero dei pagliacci... La scrittura di Allegra procede come il respiro veloce della giovinezza, quando si ha fretta di capire: per libere associazioni, per assonanze del cuore, accostando ai sentimenti cose che ne sono i correlativi oggettivi, e che spesso li esprimono con maggior potenza. Il suo sguardo si posa su ogni spazio da una prospettiva inattesa, filtrato dalle lenti colorate con cui ha imparato a osservare la vita per non essere lambita dalle sue ombre: e ci restituisce un'istantanea candida e acutissima al tempo stesso.
                                            La recensione
Nell'ultimo anno e mezzo, non so quante case ho visitato. Più di quanto sia stato necessario o possibile nei diciannove anni direttamente precedenti. E la cosa mi imbarazza, a morte. Nella mia lunga e personale lista di fattori che mi pietrificano, e mi rendono insicuro, e non mi fanno spiccicare più di una manciata di parole di circostanza, visitare le case altrui occupa i primi, primissimi, posti. Dopo parlare a telefono con dei perfetti sconosciuti, chiedere informazioni ai passanti senza balbettare, alzare la mano in una platea che ha orecchie solo per me, sentire la mia voce nelle registrazioni e non riconoscerla, e via dicendo. Io sono uno che si imbarazza facilmente: già. Da bambino, invitato a casa di un compagnetto di scuola, rifiutavo bicchieri di limonata, pezzi di torta, merendine, partite ai videogiochi. Tutto, con un cortese no, grazie. Quasi sempre. Non chiedo acqua, anche se muoio di sete. Non chiedo dov'è il bagno?, anche se rischio di farmela nelle mutande. Adesso: immaginatemi mentre, per un anno di università che sta nuovamente per cominciare, cerco casa. Setacciare gli annunci, staccare i numeri di telefono, digitarli. Contattare telefonicamente estranei: la prima violazione di una voce scritta nella famosa lista, per iniziare proprio al meglio. Figuratevi quando si tratta di calpestare i loro zerbini, gridare un Permesso? di circostanza, mettere il naso tra le loro stanze, anche se una di quelle stanze, poi, potrebbe diventare la mia. Dettagli. Sono comunque un barbaro invasore dai piedi pesanti. Io vivrei in pigiama, penso che tutti vivrebbero in pigiama e, dunque, il realizzare che quei forse futuri coinquilini abbiano indossato jeans, maglietta e scarpe solo per me mi mette come in soggezione. Non mi merito un abbigliamento di tutto punto, ché tanto non so neanche se quella casa la prendo oppure no: pantaloncini ed infradito mi avrebbero fatto sentire meno a disagio, mentre cammino tra le loro vite, e mi dicono che questo è il bagno (e io cerco di non violare la privacy dei loro spazzolini gocciolanti, dei loro sciampi finiti, della loro biancheria messa ad asciugare sul termosifone spento), questa è la cucina (e io non guardo le tazze sporche nel lavello per cui si scusano, le macchie sul tavolino che i libri sparpagliati nascondono, le bottiglie di birra sulla credenza come una collezione), questa è la tua stanza (e qui uno sguardo più lungo posso concedermelo, tanto è spoglia e forse aspetta me, le mie foto, il mio accurato disordine). Spese escluse o spese incluse? Il canone Rai, la caldaia, l'Adsl, il condominio...? Spari di cifre, strette di mano, sorrisi a labbra strette, la promessa di risentirci. Ti farò sapere. E però c'è quella locataria che ti trattiene la mano più del dovuto.
Non si limita a stringerla, ma in un gesto, in un attimo, ti tocca la linea della vita, dell'amore, della fortuna e ti offre da bere un caffè sciacquo. Rifiuti, ma lei non sente. Ti inizia a parlare, ma non senti tu. Allegra Lunare dev'essere pazza, ma è una pazza di quelle... gentili. Ci tiene a dirmi che il suo film preferito è Dirty Dancing, che non leggerà mai Proust, che vuole recitare a Broadway, che ha perso la verginità a sedici anni e, tirando su col naso, aggiunge che in quella casa ci è nata e cresciuta. Abbandonarla è difficile, tagliare il cordone ombelicale a vent'anni fa strano e fa male, ma deve. Sa solo lei perché, ma deve. Mi racconta una storia di famiglia di cui, inizialmente, mi frega poco. Non appoggio i gomiti sul tavolo, tengo le braccia conserte, non mi avvicino al bordo della sua verità. Ascolto Allegra, ma come si ascolta un discorso privato