sabato 31 dicembre 2016

[2016] Top 10: Mr. Ciak



10. Il piccolo principe: L'essenziale è invisibile agli occhi, ma qui si vede chiaro e tondo; l'immagine di un'aspirapolvere che risucchia via gli acari e le stelle mi tormenta ancora.
9. Blue Jay: I grigi limpidi e i sorrisi rubati per un soffio a Blue Jay stracciano il cuore. E, davanti a Sarah Paulson e Mark Duplass che si pestano le scarpe ballando in cucina, senti nostalgia perfino delle persone che non hai ancora amato.
8. Animali Notturni: Quando ti innamori di uno scrittore, dicono, vivi per sempre. E quando gli spezzi il cuore? La risposta, nell'opera seconda di un regista con il cognome western e lo sguardo dell'esteta.
7. Sing Street: Se crescendo ci si è scordati di com'erano teneri ed esilaranti i quindici anni, ci si rinfresca la memoria fischiettando la colonna sonora più bella del mondo.
6. Swiss Army Man: L'opera prima di un assortito duo di nicchia smuove qualcosa, nel profondo di te. Non sono solo i succhi gastrici: c'entra un po' anche l'anima
5. La pazza gioia: Non si scappa davanti a un’ilarità esagerata e alla commozione. Con il mare al mattino, l’intramontabile Paoli, tutta la speranza che c'è.
4. Lo chiamavano Jeeg Robot: Ha un cuore d'acciaio, nessuna paura e tutti noi, che gli restiamo accanto: perché lui, che corre e va per la terra, che vola e va tra le stelle, è il Jeeg che aspettavi ma non ti aspettavi.
3. Captain Fantastic: Si fuggiva dalla cella di Room per scoprirsi più prigionieri all'esterno.Qui, invece, si fa breve ritorno al conformismo, agli orizzonti industriali, e mancano il completo da funerale e il pudore. Questi Gallagher naturisti si mettono in discussione, scoprono la bellezza delle mezze misure, non si trasformano in ciò che odiavano. Dicono addio e cambiano aria.
2. Perfetti sconosciuti: I panni sporchi si lavano tutti insieme, sotto una luna strana. La tensione si può tagliare – da servire a fette al posto del dolce – e le riflessioni, se avanzano, le si porta a casa per il giorno successivo. Sempre che una risata che si colora d'amarezza non ci seppellisca tutti prima dell'arrivederci.
1. Room: Per vivere in questo mondo ci vogliono gli occhiali scuri, la crema solare, un cappello a forma di orso per ripararsi da una pioggia scrosciante che no, non ci affogherà. Bisogna farsi gli anticorpi, contro l'insensata crudeltà del prossimo. Allo spettatore, per sopportarla, basta invece guardare gli occhi blu dello straordinario Jacob Tremblay: grandi e stupiti, mentre contempla un cielo sconosciuto.

Migliore attore protagonista:
Room – Jacob Tremblay
The Danish Girl – Eddie Redmayne
Steve Jobs – Michael Fassbender
Migliore attrice protagonista:
La pazza gioia – Valeria Bruni Tedeschi, Micaela Ramazzotti
Room – Brie Larson
Blue Jay – Sarah Paulson
Migliore attore non protagonista:
Swiss Army Man – Daniel Radcliffe
Lo chiamavano Jeeg Robot – Luca Marinelli
Creed – Sylvester Stallone 
Migliore attrice non protagonista:
The Danish Girl – Alicia Vikander
Other People – Molly Shannon
Lo chiamavano Jeeg Robot – Ilenia Pastorelli 

Muchacha sexy:
The Dressmaker – Kate Winslet
Suicide Squad – Margot Robbie
Cafè Society – Kristen Stewart
Bello e impossibile:
Nonno scatenato, Mike & Dave – Zac Efron
The Legend of Tarzan – Alexander Skarsgard
La ragazza del treno – Evans, Theroux, Ramirez
Nice to meet you:
Veloce come il vento – Matilda De Angelis
Other People – Jesse Plemons
Sing Street – Ferdia Walsh-Peelo
La coppia più bella del mondo:
Lo chiamavano Jeeg Robot – Santamaria, Pastorelli
Macbeth – Fassbender, Cotillard
Blue Jay – Paulson, Duplass

Sing!:
Lo chiamavano Jeeg Robot – Un'emozione da poco
Captain Fantastic – Sweet Child O'Mine
Blue Jay - No more I love you's
Psycho Killer!:
Hateful Eight – Gli otto assassini
Lo chiamavano Jeeg Robot – Luca Marinelli
The Neon Demon – Jena Malone
Will you recognize me?:
The Danish Girl – Eddie Redmayne
Veloce come il vento – Stefano Accorsi 
Suicide Squad – Jared Leto
Let's talk about sex:
Sausage Party – L'orgia finale
Anomalisa – Michael e Lisa
The Neon Demon - Necrofilia 
Cry me a river:
Miss you already – Il finale
The Danish Girl - “I want my husband”
Il drago invisibile – Il finale
The A-Team:
Perfetti sconosciuti
Florence Foster Jenkins
Spotlight

venerdì 30 dicembre 2016

[2016] Top 10: Le serie TV



10. Rocco Schiavone: Per il vicequestore romano, i gialli da risolvere sono una rottura di coglioni del decimo grado. Ma, su una scala da uno a dieci, dov'è che si colloca il piacere della sua compagnia?
9. La mafia uccide solo d'estate: La fiaba che, in pillole, fa bene parlando del male.
8. Shameless VII: Anno bisesto, anno funesto; intanto, ci ha regalato ben due appuntamenti coi Gallagher. E alle loro rumorose catastrofi corrispondono puntualmente le nostre gioie.
7. Westworld: Ronza una mosca; i protagonisti la scacciano via con un gesto della mano. Un fastidio che anticipa il risveglio dei sensi. L'insetto continuerà a ronzare, insieme al pensiero di essere – e non a torto - in presenza di una fra le serie dell'anno.
6. Daredevil II: Occhio per occhio, e il mondo divenne cieco. 
5. The Young Pope: Non ha convertito appieno uno scettico come me, ma è comunque gaudio e tripudio per il controverso Pio XIII: bello come Jude Law e, pare, più di Gesù.
4. Black Mirror III: Lo specchio, agli inizi, è più nero che mai. Nella terza stagione lo lucidano regie patinate, volti noti, toni che accettano il compromesso. Ma il riflesso, in un caso come nell'altro, spaventa.
3. This is us: Semplice è bello. Bellissimo.
2. Stranger Things: I favolosi anni '80. Non c'ero, ma è come se ci fossi stato. 
1. The OA: Visione frustrante e degna di meraviglia. Imperfetta, e perciò rara. Ti prende e ti porta dove e quando vuole lei. A confine.

