giovedì 30 novembre 2017

Mr. Ciak - Torino Film Festival: Tito e gli alieni, Smetto quando voglio: Ad Honorem, Riccardo va all'inferno

Tito e Anita, rimasti soli al mondo, fanno in fretta i bagagli per il Nevada. Adesso non hanno che uno zio, vedovo malinconico e cronicamente introverso, che possa prendersi cura di loro. Sanno che lì, lontano lontano, dall'altra parte dell'Oceano, fa lo scienziato: lavora in un osservatorio – anzi, un ascoltatorio, verrebbe da dire col senno di poi – in cui interpreta il cielo, le stelle, e ciò che hanno da svelarci. Il bambino sogna gli ufo e non ha mai smesso di chiedere di mamma e papà. La bambina, quasi donna, civetta con i militari e cura ogni animale randagio con la Citrosodina tritata. Dall'Italia, i piccoli immaginavano le luci di Las Vegas, le ville con piscina e Lady Gaga come vicina di casa. Trovano invece un parente sconosciuto, burbero ma di buon cuore, che ha dato a una macchina il nome di Linda, la moglie defunta, e non crede di poter ricambiare le tenerezze di una adorabile Clemence Posey. Trovano invece un modo tutto loro per intaccare quella solitudine siderale. Per ritrovare loro stessi su questa stessa terra, non scomodando né gli extraterrestri né sfidando l'impossibile velocità della luce. Un po' come me, che un pomeriggio sono finito a vedere Tito e gli alieni a sorpresa, a scatola chiusa. E, nel primo film italiano presentato al festival, ho scoperto un piccolo gioiello un po' napoletano e un po' americano, con un po' di Little Miss Sunshine e un po' di Her. La commozione a un passo dai titoli di coda, i volteggi surreali della macchina da presa e la magia di un ritratto di famiglia all'improvviso, all'ombra dell'Area 51. Perseguitati dal dolore e dal destino come nell'ultimo Lonergan, i teneri “scugnizzi” di Paola Randi interrogano il loro tutore sul senso della vita, della morte, dello stare insieme. Un magnifico Valerio Mastandrea – che alieni, all'inizio, considera soltanto i suoi nipoti da accudire – si imbatte nelle risposte giuste ricercandole per amor loro, e il bello è che a sua volta se ne convince. Quali sono i confini della volta celeste, degli Stati Uniti, della memoria del cuore? Qual è la voce dell'universo, e cosa ti dirà mai? Tito e gli alieni gli parla, sì, e invita a credere fermamente anche uno scettico come me. Che pensava che il dolore, l'abbandono, fossero vita natural durante. L'universo qualche volta risponde. E ha la voce delle commedie fantascientifiche, quelle più belle ancora perché rigorosamente a chilometro zero, e delle persone che hai amato e sempre amerai. Anche lontano dagli occhi, fra le dune roventi e queste stelle che muoiono. (7,5)

Avevo apprezzato ma non troppo Smetto quando voglio. Il primo liquidato in poche righe come carino e poco più, non sapendo ancora ci fossero seguiti in arrivo. Il secondo, invece, per me sbrodolato e tutt'altro che indispensabile, è un commento su Word – altrettanto stringato, ma più netto – che non ho mai avuto voglia di postare sul blog. Vedere in anteprima il terzo e ultimo capitolo, con parte del cast in sala, il regista e i produttori Matteo Rovere e Domenico Procacci, e farsi un selfie al volo con un gentilissimo Neri Marcorè (troppo brutto, però, per condividerlo sui social). Ad Honorem, onestamente, non era tra le mie priorità. Avevo l'abbonamento, e ho detto perché no. Questa mia freddezza, nonostante un pubblico fervente, le risate in sala e una tifoseria ormai nutrita della nota squadra dei ricercatori. O forse proprio per quello: il troppo parlarne, il troppo sopravvalutarlo? Con attese nettamente ridimensionate, dopo quel Masterclass di cui conservavo un po' di noia e ricordi flash, sono tornato dagli spiantati trafficanti di Sydney Sibilia. Dietro le sbarre, separati, ma eccezionalmente riuniti a Rebibbia in attesa di processo. Tocca pianificare una spassosa evasione, se Luigi Lo Cascio – cattivo in cerca di vendetta, spiace dirlo non a suo agio con la commedia brillante – vuole avvelenare La Sapienza con del gas nervino, approfittando delle migliori (o peggiori) personalità italiane lì in riunione. Trattati come criminali, si improvvisano eroi. In Ad Honorem, i soci di Edoardo Leo ripongono l'ascia da guerra contro il Paese che li ha falciati e, in fuga, cercano di salvare l'università che è stata la loro casa. Il mondo intero. Al solito, spiccano le ipocondrie di De Rienzo, la fisicità e le inaspettate doti canore di Fresi e, questa volta, la doppiezza di un Marcorè affascinante anche imbruttito (e abbruttito), come notavano le mie vicine di posto. Gli omaggi non si contano, ed è palese quello a una scena di Lost con i Coldplay in sottofondo. La fotografia resta acidissima, le battute vincenti e i ritmi concitati, la sceneggiatura assolutamente ben orchestrata. Breaking Bad: punto di riferimento sempiterno. Da spacciatori a salvatori fai da te, i ricercatori ricercati di Sibilia sanno come uscire di scena, in una conclusione divertente e degna anche per chi, fino all'ultimo, si è mostrato come me poco entusiasta del progetto. Troppo tu vuò fa' l'americano, forse, per farmelo insierire tra le bellezze di un cinema italiano che, da un paio d'anni appena, ha finalmente bevuto un sorso alla fonte della nuova giovinezza. (6,5)