che, nonostante le voci alte e gli strilli, non è rivolto a noi. Prende una foto di famiglia e mi indica chi se ne è andato e chi c'è ancora. Chi non c'è più, e chi c'è, ma sotto altre forme e altri tetti. Ma a me che me ne importa della mamma bambina con l'accento americano; del padre che dietro la cattedra da professorino ha nascosto i sogni rivoluzionari che faceva in gioventù, al tempo delle kefieh e dell'amore; delle zie lesbiche, di cui Allegra non si è mai mai domandata se fosse giusto o sbagliato che stessero insieme; del fratellino (-ino, anche se è più grande) down e della migliore amica dal nome storpiato causa Dallas, che morirebbe per un bacio appassionato e una fuga romantica lontano dalle suore? 
Niente m'importa, così le faccio: Ma io, Allegra Lunare, ti vengo forse a dire che sono mezzo siciliano e mezzo napoletano, ma odio la matematica, le divisioni, le mezze misure e quindi mi sento un po' perso, sapendo che appartengo a due luoghi e a nessuno al tempo stesso; che vivo in Molise, ma il Molise non esiste, quindi ciao; che mia nonna, manco fosse Demi Moore, cinquant'anni fa mi ha trovato un nonno di cinque anni più giovane di lei; che mia mamma la immagino tipo La moglie dell'uomo che viaggiava nel tempo, mentre mio padre scortava delinquenti al nord; che io sono nato con quattro anni di ritardo e che mio fratello è nato per caso, con una spalletta rotta e un soffio al cuore; che... che... che la tua storia è confusa, pazza, sottosopra, sgrammaticata, senza controllo? Guarda, sei uscita dai margini. Sei andata fuori traccia, hai fatto un pasticcio di scolorina e sottolineature, hai mandato a quel paese le care lezioni di grammatica, con frasi chilometriche, salti temporali, bugie. Non si dicono le bugie! Mi stoppo, con tanto di mano spalmata sulla bocca. Non dico i fatti miei alle persone, non dico i fatti miei a personaggi dei libri. Suppongo, tuttavia, che Arrivano i pagliacci lo consenta. Quando certi autori sono onesti con te, tu devi essere onesto con loro. Un ricordo per un ricordo, una vita per una vita. Davanti ad Arrivano i pagliacci, ho reagito come davanti ad Allegra – questa padrona di casa estroversa, impicciona, logorroica, che ti fa trovare l'appartamento pieno di scatoloni. Altri scatoloni da aggiungere ai tuoi, e tu ti chiedi cosa te ne farai. Io, all'inizio, mi sono domandato cosa me ne sarei fatto di Arrivano i pagliacci, il romanzo che non era un romanzo. Le confidenze troppo intime: mi imbarazzano anche quelle. Poi, non so dire quando, mi sono sciolto: messo a mio agio, ma anche liquefatto. L'epilogo, con un colpo di scena fortissimo, mi ha fatto stare male. Gli occhiali rosa della protagonista si erano graffiati e lei, che vive di amori immaginari e non sa come Love Story e Titanic vanno a finire, a vent'anni scopre il dolore. Se fosse una maschera, sarebbe Pierrot: in mezzo al carnevale, ma con una lacrima solitaria sulla guancia. Parlavo io, parlavo Allegra e mi è venuta in mente nonna che, alle rimpatriate, quando beve un sorso di limoncello in più, inizia a straparlare – sempre delle stesse cose – e a costruire per l'aria alberi genealogici e racconti, sui nipoti, le cognate e i generi, i figli pestiferi e le matrigne che sembrano uscite dalla favola di Cenerentola. Stasera la chiamo e glielo dico che ho pensato a lei: la prossima volta, porto con me il libro di Chiara Gamberale. E chi è, la tua fidanzata?, mi chiederà. No, nonna, è una scrittrice e il suo romanzo, ritornato nelle librerie dopo quattoridici anni, mi ha fatto pensare a noi. Mi dirà che lei un po' non ci vede e un po' non sa leggere bene, perché non ha finito le scuole. E' piena di acciacchi, con le medicine che prende a cena le viene sonno, e con i libri scritti in piccolo ancora di più. Lo leggiamo insieme, dico, e la saluto, ricordandole che dopo il numero dei trapezisti arrivano i pagliacci. Un libro piccolo e imperfetto, questo, che mi ha fatto parlare a macchinetta di cose che non interessano a nessuno e ricordare Il favoloso mondo di Amélie, L'ultima ruota del carro, La kryptonite nella borsa e le storie che, a tavola, si raccontano a casa mia, vostra, nostra.
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Andrea Nardinocchi feat. Danti - Le Pareti