Migliore attrice protagonista:
Penny Dreadful III – Eva Green
American Crime Story – Sarah Paulson
The OA – Brit Marling
Migliore attore protagonista:
The Young Pope - Jude Law
Rocco Schiavone - Marco Giallini
Mozart in the Jungle III - Gael Garcia Bernal
Migliore attrice non protagonista:
Westworld - Thandie Newton
Penny Dreadful III – Billie Piper
This is us – Mandy Moore
Migliore attore non protagonista:
This is us – Ron Chepas Jones
The Young Pope – Silvio Orlando
Westworld - Anthony Hopkins, Ed Harris


Muchacha sexy:
The Exorcist – Hannah Kasulka
Mozart in the Jungle III – Monica Bellucci
The Get Down – Herizen Guardiola
Bello e impossibile:
Preacher – Dominic Cooper
Rocco Schiavone – Marco Giallini
This is us – Milo Ventimiglia, Justin Hartley
Nice to meet you:
Stranger Things - Mille Bobby Brown
Fleabag – Phoebe Waller Bridge
American Crime Story, This is us – Sterling K. Brown
La coppia più bella del mondo:
Black Mirror - Mbatha-Raw, Davis
Shameless – Monaghan, Fischer
Rocco Schiavone – Giallini, Ragonese


Sing!:
The Get Down – Set me free
Jane The Virgin III – Locked Out of Heaven
No Tomorrow – Don't Stop Believing
Psycho Killer!:
AHS: Roanoke – Kathy Bates
Westworld – Ed Harris
The OA – Jason Isaacs
Let's talk about sex:
Sense8: Speciale Natale – L'ammucchiata telepatica
Westworld – Thandie Newton, Rodrigo Santoro
The Oa – Paz Vega, Emory Cohen
Cry me a river:
This is us – The Trip
Penny Dreadful – A blade of grass
22.11.63 – The day in question
The A-Team:
This is us
Shameless
Stranger Things

giovedì 29 dicembre 2016

[2016] Top 10: Le mie letture

La via del male: Tanto in ballo: l'incolumità, il lavoro, gli amori platonici. La "via" è lastricata di personaggi buoni e cattive intenzioni.
Palazzokimbo: Parlo di radici e penso alla Ferrante. Dico che qui c'è molta più Napoli. E c'è che per l'autrice, che di cognome fa Ventre, la scrittura è questione di pancia.
Chi manda le onde: A me le onde le ha mandate Fabio Genovesi, e ci ho camminato incontro e in mezzo senza temerle. L'impressione di affogare, superata al cavallone successivo. Le alghe impigliate nei capelli e i sorrisi tra i denti. 
La figlia sbagliata: Quattro personaggi fragili e sgradevoli che, come ospiti spettrali, infestano un salotto e i capitoli di un romanzo bellissimo, che si legge la sera, con il fresco, in cambio di un letto scomodo e una notte piena di pensieri.
Sei come sei: Come se la cavano due uomini con la monogamia, i pannolini sporchi e il pregiudizio? Come cresce una bambina con due padri? In un romanzo di formazione toccante, spigliato e con un cuore grosso così, stupisce la meravigliosa normalità della risposta.
Fangirl: Ci sono i libri belli, quelli brutti e, ancora, quelli adorabili. Questo, con un'universitaria che preferisce i romanzi alle persone, la teoria alla pratica, la lettura alla vita sociale, fa parte dell'ultima, ristretta categoria. Sarà che l'autrice, leggerissima, di nome fa arcobaleno?
La tristezza ha il sonno leggero: La tristezza avrà pure il sonno leggero, ma la mano di Lorenzo è più leggera ancora. E la felicità, ospite che mancava all'appello, ti tenta ancora nelle pieghe di una giornata, e di una vita, no.
3. La confessione di Roman Markin: Avete presente quella sensazione di imbrogliare il tempo al suo stesso gioco, allungare le giornate a dismisura e, nei pochi grammi di un romanzo, rintracciare i ventuno dell'anima umana e i quintali di sessant'anni di vita vissuta? Il gioiello di Marra è un mare senza fondo.
2. Benedizione - Canto della pianura: Haruf rimette i debiti e, nelle intime confessioni che sono i suoi discorsi indiretti liberi, assolve i suoi personaggi dal peccato dell'egoismo. C'è una bontà d'animo che non sembra eccessiva. E tu, che eppure non credi nel prossimo tuo e in Dio chi lo sa, non la condanni – reputandola magari troppa – ma gliela invidi profondamente. 
1. Indignazione: L'ultima lettura dell'anno: a sorpresa la più memorabile. Philip Roth, disincantato e mordace, affida alla pagina – e sono pagine rade ed esaltanti, le sue, zeppe di scontri e struggenti soliloqui – la formazione di un diciottenne genuino ed esasperante, che vede sempre il bicchiere mezzo vuoto e non sa godersi la quiete dei giorni pari. Uguale a me, nella sua storia di ordinaria ribellione. Presto, la recensione.