Riccardo torna a casa. Storpio, assetato di vendetta, brutto ma dalla voce bella. Con quella di un camaleontico Massimo Ranieri, precisamente, ci canta in apertura l'inverno del nostro scontento. Riccardo torna a casa, in un regno fittizio che altro non è che una borgata romana di poveracci arricchiti, e ha una lunga lista di persone a cui farla pagare. L'hanno accusato del crimine più infame. L'hanno chiuso in una clinica psichiatrica per tutta la vita, alimentando con cattiveria aggiunta una natura già instabile e malevola. Riccardo, che nel suo covo segreto ha grotteschi ma irresistibile scagnozzi che somigliano alla versione horror dei Minions, è il principe folle di William Shakespeare. Un uomo senza scrupoli e senza speranza che nel ritorno alla regia dell'innovatrice Roberta Torre – suo il kitsch Tano da morire, a cui tutto deve un Ammore e Malavita – si trasferisce dall'Inghilterra ottocentesca all'Italia post-moderna, dal blank verse al musical più psichedelico. Canta, circondato da figuranti bizzarri, ballerini in latex e scenografie barocche, e mira a rovesciare la regina di una magnetica Sonia Bergamasco – tirata e bionda come Amanda Lear, diverte e ruba a mani basse la scena al protagonista assieme alla sorella di Silvia Gallerano, sensuale Barbie Xanax a un passo dal baratro. Chi è davvero sano? Chi, in definitiva, ha le mani pulite? Si impilano morti ammazzati, ritornelli e stranezze. Pistole dai calci glitterati, teschi con diamanti per occhi, scene pulp. Così lontane dall'intrattenimento di cuore ma realizzato molto alla buona dei Manetti Bros. Da un cinema commerciale che, forse, non avrebbe avuto la stessa spavalderia della Torre nel risultare ambiziosa, presuntuosa, prendendo Shakespeare per vestirlo da un videoclip di Gaga, dal Refn che più divise Cannes. Il difetto: una sceneggiatura che dalla tragedia shakespeariana perde il dolore, la potenza, scegliendo di investire talenti ed energie sui dettagli più piccoli della messa in scena. A quella, ipnotica e psichedelica, gli occhi. Le orecchie, invece, aguzzate per ascoltare i versi (e le canzoni) di un Bardo rock, dark, in una trasposizione – l'ennesima, verrebbe da dire, e invece no – che non lo prende alla lettera, ma ce ne ricorda l'attualità sconcertante. E la sconsideratezza di qualche film italiano che sa stupire e stranire, visivamente e non solo, assicurando che in questi inferni metropolitani e metaletterari ci si diverte molto più che fra gli angeli del paradiso. (7)