sabato 20 settembre 2014

Recensione in anteprima: Unbreakable, di Kami Garcia

Non ero destinata a salvare il mondo, e non lo ero mai
stata. Ero la persona che lo aveva distrutto.

Titolo: Unbreakable
Autrice: Kami Garcia
Editore: Mondadori “Chrysalide”
Numero di pagine: 300
Prezzo: € 17,00 (- 25%, fino al 3 Ottobre)
Data di pubblicazione: 23 Settembre 2014
Sinossi: Anche quello che non puoi vedere, può uccidere. Quando Kennedy Waters trova sua madre morta, non immagina che la colpa possa essere di "presenze" sovrannaturali... fino a quando due gemelli identici e misteriosi, Jared e Lukas, fanno irruzione nella sua stanza e annientano uno "spirito" che sta cercando di ucciderla. Kennedy scopre molte cose: non solo che la morte di sua madre non è stata un incidente, ma che esiste la Legione della Colomba Nera, una società segreta di cacciatori di fantasmi che ha il compito di proteggere il mondo dai demoni. Nella stessa notte cinque membri storici della Legione sono morti, e ora devono essere rimpiazzati da altri ragazzi, ognuno dotato di un'abilità unica e letale. Solo Kennedy non riesce a trovare il suo posto nella legione, e nel mondo... riuscirà a trovare quel pezzo mancante del puzzle prima che sia troppo tardi? Prima che le distruggano, per sempre, la vita e il cuore?
                                            La recensione
Dico la verità, tutta la verità, nient'altro che la verità. Se non amassi così incondizionatamente e ciecamente la saga iniziata con La sedicesima luna e terminata, la scorsa estate, con un ultimo volume che sfortunatamente ancora mi manca, non credo mi sarei avvicinato mai ad Unbreakable. Perché è evidente che a latitare sia un elemento non da poco, no: chiamasi “originalità”. Ci sono storie che, solo alla fine, si rivelano prevedibili, piene di cose già lette e già viste. Deludono per quello; demoliscono qualsiasi tua buona intenzione per quello. Unbreakable, cosa strana, si mostra semplicissimo già a partire da una sinossi che non vuole e non può brillare: metaforicamente, sembra quasi mettere le mani avanti sin dalle premesse, manifestando i suoi limiti e le sue minuscole aspirazioni. Una schietta ammenda, però, che fa bene alle sue misteriose sorti. All'inizio della recensione, avete pensato che sto per sconsigliarvelo. Ora, dopo questo però lasciato così, in sospeso, state pensando che in Unbreakable, sotto sotto, c'è qualcosa di sorprendente. Per voi, in entrambi i casi, un due di picche. Non sto per dirvi né l'una, né l'altra cosa. L'originalità non è di casa, ma sapete? Funziona. Il romanzo funziona. Ha una bella colonna sonora – Foo Fighters, The White Stripes e altri – e strizza con consapevolezza l'occhio all'abusato mondo dell'horror. Unbreakable è un romanzo che diverte, mentre la sua autrice si diverte. Ho sentito, più che altro, la mancanza di Gatlin e della sua strana ospitalità. La sensazione meravigliosa di trovarmi in un non-luogo fuori dal mondo. Alla Stohl, evidentemente, dobbiamo le rievocazioni storiche, i minuziosi dettagli, le ricette locali. Perché la Garcia ha il resto: una velocità scattante, l'autoironia, i capitoli che durano un soffio e che hanno i più accattivanti dei titoli. Il distacco dall'amica, dalla gemella siamese, non si percepisce con violenza, perché, nonostante il genere di appartenenza, Unbreakable e Beautiful Creatures sono mondi a parte. Un universo complesso, suggestivo e ben costruito quello di Ethan, Lena e Link; comune, ma fascinoso quello di Kennedy. Un'adolescente con la passione per il disegno e con un padre scappato via che, una sera, tornando a casa, scopre il corpo senza vita di sua madre. Il gatto di famiglia è acciambellato sul suo petto. Le ha rubato l'anima mentre dormiva. La sua improvvisa avventura vive delle proverbiali notti buie e tempestose dei racconti per bambini. E' fatta di gatti che camminano sulle tombe e si trovano gli spiriti maligni in corpo, di bambole da brivido e bambini senza pace, di pazzi furiosi e magioni tenebrose. Kennedy è una protagonista fuori posto. L'unica a non conoscere le sue origini, la sola a non avere il marchio della Legione, l'involontario elemento di discordia in una squadra già consolidata, in cui tutti hanno un dono. Il suo qual è? Una memoria prodigiosa che, a sorpresa, si scoprirà utile per immortalare un attimo fuggevole in uno schizzo a matita o tracciare, con un gesso improvvisato, pentacoli a prova di demone. 
Questo pellegrinaggio nel mondo dell'urban fantasy, è costituito da episodi intrecciati tra loro. Ogni puntata equivale a una missione, a un'esplorazione di uno degli innumerevoli angoli bui del male. Il tutto per trovare i pezzi mancanti di un'arma misteriosa e per proteggere il mondo da un'entità maligna che, secoli prima, nello scontro storico tra i membri della Colomba Nera e gli infedeli, ha trovato una falla negli inferi, liberandosi. Cinque erano i membri della Legione. Cinque sono i loro discendenti che, ancora adolescenti, dopo lo sterminio dei loro genitori avvenuto nella stessa notte, si troveranno a lavorare fianco a fianco. Unbreakable è un viaggio, e nessun viaggio si compie completamente da soli. Kennedy, insicura delle proprie potenzialità, conoscerà una ragazza bella e sfuggente, con un'armamentario interminabile di piercing e occhiate torve; un genietto con un paio di cuffie sempre appiccicate alle orecchie e la capacità di fabbricare un'arma con della lacca per capelli e un pezzo di nastro adesivo; due gemelli identici tra cui scorre una tensione palpabile che l'arrivo di Kennedy, a bordo, non farà che accrescere esponenzialmente. Ma tranquilli: la corsa è talmente a perdifiato che, solo tra una fuga e l'altra, c'è tempo per l'amore – un bacio e nulla più – e un immancabile triangolo amoroso non troppo irritante. I gemelli, che saranno di certo tenebrosi e bellissimi, hanno personalità diverse, ma – in fatto di donne – gli stessi gusti. Lukas, affabile e aperto, è il prototipo del ragazzo della porta accanto – i cacciatori e gli esorcisti possono essere ragazzi della porta accanto, poi? 
Jared, tutto tormenti e cicatrici, eserciterà sulla protagonista l'indiscreto fascino del "bad boy". L'epilogo, sospeso come davanti a un finale di stagione, ha le fattezze dell'abbandono. Non è quella la fine di un confortevole viaggio nel mondo del mistero, con tappe obbligatorie presso monumenti sacri – che rappresentino demoni e stregoni poco importa – e luoghi culto. Pozzi, bambole demoniache, fantasmi di bimbe dai vestitini logori e gialli, orfanotrofi segnati dagli abusi, corvi che rendono il cielo un'unica macchia nera in volo. The Ring, L'evocazione, The Orphanage, ESP – Fenonemi Paranormali, Gli uccelli... Ovunque - nei fratelli “piacioni” che fanno squadra, nelle indagini in automobile, nelle cacce al tesoro – c'è Supernatural, ma con tocchi di steampunk e rimandi all'iconica Buffy. O forse sono io: l'infestata Sunshine mi ha fatto pensare, infatti, all'infestata Sunnydale. Kami Garcia mi dà l'impressione di una che si diverte da matti, e che ama da impazzire quello che fa. Scrive d'impeto, senza pensieri e – anche se ha talento, per me – fa quello che più le piace, anche se ha gusti semplici; popolari. Questa volta, non vuole essere innovativa, e non lo è, ma leggendo Unbreakable in chiave ironica, come un percorso lungo i luoghi comuni del genere, diverte parecchio. L'elemento romantico che potrebbe ricordare The Vampire Diaries non è dei più marcati e svenevoli: gran cosa. Il romanzo, dunque, primo di una trilogia, è un regalo per Halloween. Un collage con rigagli di zucche arancio e di pellicole vecchie e nuove. Il frutto del lavoro di una ragazza non più nel fiore degli anni che, con la scusa magari dei figli piccoli, si concede qualche serata in pigiama sul divano, mangiando schifezze e facendo zapping sulla The CW e sui canali in cui, in seconda serata, proiettano film dell'orrore – spesso di serie B – che la incuriosiscono infinitamente. E finiscono per incuriosire anche noi, un po'. 
Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: The White Stripes – Seven Nation Army

giovedì 18 settembre 2014

Pillole di recensioni #6: Io, te e la vita degli altri (Maston), La morte dell'innocenza (Baraldi)