Premi di (s)consolazione
Thriller/Horror: I custodi di Slade House – Sorella - E' così che si uccide
Fantasy/Distopico: Wolf
Young adult: Brucio – Quello che non sai di me
Romanzo storico: Dentro soffia il vento

La migliore storia d'amore: Chiamami col tuo nome – Noi due e gli altri
I fazzoletti non basteranno: La luce sugli oceani – Io non sarò come voi
On the road: Lo strano viaggio di un oggetto smarrito 
L'occhio vuole la sua parte: La casa per bambini speciali di Miss Peregrine

Guilty Pleasure: Maestra – Unrivaled
Sta' senza pensier: Qualcosa di vero
Guarda un po' chi si rivede – i sequel più belli: Scrivere è un mestiere pericoloso
Be', dai, ci siamo visti – i sequel (o i ritorni) meno belli: Non aspettare la notte 
Tanto rumore per nulla – la sòla suprema: Adesso

martedì 27 dicembre 2016

Recensione: Mi chiamo Lucy Barton, di Elizabeth Strout

La vita mi lascia sempre senza fiato.

Titolo: Mi chiamo Lucy Barton
Autrice: Elizabeth Strout
Editore: Einaudi
Numero di pagine: 158
Prezzo: € 17,50
Sinossi: Da tre settimane costretta in ospedale per le complicazioni post-operatorie di una banale appendicite, proprio quando il senso di solitudine e isolamento si fanno insostenibili, una donna vede comparire al suo capezzale il viso tanto noto quanto inaspettato della madre, che non incontra da anni. Per arrivare da lei è partita dalla minuscola cittadina rurale di Amgash, nell'Illinois, e con il primo aereo della sua vita ha attraversato le mille miglia che la separano da New York. Alla donna basta sentire quel vezzeggiativo antico, "ciao, Bestiolina", perché ogni tensione le si sciolga in petto. Non vuole altro che continuare ad ascoltare quella voce, timida ma inderogabile, e chiede alla madre di raccontare, una storia, qualunque storia. E lei, impettita sulla sedia rigida, senza mai dormire né allontanarsi, per cinque giorni racconta: della spocchiosa Kathie Nicely e della sfortunata cugina Harriet, della bella Mississippi Mary, povera come un sorcio in sagrestia. Un flusso di parole che placa e incanta, come una fiaba per bambini, come un pettegolezzo fra amiche. La donna è adulta ormai, ha un marito e due figlie sue. Ma fra quelle lenzuola, accudita da un medico dolente e gentile, accarezzata dalla voce della madre, può tornare a osservare il suo passato dalla prospettiva protetta di un letto d'ospedale. Lì la parola rassicura perché avvolge e nasconde. Ma è nel silenzio, nel fiume gelido del non detto, che scorre l'altra storia.

                                                La recensione
Qualche giorno fa mi sono fatto una passeggiata fino alla biblioteca comunale. Lì prendo i romanzi che desidero ma, in fondo, temo. Mi sono avvicinato per la prima volta, così, alla premiatissima Elizabeth Strout. La vincitrice del premio Pulitzer per Olive Kitteridge – raccolta di racconti che non ho letto, ma di cui ho profondamente amato la miniserie HBO – mi intimoriva, così come accade con quegli autori celebrati, noti, di cui credi di non essere all'altezza. E se non mi piace, ti domandi, che brutta figura ci faccio? E se la trovo troppo complessa, soprattutto in giorni in cui ho la testa altrove, come rimedio al disappunto? Sono partito dall'ultimo, Mi chiamo Lucy Barton, anche perché sullo scaffale, di suo, non restava che quello. Aveva un prezzo esorbitante per un centinaio di pagine e una storia semplice, di madri e figlie. Rassicurato dalla sua brevità, con dicembre agli sgoccioli, potevo aggiungere un altro romanzo alla lista di quelli letti e, magari, scoprirlo tanto bello da non poterne fare a meno. Preso in prestito, mirava alle classifiche di fine anno e ai prossimi acquisti. 
Tanta reverenza per nulla: la Strout, schietta ed essenziale come la sua lunatica Olive, non ti fa pesare neanche una delle centocinquanta pagine totali; immagino che in futuro potrò dire lo stesso anche dei suoi romanzi più corposi. E, per nulla, tanto rumore: mi fa piacere averla letta, ma mi spiacerà poco restituire il libro alla bibliotecaria. La trama, piccolo pretesto per un grande esercizio di stile, segue il soggiorno della protagonista in un ospedale affacciato sugli sfavillanti grattacieli newyorkesi. Sono gli anni '80 – quelli del boom di Wall Street, quelli di un male che stava decimando la comunità omosessuale – e Lucy, scrittrice, è ricoverata per le complicazioni di un'appendice infiammata. Bloccata a letto, ribattezza a fantasia il personale ospedaliero, pensa alle sue bambine e, tra il sonno e la veglia, si gode le attenzioni della madre. Parlano del più e del meno, ricordano gli abitanti più sfortunati e bizzarri delle campagne da cui Lucy è scappata e, conversando, popolano quella camera asettica di ricordi piacevoli e spiacevoli. La narratrice ama le storie per deformazione professionale e ci racconta un po' la sua: da un'infanzia trascorsa nella miseria a un'adolescenza ribelle, dal matrimonio con un accademico alle lezioni di scrittura creativa. 
Tra mamma e figlia, però, abbonda il non detto. Abusi da parte di un padre lasciato fuori, o semplice vergogna per l'aria di provincia che l'anziana si porta ancora addosso e che Lucy si è lasciata alle spalle studiando? C'è qualcosa che le due non sanno dirsi. E ho avuto l'impressione che quegli spazi bianchi, quei puntini di sospensione, avessero perfino più significato del resto. Impossibile sapere cosa contengano, tuttavia, sapendo ben poco dei loro segreti di famiglia. E, uscita di scena la madre, sul finale, il romanzo accenna a divorzi, successi editoriali e terrorismo all'ombra fantasma delle Torri Gemelle. Mi chiamo Lucy Barton alterna passaggi da sottolineare mille volte a capitoli da telegramma. Brilla per il mastodontico Chysler alla finestra e per una scrittura sapiente, maltrattata da una traduzione sommaria nel passaggio dalla Fazi alla Einaudi. Questo – penso alle praterie di Benedizione, alla Napoli sismica di Palazzokimbo, alle verità di Lettera a Dina – è stato l'anno in cui ho scoperto la potenza delle storie belle proprio perché non parlano di niente di che. Mi chiamo Lucy Barton si unisce al trio, però risulta aneddotico, irrisolto, frammentario. La scusa ufficiale: che è troppo femminile, troppo adulto, per il sottoscritto. Non sono partito dal romanzo migliore, da quel che leggo. Di ben altra opinione, però, sono i cultori della Strout, che in rete si danno a parafrasi, interpretazioni e analisi meticolose. Dalla mia, penso che i romanzi belli non vadano né spiegati né giustificati: che bisogno c'è? E, se posso, dico che questa saga familiare a spizzichi e bocconi non l'ho capita; non fino in fondo.
Il mio voto: ★★★ 
Il mio consiglio musicale: Simon & Garfunkel – The Sound of Silence