Titolo: Io, te e la vita degli altri
Autore: Vincent Maston
Editore: Salani
Numero di pagine: 220
Prezzo: € 13,90
Il mio voto: ★★+
La mia recensione: Per le commedie francesi ho un debole, ma ne ho lette pochissime. Ci riprovo con un romanzo firmato Salani, scritto da un uomo che promette di farci scoprire un'inedita Parigi. Io, te e la vita degli altri mi ha preso alla sprovvista. L'esordio di Vincent Maston è un romanzo unico, breve, ma che poco ha in comune con i colori pesca della copertina, il titolo romantico, l'aria poetica. Un romanzo senza farfalle – nello stomaco, nei barattoli, nei punti in cui la carta da parati confetto si scolla. Una storia urbana e poco fiabesca su un trentenne preso in giro dai colleghi, veloce nel pensare e lento nel parlare. Germain è innamorato perdutamente della sua logopedista, ma incespica nelle parole. Fuga dalle frustrazioni, il metrò. Lì, calpesta qualche piede, dà spintoni, ruba il posto ai prepotenti. Finchè non scopre che ci sono altri come lui. Gli propongono di entrare a far parte della loro banda, e Germain – solitario – ne è felice. Si scioglie, inizia a parlare; ma in cambio dell'amicizia arriverà a perdere se stesso e la donna che ha conquistato. Irrimediabilmente? Maston – con una prosa senza punte di diamante - rende il suo romanzo indefinibile. Non mi è parso immeritevole, ma frettoloso. Irrisolto. Una commedia balbettante che fa sorridere, ma senza un messaggio. Che cosa apportano Germain e i suoi amici alla vita degli altri? Mi aspettavo una storia di umana comprensione e ascolto, di gentilezza. Il dramma giudiziario che colora l'ultima parte – gestita, per me, grossolanamente – è quello che dà un senso a tutto. Una riflessione sulle cattive compagnie, su giochi da grandi che sfuggono di mano. Poteva essere un interessante spunto per un noir, ma i toni dell'inizio – con gli appuntamenti e la musica pop – non permettono che viri verso quel filone. La morale arriva nelle ultime pagine, pronunciata da un papà che è voce di un lettore che non ha capito gli atteggiamenti dei personaggi. In Francia, il libro è Germain dans le mètro e sulla copertina ci sono strade; tratte ferroviarie. Il romanzo di Maston è di quello che parla. Ha poco o niente in comune con la percezione sognante che gli italiani hanno di Parigi. Pensiamo alla Francia e, per magia, spunta il paragone ingannevole con Il favoloso mondo di Amelie, che è cosa altra, splendida, inimitabile. Un'adesione maggiore al modello originale, forse, me lo avrebbe fatto vedere con occhi diversi. Mi sono trovato a leggere una storia piacevole e tutto, invece, ma che non riconoscevo. Perché non era quella che avevo scelto io.

Titolo: La morte dell'innocenza (da Eros & Thanatos)
Autrice: Barbara Baraldi
Editore: I Gialli Mondadori
Prezzo dell'intera raccolta: € 6,50
Il mio voto: ★★★
La recensione: Dopo L'amante, altre due protagoniste. Un altro racconto. Questa volta, da Eros & Thanatos. La morte dell'innocenza è affascinante, donna. La tensione – quella sessuale, quella vera – si taglia con un coltello. Incuriosisce nel giro di un attimo, con un incipt meravigliosamente brusco: segreto, privato. Chiacchiere di donne al bagno, un dialogo davanti a uno specchio che mette in luce ogni imperfezione, ogni particolarità. Cosa si dicono le donne quando vanno alla toilette? Mi è piaciuto l'alternarsi dei punti di vista di Lola e Aurora. Raccontate in terza persona, da una narratrice implacabile e subdola, saltano da un pensiero all'altro. Bello il vedere come ci vediamo noi e come ci vedono gli altri, dall'esterno. Come siamo davvero? I difetti percepiti come pregi, la bellezza femminile filtrata da occhi femminili. I vent'anni contro i quaranta - in una guerra a cena, in un duello all'ultimo successo. Venditrici, Lola e Aurora conoscono l'arte della bugia, il piacere della lusinga. L'attrazione principale, quella inespressa ma latente, è tra le due, che si sfidano e si attirano. Si piacciono. Gli uomini della storia, marginali, li usano, anche se il gioco è loro. I personaggi aprono la bocca e flirtano, come la Natalie Potman dal caschetto fucsia in Closer. Le sfumature noir, l'erotismo insano, lo spiazzante colpo di scena finale sono nello stile di una Barbara Baraldi che ha visto tanto Brian De Palma. lo, avrei voluto qualche pagina in più – cento? - ma La morte dell'innocenza è ottimo così. La tensione concentrata intorno a un solo cardine, la passione che non si spezza mai. Senza distrazioni. Conturbante. Perverso. 

lunedì 15 settembre 2014

Recensione: Il libro delle verità nascoste, di Amy Gail Hansen

Il passato è una cosa curiosa. E' il fantasma più sottovalutato.  Ossessiona. Influenza e detta sempre il futuro, che alla fine diventa anch'esso passato. Inghiotte tutta la tua vita.