sabato 24 dicembre 2016

I ♥ Telefilm: The OA, La mafia uccide solo d'estate, American Crime Story

Prairie torna a casa a sette anni dalla sua scomparsa. Fa incubi premonitori, chiama nel sonno un misterioso ragazzo e, cieca, ha recuperato la vista. Ora ci vede, ora sa. In segreto raduna cinque concittadini in una casa abbandonata – un bullo, una insegnante, un'adolescente in transizione, l'alunno modello e lo sfattone – e, a lume di candela e a porte aperte, racconta una storia che parte in Russia e sembra concludersi nello scantinato dove Prairie e altri come lei, sopravvissuti già una volta alla morte, sono stati sottoposti agli esperimenti di uno scienziato desideroso di carpire i segreti dell'aldilà. Si palesano i primi parallelismi: laggiù, in una specie di serra con telecamere ovunque, la protagonista aveva altri quattro compagni. Di uno, l'amato Homer, chiede spesso. Com'è fuggita via, quando ha recuperato la vista  e cosa spera di ottenere da quegli incontri notturni? Si può scomparire nel nulla, e dal nulla si può riapparire? Forse sì: The OA, inattesa e poco pubblicizzata, è stata infatti rilasciata da Netflix con un gioco di prestigio. Un attimo prima non c'era, quello dopo sì. Brit Marling, musa indie che già camminava all'ombra di una seconda Terra in Another Earth, scrive a quattro mani e recita. Con lei, il regista di The East e un cast di volti nuovi: tralasciando Jason Isaacs, antagonista irreprensibile, spiccano il coraggioso Emory Cohen (romantico italo-americano in Brooklyn) e il manesco Patrick Gibson. La serie parte come un giallo: i misteri, anziché avere fine, iniziano da lì. Si resuscita come in Les Revenants e nel nuovo testamento; accadono le grandi bizzarrie di Stranger Things; agiscono i personaggi eterogenei di Sense8, colti in intense sequenze d'insieme; affiorano i grattacapi dell'isola di Lost, sospesa com'era tra corpo e spirito, realtà ed elaborazione. Esempio di narrazione ad ampio respiro, la serie viaggia fra generi, toni e universi paralleli. Gli autori hanno completa carta bianca: fanno di te e dei loro prigionieri ciò che vogliono. Otto episodi in caduta libera sono questione di fiducia: dove atterrerai? In un epilogo poco chiarificatore, nebuloso come il resto, che sta spazientendo il web. I nessi dell'episodio della discordia non li ho colti lì per lì, ma fatto sta che mi ha commosso: con le sue coreografie di gesti, la cronaca nera che fa capolino a mano armata, le pareti bianchissime del paradiso o degli ospedali. Ci ho ragionato su e poi, quando ho capito che non serviva, ho realizzato di averlo amato. Inutile farsi troppe domande: non avresti risposte soddisfacenti, né la chiave di lettura che ti schiude le porte dei suoi prodigi. In The OA non ci sono scorciatoie. O ci credi, o non ci credi. Ci sono le fiabe nordiche, con stanze trapunte di stelle; spiritualità e intelletto; cattolicesimo e filosofie new age. Azzardati e indefinibili, sperimentali, gli episodi si sono fatti seguire però con più semplicità del previsto: la mollezza negli arti, la sospensione dell'incredulità, una magica sensazione di abbandono. The OA è una visione frustrante e degna di meraviglia. Imperfetta, e perciò rara. Ti prende e ti porta dove e quando vuole lei. A confine. (9)

Salvatore, sensibile e curioso, appunta tutte le domande che ha su un quaderno rosso e, da un appartamento che dà su Palermo, scruta il mondo ad altezza bambino. Si interroga sulle relazioni umane e il futuro. Pensa con un brivido alla parola mafia, ma ha paura a pronunciarla. Gli hanno detto, tanto, che la mafia non esiste. E, seppure esistesse, non si curerebbe certo di loro quattro. Una famiglia qualsiasi che reagisce all'eco della storia e che, suo malgrado, fa i conti con la cronaca. Perché mamma Pia – un'intensa Anna Foglietta – è condannata a un infame precariato: in graduatoria hanno sempre la meglio i falsi invalidi, i raccomandati, e lo sconforto la porta a ricambiare le attenzioni di un galante maestro. Perché a papà Lorenzo – omino onesto impersonato dal bravissimo Claudio Gioè - negano il mutuo se non accetta di far favori a destra e a manca. Perché uno dei primi amori di Angela, diciassettenne che ha condannato il compagno di banco ai dettami della regola dell'amico, finisce in protezione testimoni e lo zio Massimo si rende protagonista di un'inquietante scalata al potere. Perché l'angelo custode del piccolo Salvatore è Boris Giuliano: poliziotto assassinato nella crociata contro Cosa Nostra. Siamo nel 1979. Di mafia si moriva. Trent'anni dopo, nell'esordio di Pif alla regia, se ne poteva invece anche ridere: ispirato e agrodolce, La mafia uccide solo d'estate era una fiaba che puntava alla prima serata. Diliberto fa da voce narrante e affida il timone a un cast in armonia. La fiction, in pillole, riesce a far bene parlando del male. Divertente e struggente, trasognata, mescola verità e finzione: Riina e Provenzano giocano a carte e complottano; Buscetta è ghiotto delle melanzane ripiene di Pia; Giuliano se ne intende di prime cotte e virtù. Dove troveremo gli adorabili Giammaresi, qui immortalati in uno splendido finale sospeso, l'anno prossimo? L'insospettabile Rai fa l'en plein. Se l'insubordinato Rocco Schiavone, infatti, è la novità, La mafia uccide solo d'estate – tra commedia all'italiana e neorealismo - è un pegno al passato. Ricorda le famiglie riunite davanti ai primi televisori a colori. Sa di già visto. Ma lo rivedi, fai chapeau, ti emozioni. (7,5)