Titolo: Il libro delle verità nascoste
Autrice: Amy Gail Hansen
Editore: Garzanti
Numero di pagine: 277
Prezzo: € 16,40
Sinossi: Ruby vuole solo dimenticare. Vuole solo cancellare l'ultimo anno al Tarble College e nascondere nel profondo quel segreto che non ha confessato a nessuno. Eppure, quando crede che il peggio sia alle spalle si ritrova tra le mani il libro da cui tutto è cominciato. Il libro che custodisce le ombre del suo passato. È all'interno di una valigia: il bagaglio di Beth, una compagna di college che da pochi giorni è scomparsa. Ruby non poteva immaginare che "Una stanza tutta per sé" di Virginia Woolf riuscisse ancora a toccare le note più recondite della sua anima. A riportarla faccia a faccia con le sue paure. Ma lei è l'unica a conoscere il suo fascino oscuro. Tra quelle pagine ha visto crescere un'ossessione per le scrittrici suicide, donne fragili che si sono abbandonate al gesto più estremo. Un'ossessione che giorno dopo giorno l'ha avvicinata sempre più a Mark, il suo professore di letteratura. Eppure Ruby non può lasciare che quest'incubo si impadronisca di nuovo di lei, proprio ora che Beth è sparita. Deve cercarla. La ragazza sa che c'è solo un luogo che racchiude tutte le risposte. L'ultimo posto in cui vorrebbe tornare: Tarble, la sua università. Lì dove ha imparato che ciò che conta è essere i migliori, a qualunque prezzo. Lì dove misteriosi tentativi di suicidio le parlano di un destino a cui è difficile sfuggire. Lì dove, nel silenzio degli antichi e bui corridoi, ogni traccia riconduce a quel libro su cui c'è ancora molto da svelare. Perché dietro un animo fragile può celarsi un grande coraggio...
                                            La recensione
Dicono che il tempo curi tutte le ferite, ma io la penso diversamente. Sembra soltanto che renda le cicatrici più profonde.” 
Ruby Rousseau è una giovane donna, nel cui profilo, alla voce “segni particolari”, potresti leggere un'accozzaglia di strane passioni e un purpurì di unicità introvabili. Partiamo dall'allitterazione perfetta che è il suo nome: tradotto alla lettera, Rubino Rosso; specchio del suo aspetto esteriore, anticipazione precisa dei suoi fitti capelli ramati e del colorito di guance che, in un tempo non lontano, hanno conosciuto il pallore totale. La sua carriera scolastica: una raccolta di personali trionfi, fino all'abbandono degli studi, a qualche giorno dalla laurea. La fuga dall'esclusivo Tarble College, una tesi lasciata a metà: o quella, o la sua salute mentale. Cartella clinica: pulita, se non fosse per il soggiorno in un ospedale psichiatrico, a seguito di un mancato suicidio, indotto da sonniferi pesanti e ispirato dalla delusione di un amore che le ha dato tanto, ma le ha tolto tutto. Hobby preferito: la morte. In assenza della propria, quella degli altri. Ruby scrive necrologi per mestiere, Ruby vive con la madre e convive con l'assenza del padre, Ruby è una narratrice curiosa, inquieta e sfuggente. Il libro delle verità nascoste è la sua storia. Il suo mistero da risolvere. Ho idee confuse in merito. Non sapevo cosa aspettarmi, all'inizio, e non ho saputo a lungo cosa aspettarmi. Come per continuità. Mi affascinano immensamente i libri che parlano di libri – L'ombra del vento, La tredicesima storia – e, pur consapevole di quanto spesso siano veri specchi per le allodole, mi sono catapultato tra le pagine del romanzo d'esordio della promettente Amy Gail Hansen. E l'ho divorato, tutto in una volta. Conoscevo poco, conoscevo il giusto, ma ero sicuro non avrei incontrato i più vertiginosi dei ritmi: l'aria sofisticata della copertina italiana mi suggeriva capitoli lunghi, andamenti lenti, un intreccio patinato. Parquet, tendaggi pesanti, un'ambientazione anni '50. La personalità stilistica - e non solo – della Hansen è una piacevolissima scoperta. Lei sa catturare, come una di quelle professoresse universitarie che ti mettono a tuo agio, fanno strappi alla regola e ti danno del “tu”, mentre ti intrigano con parole d'altri tempi. Le rielaborano, le masticano e le digeriscono, le fanno irrimediabilmente proprie. Tanto che scordi a chi appartenessero, prima di allora, e il plagio non ti sembra un pessimo falso d'autore. Ti sembra vera arte. Al suo primo lavoro in ambito letterario, l'autrice dà un'impronta completamente personale: mette la sua passione per la poesia e i suoi demoni non detti. Quelli che nascono quando l'apprendimento supera talune soglie e quando la lettura e la scrittura ti fanno vivere in bilico, tra realtà e immaginazione. 
Il libro delle verità nascoste ha per protagonista una studentessa modello: lettrice iperattiva, narratrice bugiarda. La sua vita, grazie al suo amore (o a causa del suo amore) per le biblioteche silenziose e le magie dell'inchiostro, è il prodotto di una mente fragile, ma geniale. Legge Virginia Woolf e Sylvia Plath, le studia, le recita, le interiorizza, e da loro prende in prestito gli istinti suicidi e i dolori sordi. Inizia a collezionare sassi sul suo davanzale, ricordando come avessero riempito le tasche del vestito di Virginia, nel suo ultimo bagno al fiume. Guarda un forno e pensa a Sylvia, che chiusa ermeticamente nella sua cucina ne respirò i gas, fino a perdersi. Finchè non inizia perfino a vederle. Apparizioni per strada, tra le nebbie di New Orleans e lungo gli orli delle scogliere. Spettri che devono condurla in una casupola nel bosco - il tetto innevato e uno studio insonorizzato e caldo: Una stanza tutta per sé. L'indizio è in un volume pieno di annotazioni, firmato da un'autrice di cui ha giurato alla sua psicologa non leggerà mai più un rigo e appartenuto a una compagna di corso sparita nel nulla. Una valigia recapitata per sbaglio, e Ruby ritornerà al passato, al college in cui il turbamento aveva messo radici. Lei aveva promesso di non tornare, ma alcune promesse sono fatte per essere infrante. E alcuni conti per essere saldati. E alcuni amori per condurti a overdose di barbiturici. Quello verso Mark, ad esempio: il professore più corteggiato del campus. Giovanile, bello, spezzacuori. Perché tutte le studentesse che, di nascosto, ha corteggiato sono sotto psicofarmaci? 
Ambientato nel presente, in un mondo tutto al femminile in inevitabile via di estinzione, il romanzo ha consapevolezza, fascino. Il gioco è dei personaggi femminili. Donne che si ribellano strenuamente all'apertura del secolare Tarble College agli uomini. Donne che spiegano il femminismo e lo applicano alla lettera, in meticolose vendette di cui sono solo e soltanto loro sarebbero capaci. Più interessante del dimenticabile titolo italiano, quello originale: Butterfly Sister. L'evocazione dei legami di sorellanza, l'accento che è fatto pesare sulla componente in rosa, la crisalide che si spacca e la farfalla che, dopo l'attesa, spicca il volo. L'inizio ti prende per la gola e, dopo una seconda parte leggera e senza mordente che sbilancia un po' il lodevole intento iniziale, l'equilibrio si raggiunge in un finale studiatissimo, con scelte elaborate e colpi di scena – più di qualche volta – non scontantati, anche se inverisimili. Il libro delle verità nascoste è un thriller psicologico atipico, con una cornice storico-letteraria intarsiata con una fatica che il lettore, straordinariamente, non percepisce, e tematiche stimolanti. Originale il suo modo di porsi, con ironia e qualcos'altro, meno i suoi remoti moventi. Ma bastano l'atteggiamento, gli scenari stravaganti, la scrittura che, semplice, ma elegante, sembra volare. Un lucido viaggio nella follia - in mezzo a sentimenti velenosi, plagi da smascherare, boschi di "vergini suicide" - che vive, a tratti, della sua sola atmosfera. New Orleans, i quartieri decadenti, i caffè dai nomi francesi che sono salti nel tempo. L'università, le foglie autunnali che scricchiolano sotto le scarpe, i personaggi dei libri di testo che saltano fuori e ti tolgono il sonno. Per chi adora i gialli di un tempo, con poco sangue e tremarella, la tensione che ogni tanto va e ogni tanto viene, gli arrovellamenti interni, gli scenografici coups de théatre, i travestimenti e le doppie identità. Per chi odora la carta.
Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Philip Glass – Morning Passages (da “The Hours”)


domenica 14 settembre 2014

Mr Ciak #43: The Giver, Walking on sunshine, Xavier Dolan e un po' di altre cose (recuperate, riviste, in giacenza²)


Non pensavo. Non lo aspettavo. Non ne sentivo neanche il bisogno. Invece The Giver è un film bellino, molto. Io avevo i miei dubbi, sapete? Pensavo che dopo Hunger Games e Divergent, altra distopia al cinema non fosse cosa buona. Pensavo che un libro scritto ventuno anni fa e arrivato in ritardo alla festa non avesse niente da dire. I cambiamenti dovevano esserci, e mi auguravo fossero migliorie, non stravolgimenti. Me lo auguravo, ma temevo segretamente il contrario. Un'operazione commerciale per dare un'aria alla moda allo stile esile e alle ambientazioni minimaliste della riflessiva Lois Lowry. Protagonisti più fighi e svegli, il grande amore ostacolato, un paio di nomi grossi per richiamare il pubblico curioso in sala. Fate, dunque, come me: guardatelo convinti che sia un'altra storia. Così non vi lamenterete per quello che sembrerà diverso e, col sorriso, vi meraviglierete per quello che sarà identico. Altrettanto delicato, emozionante, di cuore. The Giver ha una bell'anima: è puro. Privo di furberie e di sovrastrutture, ha la stessa semplicità del romanzo di formazione della Lowry. Da esso prende le poche controversie, il viaggio e, soprattutto, il segreto della quiete. Le differenze rispetto al gemello cartaceo ci sono, ma state attenti: non sono poi tante. C'è il giusto, e ci sono i giusti cambiamenti. Un protagonista adolescente, ad esempio, che scopre l'amore, ma senza perdersi negli eccessi zuccherosi dei film per ragazzi. Sarebbe stato insensato, contro natura: rendere il protagonista sedicenne e privarlo del primo amore. Tra lui e la sua amica Fiona, un bacio a fior di labbra e basta. In esso c'è la curiosità scoperta da zero, la pulsione che apre un intero passaggio nascosto. Brenton Thwaites è un Jonas cresciuto, ma che mostra meno dei suoi venticinque anni: ingenuo, fanciullesco, comune. Guarda il suo mondo passare dal bianco e nero ai colori e, sotto il suo sguardo, si potenziano quei personaggi secondari che nel libro andavano e venivano. Lo stesso Donatore, interpretato da un buon Bridges, che vive con lo spettro di una ragazza dal nome indicibile che ha la dolcezza di Taylor Swift; gli amici di sempre, tra cui c'è un Cameron Monaghan che lontano dal set di Shameless non fa però mai faville; l'algida e inquietante Meryl Streep, sinonimo di rigore e maestria. I novanta minuti complessivi sono una fortuna. Lievissimi, non pesano, ma regalano elementi che anche a livello visivo intrigheranno. Non parlo di spettacolarità – quella è dosata in piccole dosi – ma del buon gusto di cui Philippe Noyce si mostra capace. Letto come passaggio dall'adolescenza all'età adulta, il viaggio finale del protagonista ha molto più senso. Ha un perché, uno scopo che libera la pellicola anche dalle esigenze di un sequel forzato. Un'aggiunta, un complemento di fine, ma aperto a un epilogo che è precisa e curata trasposizione del romanzo. La neve, il salto, un ragazzino che stringe in braccio l'avvenire. Fa facce buffe per farlo ridere, gli fa da papà, gli dice che lo ama, mentre un brivido scende tra le nostre scapole e la tenerezza vince. Un film che non si vende all'ovvio, ma che si difende bene dalla concorrenza. A testa bassa, emotivo, eppure coerente con se stesso. Si difende, anche se contrappone una margherita a un'arma. Uno dei rari prodotti per tutta la famiglia, per bambini intelligenti o adulti che penseranno vagamente a Pleasantville, The Truman Show, Equilibrium. Uno scrigno di belle cose – foto d'epoca, ricordi, storia - da maneggiare con cura. Un documentario tutto sfumature su un'umanità che non dobbiamo lasciare che ci sfugga. (7)