In un quartiere sicuro e popoloso, un cane abbaia insistentemente in direzione di un giardino. La polizia scoprirà i cadaveri di una donna e del suo amante: tutti gli indizi conducono alla porta del marito di lei. La risoluzione del caso sembra scontata e intuitiva. Il colpevole dev'essere l'ex, possessivo e manesco. Ma ha la pelle nera, un nome importante, una fama che lo precede. Cos'ha fatto davvero O.J. Simpson, talentuoso giocatore di football e stella di Una pallottola spuntata? Il duplice omicidio, da bello che risolto, si rivela così più spinoso del previsto. Nascevo quell'anno - 1994 - e conoscevo il caso solo per sentito dire. Simpson, per me, era la spalla comica di Leslie Nielsen: non uno sportivo né un criminale. Poco interessato, ho rimandato a lungo la visione della prima stagione di American Crime Story, che in dieci episodi ricostruisce le indagini e l'estenuante processo. L'ho recuperata per dovere di cronaca. Purtroppo, pur trovandola appassionante e ben realizzata, mi ha lasciato poco coinvolto. Ha pregi lampanti, qualità innegabili: legal thriller senza intoppi, si avvale di attori straordinari – accanto ai redivivi Gooding Jr. e Travolta, la perfezionista Sarah Paulson e la rivelazione Sterling K. Brown – e riscatta il nome di Ryan Murphy dal trash. Vengono immortalate la tentata fuga, la scrupolosa formazione della giuria, le strategie degli avvocati. Ci si gioca la carta del razzismo a piacimento. Parlando di diritti civili e poliziotti intolleranti, l'assassinio passa in secondo piano. American Crime Story non si schiera e non cerca la verità, non sposa particolari punti di vista e non sveglia il cane che dorme. Riferisce sul banco dei testimoni le stesse controversie sollevate ventidue anni fa. Come nel caso dell'agiografico Sully o dell'impersonale Spotlight, la cronaca avvince ma oltre a interpretazioni maiuscole e al taglio chirurgico, limite mio, ho trovato poco altro. Il verdetto, sebbene espresso in suo favore, dichiara The People V. O.J. Simpson asciutto e imparziale; magistrale e  senz'anima. (7)

giovedì 22 dicembre 2016

Recensione: La via del male, di Robert Galbraith

Il male è sempre di moda.