Una coppia di coniugi di mezza età, la cui passione giovanile si è raffreddata con l'avvento del matrimonio e dei figli, in cerca di stimoli, in una notte di libertà assoluta, decide di firmarsi con il tecnologico iPad di lui, mentre – snodati e un po' goffi – per tre ore mettono in pratica tutte le astruse posizioni del Kamasutra. Il video, per via di una app di ultima generazione, rimbalzerà sui computer dei loro più cari amici e dei loro datori di lavoro. Avranno un giorno e una notte per sistemare tutto, prima che le loro facce – e i loro sederi, e il resto... – finiscano su Youporn, per la soffiata di un anonimo e imprevedibile aguzzino. Neanche a farlo apposta, poco dopo lo scandalo bollente delle foto rubate a Jennifer Lawrence e compagnia bella, al cinema arriva Sex Tape – Finiti in rete. Una trascurabile commedia sexy, divertente solo a tratti, che ha due bravi attori e, in platea, un pubblico in cerca di cosette da poco. Dopo un inizio volgarotto - simpatico forse per quello? - il film segue le scie di pellicole come Notte folle a Manhattan e lì si stabilizza, all'insegna di una comicità tipica e tipicamente americana. Mitico Jack Black, in un cameo tutto da ridere, e autoironico Rob Lowe, che scherza coi suoi passati problemi legati alla droga e a un video amatoriale che fece scandalo negli anni '90. Meglio di Tutte contro lui, peggio di Bad Teacher. Comunque mediocre. La più lunga e smaccata pubblicità Apple mai realizzata, con una Cameron Diaz in gran forma per cui gli anni – e le visite dal chirurgo plastico - non passano. (4,5)

Un viaggio in Italia che si scopre una festa di nozze. Ma non quella dell'introversa Taylor, che assiste a rimpatriate tra chiassosi amici e ai preparativi in grande della seducente sorella Maddie, che le ha soffiato il ragazzo di cui lei è stata innamorata. Walking on sunshine, che ha il titolo di una famosa canzone, è un contenitore di famose canzoni. Una foto patinata di una Puglia che fa sinceramente invidia per quant'è calorosa e accogliente. Per il resto? Una classica e prevedibile commedia rosa che una trascinante colonna sonora tutta anni '80, sfiziosi e caserecci inserti musicali, begli scorci della nostra bella Italia rendono godibile, anche se tutt'altro che indispensabile. Piacevole, estiva, un po' fai da te. Nessun lampo di genio, nessuna cover degna di particolare nota, né coreografie alla Rob Marshall. Le damigelle cantano Girls just want to have fun, i testimoni Wild Boys. Saltellano, si tufanno, sbagliano i passi e hanno tutta l'aria di divertirsi. Il pensiero corre costantamente a Mamma Mia!, che già al cinema non era un musical con la lettera maiuscola di suo, e nel modesto cast spiccano la Leona Lewis un tempo così promettente, la sorellina bionda di Gemma Arterton e soprattutto il “bello de casa”, Giulio Berruti: aitante, coi piedi leggeri e anche canterino, si farà notare anche dagli inglesi... e dalle inglesi. Guardate Walking on sunshine con altra gente, in conclusione: potrebbero partire, durante la visione, spontanei e stonati effetti karaoke tutti da ridere. Inevitabile la cosa, quando tirano in ballo Shocking Blue, Wham, The Human League, George Michael. (5,5)

In secret è la storia di una creatura tutto istinto. Un'orfana curiosa e ribelle che diventa una giovane donna curiosa e ribelle, all'alba di un improvviso trasferimento nella caliginosa capitale francese e di un matrimonio combinato con l'inetto cugino, per volere di una zia premurosa e onnipresente, destinata a diventare anche sua suocera. Una scialba vita di coppia a tre, in una sartoria modesta. Finché Thèrese non conosce un pittore, una creatura selvatica come lei, e l'amore molesto li condurrà alla via che porta all'omicidio. Cupo e oscuro noir in costume, su eroine tragiche, amori folli, delitti imperfetti e castighi esemplari. La fotografia, caliginosa e grigiastra, ma bellissima, ritrae una Parigi inedita che sembra una cartolina della Londra vittoriana che più mi piace. Diretto con classe, è tratto dal controverso romanzo di Zola. La Thèrese Raquin della delicata e brava Elizabeth Olsen è un personaggio complesso, umano e detestabile insieme, al centro di un vortice di insoddisfazione, erotismo, corruzione. Accanto a lei, un malaticcio e irriconoscibile Tom Felton (lo ricordate in Harry Potter, no?) e una Jessica Lange teatrale, superba, in una forma - al solito - smagliante. Un film acquoso, algido, languido e profondamente decadente. Nell'anima. Un melò dall'aria dark, con un cast credibilissimo e gli spettri deformi di una romantica ghost story. (6,5)

Questo film l'ho guardo tante volte. Eppure è la prima volta, in due anni, che trovo l'occasione giusta per mettermi al computer e raccontarvelo. L'occasione non giusta, ma quella sbagliata. Nei mesi scorsi, sul web, è circolata una notizia che non avrà colpito molti lettori, soprattutto qui in Italia. Ned Vizzini si è tolto la vita. Era uno scrittore e un aspirante suicida da tempo. Pur non avendo avuto un legame di alcun tipo con i suoi libri, la notizia mi ha stordito. In realtà, indirettamente, avevo conosciuto Ned e, più volte, ero stato in sua compagnia. Era da un suo romanzo che era stato tratto It's a King of Funny Story. Tradotto letteralmente, il titolo annuncia che quella che si vedrà è “una sorta di storia divertente”. Cosa bizzarra, cosa ironica. La finzione e la realta erano un unicum. Il protagonista, il problematico Craig, era il reale Ned. Un sedicenne che si sente senza aria, senza libertà, senza senso. La storia vuole che riesca a trovare il respiro nel reparto psichiatrico di un ospedale: in mezzo alle tragicomiche vite degli altri. Accanto ai dolori della gente comune, accanto ai drammi della mente umana – grandioso Zach Galifianakis, adorabile Emma Roberts – aveva capito che nulla erano le sue pene in confronto a quelle degli adulti. E aveva ballato e cantato Under Preassure, riso e pianto, amato e infranto cuori. Un film profondo e profondamente vitale. Uno young adult con un brutto anatroccolo come protagonista che, tuttavia, sapeva diventare quello che non aveva mai avuto il coraggio di essere, portando il suo strano mondo fuori. Io immagino Ned con lo stesso viso comune del bravo Keri Gilchrist, con i suoi stessi capelli lisci e senza forma e con il suo guardo acuto. Aveva saputo esorcizzare i suoi fantasmi, portarli alla luce del sole e combatterli armato di carta e penna, eppure a volte il passato non vuole andare via. E' tornato a galla e, in un giorno di Dicembre, poco prima di Natale, l'ha risucchiato con sé, in un abisso in cui il sofferente Ned vedeva chissà cosa. Vedete It's a King of Funny Story per sorridere ed emozionarvi in compagnia di un adolescente che non molti film tollererebbero, forse. Vedetelo, adesso, anche in memoria di Ned, magari. Per sentirvi invadere da quella serenità che lui ha trovato solo ora, nel modo più estremo. (7)

Che tipo che è, Xaviel Dolan. Io, a vent'anni, sto qui a studiacchiare invano e più che altro a grattarmi, mentre lui – classe 1989 – è già un nome di punta nel mondo elitario del cinema d'autore. Dichiaratamente omosessuale, propone e ripropone tematiche quali amore, desiderio e sessualità in ogni sua pellicola e i risultati, audaci e brillanti, assurdi e vagamente geniali, stordiscono, ma piacciono. Attenzione smodata alla forma, all'accostamento dei colori e delle musiche, alla composizione e alla scomposizione dello spazio filmico. Anarchia visiva. Io, che non sono dotato di palato fine, concludo i suoi film mai del tutto appagato, ma affascinato. Li ho visti alla rinfusa. Tom à la ferme, il più recente, è una bestia strana. Lento, spoglio, teso - inquieta. E' un curioso noir, tra campi di grano e funerali, sulle tentazioni e i cattivi pensieri che la solitudine fa fare. Il protagonista, lo stesso Dolan, va in campagna, al funerale del ragazzo che è stato il suo compagno. La famiglia non conosce la sua esistenza e il fratello del defunto, misterioso e violento, è disposto a tutto pur di chiudere la bocca a Tom: la madre, affranta, non deve sapere. Fuori posto, in mezzo alle bugie e a tutto quel dolore assordante, tra vento sferzante e lettere d'addio, si avvicina pericolosamente a quella famiglia. Cupo e ambiguo, taciturno e incompleto, ma incredibilmente ben musicato,Tom à la ferme – grande nell'arte del disorientare – non dice e mostra episodi grotteschi, tragici, crudi. La tensione è onnipresente, i toni non sono i soliti, il rapporto tra i mancati cognati trema, per il pericolo e la passione negata. Quello Xavier Dolan dai capelli ossigenati potrebbe perire sotto gli sguardi dell'altro uomo, che lo invita a ballare il tango in un fienile e a tenere, a forza, la bocca serrata. Il film, il più nelle mie corde della sua cinematografia, risulta carismatico, ma dispersivo. Riesce e non. La trama, che fa tanto thriller anni '90, è meno delineata di quanto abbia fatto io, parlandone. Si mantiene oscura e vaga, e questo è unico. La sensazione che non porti da nessuna parte e che dietro i campi e le spighe gialle ci sia una strada senza uscita, cosa affascinante lo è pure; solo, non totalmente... bella. (6,5)

Più alla Almodovar, invece, il brillante Les Amours Imaginaires: una “mina vagante”. Avevo dato una sbirciata per curiosità, questa volta, tutt'altro che convinto; invece, dialoghi pepati e con un ritmo concitato di denti che battono, lingue che schioccano, bocche che si inumidiscono mi ha incatenato in poltrona. Sono un grande estimatore delle chiacchiere di classe e, più loquace del “mio primo” Dolan, Les Amours mi è piaciuto di più. Colori accesi, una struttura precisa e intelligente, un triangolo amoroso che strappa sorrisi. Il regista si ritaglia il ruolo dell'insicuro e bisognoso Francis che, insiema all'amica Marie, cade vittima della bellezza da statua neoclassica del biondissimo Nicolas – che forse è gay, forse è etero, forse è bisex, forse non si sa. Amici intimi, gran chiacchieroni e registi di clamorosi film mentali, Francis e Marie entrano nella vita di Francis e lasciano che Francis entri nella loro. Come vediamo la persona amata, e come ci vede lei? E ci ama? Siamo sicuri? Dolan riflette sugli amori che non saranno: irrimediabilmente immaginari, irrisolti. Lo fa con lo sguardo spaesante e atipico che gli è proprio. Portandoci a vedere i battiti del cuore dei protagonisti con i loro stessi occhi pieni di desiderio. Marie, che indossa abiti da casalinga disperata anni '50, e Francis, che si pettina come James Dean e si tocca cercando odori in un maglione arancio. La rivalità tra i due – mentre l'amore diventa un campo di battaglia – è scandita dall'entrata in scena della nostra Bang Bang che fa da colonna sonora a immagini al rallentatore di piani criminal-sentimentali. Con la macchina da presa Dolan fa quel che vuole e lo schermo, morbido come pasta di pane, si trasforma per suo volere, sotto le pressioni di un tocco riconoscibilissimo e deciso. Dipinge, crea, inonda di scritte e colori fluo. Taglia, cuce, evidenzia. Lui è il punto di partenza del suo cinema. Il segreto: simpatica sfrontatezza, ipnotica caoticità, figure pazze e isteria assai bene accetta. (7,5)