Titolo: La via del male
Autore: Robert Galbraith
Editore: Salani
Numero di pagine: 603
Prezzo: € 18,60
Sinossi: Quando un misterioso pacco viene consegnato a Robin Ellacott, la ragazza rimane inorridita nello scoprire che contiene la gamba amputata di una donna. L'investigatore privato Cormoran Strike, il suo capo, è meno sorpreso, ma non per questo meno preoccupato. Solo quattro persone che fanno parte del suo passato potrebbero esserne responsabili - e Strike sa che ciascuno di loro sarebbe capace di questa e altre indicibili brutalità. La polizia concentra le indagini su un sospettato, ma Strike è sempre più convinto che lui sia innocente: non rimane che prendere in mano il caso insieme a Robin e immergersi nei mondi oscuri e contorti degli altri tre indiziati. Ma nuovi, disumani delitti stanno per essere compiuti, e non rimane molto tempo...
                                          La recensione
Presso l'ufficio del detective privato Cormoran Strike non sono insolite le consegne. Robin, prima semplice segretaria e poi socia alla pari, è ufficialmente fidanzata con Matthew, rampollo troppo bello e noioso per essere vero. A volte arrivano lettere di mitomani da strapazzo, riposte in un cassetto e lì dimenticate. Altre, mazzi di rose rosse che stemperano i toni del giallo. Quella mattina, mentre Londra e i londinesi si preparano al matrimonio in pompa magna degli amati William e Kate, Robin attenderebbe in teoria macchine fotografiche usa e getta per gli invitati al suo, di matrimonio. Invece, scartato l'involto, la giovane donna scopre con urlo una gamba mozzata. Il suo capo, che tiene a lei molto più di quanto non dia a vedere, si precipita in soccorso con tutta la sveltezza che il suo metro e novanta e il suo arto artificiale consentono. Da qui prende avvio la terza indagine architettata da Robert Galbraith; alias J.K. Rowling. Un macabro presente e tutta l'aria di una vendetta consumata dopo anni di meditazione: fredda e al sangue. Se alle prese con l'apparente suicidio di una famosissima indossatrice o con il ributtante smembramento di un scrittore satirico l'investigatore brancolava nel buio, in La via del male Cormoran ha una pista precisa da seguire. Anzi, tre. Chi sogna il giorno in cui il detective, con un'attività ormai lanciata e un nome che fa capolino da tutti i giornali, cadrà rovinosamente? O, piuttosto, sapendolo temutissimo da sbirri e delinquenti, chi non lo sogna? Chi conosce i suoi segreti punti deboli, sotto i chili di ciccia e muscoli e quegli impermeabili lunghi fino ai piedi? 
Dopo Il baco di seta, criticatissimo romanzo intermedio che a sorpresa mi era piaciuto tanto quanto l'affascinante capostipite, mi sono dedicato alla Via del male. Più corposo dei precedenti – migliore, a detta dei più - è un thriller al cardiopalma che non delude le aspettative. Avrei voluto leggerlo con l'anno nuovo, ma è durante le feste che si ricerca la compagnia delle persone a cui vogliamo bene. Così, alla luci sfarfallanti dell'abete sintetico, mi sono goduto l'ennesima avventura di due eroi che solo chi ha pensato i magici mondi di Hogwarts e gli intrighi luciferini del Seggio Vacante poteva raccontare. La Rowling si barcamena con perfetto aplomb brittanico tra nomi e indizi interminabili, senza farci perdere mai il filo. Dà ai comprimari caratteristiche fortissime e modi esagerati per non farceli confondere. Poco raccomandabili, gli spregevoli antagonisti costituiscono una Suicide Squad che fa impallidere. Preghi, così, di non imbatterti mai in qualcuno di simile. Alla prima ombra fuori posto, in strada, cambi marciapiede e ti guardi attorno con fare circospetto. 
La stampa, quando non parla della vita sentimentale dei reali inglesi, conia scoop e soprannomi: annuncia la presenza di un novello Jack Lo Squartatore; fa sì che la fama dell'ispettore – sempre nel posto sbagliato al momento sbagliato – si infanghi. La serie, partita come un omaggio al giallo all'inglese, si fa pulp. Moncherini, sordide chat per masochisti, amabili resti. Assassini senza nome che conservano cadaveri nel congelatore a pozzetto; che collezionano dita, orecchie e cimeli grotteschi; che, tra un capitolo e l'altro, ti coinvolgono nei loro tallonamenti e nei loro pensieri. Non si vive di solo splatter, però, se seicento pagine in compagnia di Robin e Strike risultano stranamente poche. Preme conoscere la risposta a un'altra domanda: ma questi due si diranno di piacersi, sì o no? Ora che Robin è in crisi matrimoniale, vulnerabile e solitaria, sembrerebbe il momento giusto per alleggerirsi finalmente il cuore. Ma Cormoran è impegnato con una bella divorziata, l'esasperante Matthew fa i salti mortali per riottenere la fiducia della promessa sposa e, appostato in un vicolo, c'è qualcuno che, guardando i capelli biondi della segretaria in carriera, elabora disegni di morte. Tanto in ballo: l'incolumità, il lavoro, gli amori platonici. Saltano arti vitali e matrimoni annunciati, in piogge acide di emoglobina e confetti. Si ingurgitano tè e kebab completi come se non ci fosse un domani. Il romanzo vive di strip club, rock duro (quello a me sconosciuto dei Blue Olyster Cult) e reputazioni sporche. 
Questa Via del male porta dritta dritta all'inferno, lastricata com'è di personaggi buoni e cattive intenzioni.
Il mio voto: ★★★★½
Il mio consiglio musicale: Blue Olyster Cult – Career of Evil


martedì 20 dicembre 2016

I ♥ Telefilm: The Exorcist, Mozart in the Jungle III, Red Oaks II

Nella famiglia Rance c'è qualcosa che non va. La figlia minore è protagonista di preoccupanti episodi di violenza. Reagisce alle preghiere e all'acqua santa con rabbia inaudita. Posseduta: i segni parlan chiaro. Come liberarla senza farle del male? Nella sua camera, le pareti imbottite; il viso si sporca di muco, tagli, vomito; la testa minaccia di girare, spezzandole il collo. Due preti con troppo da perdere sfidano il male che la ragazza si porta dentro. Tomas, giovane messicano, ha ceduto alla bellezza di una parrocchiana in crisi matrimoniale; l'esperto Marcus, invece, è stato bandito per i suoi metodi poco ortodossi. Siamo a Chicago, tentacolare e freddissima: a ogni angolo di stada, ci sono manifesti che annunciano la visita del papa, come in Rosemary's Baby. La possessione dell'adolescente è solo la punta dell'iceberg. Sotto la superficie, una setta che ha agganci ovunque; violenti omicidi rituali. A tratti risuona lo storico motivetto: subito è The Exorcist. La serie Fox, però, ha poco in comune con il capolavoro dell'horror. Nulla, dicevo, a proposito del pilot. E già quello, nonostante paragoni inevitabili e all'apparenza poco lusinghieri, sapeva sorprendere per l'ottima fattura: poche idee, tanta eleganza. Regia cinematografica, fotografia senza sbavature... e dopo? Collegamenti ad effetto, dal quinto episodio in poi, che non sto qui a svelarvi. E così, discreto ma rigoroso, The Exorcist si rivela più sequel che indesiderato reboot; più rispettoso successore che avventata riscrittura. Alfonso Herrera e Ben Daniels, con accenti che tutto possono e tanta intensità, vanno a costituire la coppia bene assortita di una specie di buddy movie che oscilla tra l'horror e il thriller piscologico; Geena Davis, ritoccata ma discreta, è la madre devota delle bellissime Hannah Kasulka e Brianne Howey, carne fresca per l'oscurità. Citazioni grandi e piccole, presenze maligne che ritornano e, quarantadue anni dopo, la pace per qualcuno e la chiamata alle armi per altri. Pur se all'ombra di William Friedkin, le dieci puntate pensate da Jeremy Slater – autore degli esecrabili Fantastic 4 e The Lazarus Effect – non fanno sparlare gli scettici; mantengono la tensione e le promesse e, con il twist ad impatto a metà dell'opera, colgono in contropiede. Fino al nono episodio, infatti, The Exorcist regge alla perfezione. Classico ma inquietante. Ha fatto propria la lezione di James Wan. Poi sbaglia perché ha fretta di chiuderla lì: la paura di un rinnovo incerto, infatti, ci regala un season finale non abbastanza potente. Di quelli che, né aperti né chiusi, mi lasciano un po' insoddisfatto. C'è qualcosa di marcio in Danimarca, scriveva Shakespeare. E c'è qualcosa di marcio in Vaticano, quest'anno come non mai, tra gli adepti in tonaca di Slater e gli intrighi di Sorrentino. Se non basta il segno della croce, darsi a una maratona. (7+)

Rodrigo è in crisi artistica. Giovane e scapestrato direttore d'orchestra, ha voltato le spalle alla Filarmonica nel momento del bisogno. Mentre i musicisti scioperano, l'inarrestabile Gael Garcìa Bernal fa vita da nababbo fra i canali di Venezia. Incantato dal sua bellezza, si è messo in testa di riportare la Fiamma – cantante sul viale del tramonto impersonata da una convincente Monica Bellucci, più a suo agio con l'inglese che con l'italiano – sul palcoscenico. I due si corteggiano, provano, mentre l'oboista Hailey – guarda caso, sempre in Italia – resta disoccupata dopo una figura barbina e un pranzo a base di vongole avariate. Tra la musicista e il direttore, si sa, c'è sempre stato del tenero. Galeotta sarà proprio Venezia? E il capriccioso, melodrammatico personaggio della Bellucci, come reagirà all'idea di un triangolo? Mozart in the jungle, dopo la non troppo sorprendente vittoria agli scorsi Golden Globes, ritorna. Nella prima metà, tanta leggerezza all'ombra delle calli; l'opera lirica e nuovi, illustri amici immaginari a consigliare il protagonista; qualche innocuo cliché, compreso un esagerato Christian De Sica, e molte risate. L'ambientazione nostrana, la tintarella, fa bene ai sentimenti e all'ispirazione, allieta i cultori; Mozart in the jungle, spostatosi nella laguna, ne guadagna in freschezza. La seconda parte, invece, riporta i personaggi al punto di partenza. E già in precedenza – più interessati alle scaramucce fra Bernal e Lola Kirke – seguivo gli orchestranti in marcia, tutto quel parlare di investitori e proventi, con un orecchio sì e l'altro no. Qualche episodio al centro gira a vuoto; come nelle commedie hipster di Stillman e Baumbach capita tutto e non capita granché. Dieci puntate volavano via che è un piacere, al solito, fra spartiti intrighi e concerti; regia e colonna sonora, con Amazon a produrre, sono senza pari per qualità. Ma, cosa detta anche per la comedy You're the worst, l'impressione che Mozart in the jungle non vada né avanti né indietro – sempre lì, sempre uguale – spegne gli entusiasmi. Per fortuna c'è l'irrequieto Gael Garcìa Bernal, ed è impossibile non adorarlo. Per fortuna il finale di stagione riserva qualche soddisfazione a chi lo segue più per il gossip che per la musica strumentale e, tra orgoglio sentimento e colti fantasmi, più di qualche buona ragione per tornare in questa giungla calorosa, ma svogliata. (6,5)

Lo scorso anno, di questi tempi, finivo di vedere la prima stagione di Red Oaks. Commedia agrodolce dalle ambientazioni vintage, ci raccontava l'estate di un giovane a un bivio. Quale strada scegliere, alla fine delle superiori? Seguire i desideri di un padre che lo voleva contabile, o ambire al cinema? I grattacapi e le speranze di un ventenne medio, però, non esaltavano. Il romanzo di formazione di David Gordon Green piaceva, ma con riserva. Come il suo eroe spiantato, era indeciso fra serietà e divertimento, cameratismo e nostalgia. Me lo aspettavo più spiritoso, più leggero. E una seconda stagione, invece, non l'aspettavo. Gli ho concesso inizialmente un'occhiata distratta, a tempo perso, e ho scoperto con entusiasmo un Red Oaks cambiato, adulto. Nel primo episodio, addirittura, ambientato in un appartamentino bohémien di una Parigi bertolucciana. Nei successivi nove, però, ecco che si ritorna fedelmente ai pantaloncini bianchi, ai campi di tennis, all'odore di cloro dello sfarzoso country club in cui i protagonisti s'incontrano di nuovo. E, in queste dieci puntate che volano con malinconia, si contendono a turno la simpatia dello spettatore. I genitori divorziano: la mamma sperimenta, il padre si scopre inguaribile gattaro. Un amico si dichiara alla ragazza perfetta, e questa le dice sì; un altro fa i conti con l'arrivo dei quarant'anni. La ex storica si sposa con il fotografo per cui ci ha mollato, ma nel giorno delle nozze ha bisogno di supporto morale. La fiamma attuale – ambiziosa, sofisticata, ricca – inizia a vergognarsi di uno che non ha apparenti obiettivi futuri, se non filmare battesimi e matrimoni fino al prossimo autunno. Ho voluto molto bene - più del solito - a questo David che fa da spettatore alla sua stessa vita e ha i tratti dell'adorabile Craig Roberts, quest'anno visto anche in Altruisti si diventa: bruttino che conquista, ha le mie stesse incertezze e, a occhio, la mia statura. Red Oaks si va facendo grande. Prende e va. Cortese, intelligente, pronto. Questa volta - quest'altra estate - scioglie i dubbi. Ha una scrittura delicata; una trascinante colonna sonora a tema, come nell'ultimo Linklater; la regia, per una manciata di puntate, di Gregg Araki. Quel che è rimasto, con buona pace di Raf, di quegli anni '80. (7)

sabato 17 dicembre 2016

Recensione: Canto della pianura, di Kent Haruf

"Raymond la guardò. Aveva una folta massa di capelli corvini, il faccino rosso un po' deforme a causa del parto e un graffio su una guancia, e nella sua inesperienza, a lui parve che sembrasse un vecchietto, che somigliasse moltissimo a un nonnetto grinzoso, però disse, Sì, è proprio una cosina splendida."

Titolo: Canto della pianura – Trilogia della pianura
Autore: Kent Haruf
Editore: NN Editore
Numero di pagine: 301
Prezzo: € 18,00
Sinossi: Con "Canto della pianura" si torna a Holt, dove Tom Guthrie insegna storia al liceo e da solo si occupa dei due figli piccoli, mentre la moglie passa le sue giornate al buio, chiusa in una stanza. Intanto Victoria Roubideaux a sedici anni scopre di essere incinta. Quando la madre la caccia di casa, la ragazza chiede aiuto a un'insegnante della scuola, Maggie Jones, e la sua storia si lega a quella dei vecchi fratelli McPheron, che da sempre vivono in solitudine dedicandosi all'allevamento di mucche e giumente. Come in "Benedizione", le vite dei personaggi di Holt si intrecciano le une alle altre in un racconto corale di dignità, di rimpianti e d'amore. In particolare, in questo libro Kent Haruf rivolge la sua parola attenta e misurata al cominciare della vita. E ce la consegna come una gemma, pietra dura sfaccettata e preziosa, ma anche delicato germoglio.

                                                La recensione
Due ragazzini, nove e dieci anni, camminano accanto alle rotaie come in Stand by me. Aguzzano le orecchie affinché l'arrivo del treno non li colga impreparati. Si chiamano Ike e Bobby. Sbirciano i gesti proibiti dei grandi, consegnano giornali, si danno ai rapporti di buon vicinato: cercano di non pensare troppo a una mamma che se n'è andata a vivere a Denver. Nel vortice della depressione, pare stia meglio lontano da loro. Tom Guthrie, il genitore che resta, insegna Storia americana: abbandonato, si prende cura dei propri figli, si concede qualche storia di una notte e via e, incorruttibile, s'inimica la famiglia di una mina vagante di studente. Victoria Roubideaux si è innamorata del ragazzo sbagliato, un forestiero, solo perché in pista sapeva muoversi come un dio. Ci ha fatto l'amore sui sedili posteriori di un vecchio catorcio mentre i vetri si appannavano, è rimasta incinta. Messa alla porta dalla madre, accolta provvisoriamente da un'insegnante, trova un inaspettato rifugio a casa dei fratelli McPheron. Fattori da generazioni, hanno più familiarità con le bestie che con il prossimo; ne sanno tanto di giovenche e ben poco di adolescenti ribelli; a tavola parlano di allevamento e raccolto quando non si godono l'uno il silenzio dell'altro. Cosa vogliono due scapoli in là con gli anni da una sedicenne bisognosa? La gente mormora, ma lo strano trio non conosce malizia. E poi c'è Holt, polverosa e ospitale. Immaginaria, ma vivissima. Si ritorna alle storie del compianto Kent Haruf senza aspettare i comodi di Libraccio; si compra d'impulso quelle che restano da leggere. Nelle pagine si cerca lo stesso trasporto di Benedizione, e magari – in tempo di liste e di bilanci, con dicembre agli sgoccioli - la lettura dell'anno. Mi dicevano tante cose di Canto della pianura: per molti, il titolo più bello della trilogia. Mi raccontavano la dolcezza dei fratelli McPheron, e io li ho trovati laconici e affettuosi proprio come mi si assicurava; mi anticipavano uno stile leggermente diverso ma emozioni immutate. Questa volta sono arrivato con la camicia di flanella nei pantaloni e il cappello da cowboy. Questa volta, più a mio agio, ero preparato. Troppo? Ecco che manca, infatti, l'effetto sorpresa. Quel magico senso di ineffabilità. La paura, raccontandovelo, di svelare troppo e troppo poco. 
Questa volta, perciò, parto col presentarvi i numerosi personaggi. Vi racconto cosa ho avvertito e cosa no. Non mi viene voglia, non so, di riservargli un trattamento d'eccezione. Ne parlo positivamente – Haruf resta malinconico, gentile, pacificante – ma senza lo stesso incanto. E mi sento un po' amareggiato. Alla ricerca dei segreti del successo di Benedizione, immaginandomelo impegnato e aulico, mi ero trovato fra le mani un romanzo sorprendente: un capolavoro di semplicità. Avevo sperimentato l'esatto incanto di quelle storie d'altri tempi, che parlano di tutto e di niente al tempo stesso e tu poi non sai come recensirle. Canto della pianura è più drammatico, più ragionato. Più romanzo. La scrittura, lì sobria ed essenziale, si carica di descrizioni particolareggiate e drammi colti in medias res. Carnale e sanguinoso – turbano e annoiano un po', a tal proposito, la cernita delle giovenche infeconde e la scrupolosa autopsia di un cavallo infermo -, celebra la nascita lì dove Benedizione parlava di morte, al capezzale dell'indimenticabile Dad Lewis. 
Sarà che sono fatto a modo mio e ricordo le quiete dipartite meglio di questi inizi turbolenti. Sarà che ho una famosa cotta per i racconti fumosi che parlano di anziani (e alla maniera degli anziani), e a Holt – un paese per vecchi, parafrasando McCarthy – ho seguito commosso l'educazione sentimentale degli attempati McPheron e meno le avventure dei piccoli Ike e Bobby, le bizze tra liceali. Ho amato profondamente gli scenari, i tinelli arredati con modestia e buon gusto del Colorado, il suono che fa. Ma l'emozione è soggettiva, sfuggente, e purtroppo non si è fatta sentire altrettanto. Canto della pianura è una canzone indie folk che sfiora corde risapute – quelle giuste, ormai – e fino alla fine non ti rivela i propri accordi segreti. Si fa inversione di marcia fischiettando l'inciso. Si imbocca nuovamente e prima del previsto la strada che porta in paese. Sterrata, impraticabile, piena di buche. Ma giunto alla meta, seduto sul solito portico, il mal d'auto e la stanchezza vanno via da sé. Ci si gode, così, almeno il piacere di un secondo viaggio non destinato a rimanere l'ultimo. La pace dell'approdo.
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Bob Marley – Redemption Song