mercoledì 29 novembre 2017

Mr. Ciak - Torino Film Festival: The Disaster Artist, Wind River, Final Portrait

Greg, la faccia d'angelo di James Dean e una San Francisco che non crede in lui, vorrebbe fare l'attore. Troppo timido, troppo dimesso, ha bisogno di un miglior amico come Tommy Wiseau: il fenomeno da baraccone della sua classe di recitazione, con un indefinito accento dell'est Europa (anche se giura di essere nato a New Orleans) e introiti inspiegabili (contante a non finire, case dappertutto, ma di un impiego neanche l'ombra), gli fa infatti da spalla e promotore. Giurin giurello, mignoli intrecciati, e in nome del loro affetto lo invita a Los Angeles; gli scrive un film su misura. Girato in tempi biblici, assurdamente costoso, The Room rimarrà nella memoria collettiva come uno dei peggiori film mai realizzati. Scritto male, diretto peggio, ispirato a Tennessee Williams eppure involontariamente ridicolo. Il biopic al cinema dovrebbe essere un genere rigoroso, serio, patinato. Dovrebbe meritarselo qualcuno all'altezza. Si può fare un bel film – una commedia che farà senz'altro faville ai prossimi Golden Globe – ispirandosi alle gesta dell'Ed Wood dei nostri tempi? Si può far bene, anzi benissimo, partendo dalle peggiori premesse? Sì, si può. Tommy Wiseau ci mise la faccia e i mezzi. Checché se ne dica, ci mise l'amore. Per il proprio ego spropositato. Per una settima arte in cui lascerà l'impronta, ma non come avrebbe voluto. Un po' come lo strano caso di James Franco: paradossalmente ha adattato Faulkner e Steinbeck, in tempi e festival recenti, non rimanendo impresso. Questa volta invece, scemo ma con innata intelligenza, caratterista strepitoso, miete consensi all'unanimità. A unirlo a Wiseau, il fatto che un po' ci sia e un po' ci fatta; il mettersi in gioco a tutto tondo dirigendo e recitando. E come Wiseau parla, sghignazza, si muove: un conte Dracula dagli occhi di ghiaccio, i capelli unti fino alle radici, che sbaglia le battute, ha violenti attacchi di gelosia e, fra una grassa risata e un'emozione inattesa, sa regalargli a sorpresa il miglior ruolo dai tempi di 127 ore. Sarà che Franco, vulcanico e contraddittorio, ha due anime di solito inconciliabili. Quella trash, che qui trova a scatola chiusa terreno fertile. E l'altra più nobile, che legge e riscrive la letteratura americana a piacimento: in questo The Disaster Artist ricerca con successo, così, un'epica tutta sua, le avventure più sconsiderate, i desideri di gloria contro i mulini a vento. Particolarmente nel suo, l'attore impersona un giullare esilarante, disperato, che ha sprezzo del ridicolo e le mani bucate. Con i suoi soldi da buttare può comprarsi l'amicizia di Dave Franco (e di comprimari o comparse che comprendono Rogen, Hutcherson, Efron, Cranston, la Stone e la Griffith), le sale vuote di Hollywood, ma non i sogni. Che non stanno nel proverbiale cassetto. Che non distinguono, nel suo caso, il fine dal mezzo. Le risate buone da quelle cattive. Un applauso da un fischio. Il trionfo, appunto, dai dolori del disastro. (7,5)

Le orme conducono al cadavere di un'adolescente pellerossa. Mezza nuda, abusata, ha corso per dieci chilometri prima di morire assiderata: annegata nel suo stesso sangue. Da chi fuggiva? Jeremy Renner – di solito spalla da poco, qui protagonista tormentato e convincente come mai prima d'ora – imbraccia il fucile, si mimetizza, e va a caccia di felini e assassini a sangue freddo: la giovane vittima e una figlia morta allo stesso modo, invendicata, sono accomunate da un simile destino e da una lunga amicizia tra i banchi di scuola. Con lui, nuovamente nella stessa squadra dopo le poco fantastiche avventure degli Avengers, il dolce e agguerrito agente dell'FBI di una Elizabeth Olsen che, per colpa di una sceneggiatura che non approfondisce, a tratti sembra purtroppo un pesce fuor d'acqua: impreparata alle temperature in picchiata, al maschilismo, alla cattiveria vera. Dopo Sicario e Hell or High Water, Taylor Sheridan – al suo esordio alla macchina da presa, già premiato per la miglior regia a Un Certain Regard – torna con un terzo film di frontiera. Gli riconosco ancora una volta un grande talento, una lodevole propensione per un cinema alla Clint Eastwood, ma è ancora una volta che non mi convince fino in fondo. E non so perché. Wind River è un western atipico, ad alta quota. Un thriller che ai colpi di scena sensazionali e all'ironia dissacrante di Fargo preferisce il piglio rigoroso delle storie vere. Potente nelle immagini e nelle razioni al dolore. Artico, ma accorato nei drammi umani. Si scava nei problemi familiari della vittima, in una vita amorosa di cui in pochissimi sapevano, nello sporco ben celato del candido Wyoming. Si parla dei contro dell'immobilismo, della noia che genera mostri; della (mancata) integrazione delle poche riserve indiane rimaste in piedi. Di senso di colpa, vendetta e infinita crudeltà. Quella di una Madre Natura che non guarda in faccia nessuno. Quella dei nostri simili, che ti sbranano se gli volti le spalle, dando poi la colpa ai lupi. (7)

In posa per il pittore Alberto Giacometti. Italiano a Parigi, amico-nemico di Picasso e Chagall, artista minuzioso e cronicamente insoddisfatto. Mani fra le ginocchia, mento basso, sguardo fisso. Vietato accavallare le gambe, vietato sorridere, vietato alzarsi prima della fine della seduta. James, scrittore americano in vacanza con un ritorno da posticipare all'infinito, ha l'onore e l'onere di fargli da modello. Immobile, all'inizio incuriosito e poi semplicemente stremato, viene osservato e a sua volta osserva: il disordine nello studio del pittore, la doppia relazione con la moglie e l'amante, la collaborazione con il fratello Diego. Final Portrait, ambientato qualche anno prima della sua morte, racconta la lunga gestazione dell'ultima opera lasciata in eredità al mondo. Il ritratto dell'americano sarà ultimato e cancellato ogni volta. Perché l'artista, capriccioso e sboccato, fragilissimo, riteneva fermamente che non esistessero ritratti finiti. E film così, che d'arte e incompiutezza vorrebbero parlare, loro malgrado vanno incontro a esiti simili. Si ha l'impressione, infatti, che finiscano senza neanche cominciare. Rush, impeccabile e somigliante istrione, porta le tempere, le bizze e un umorismo caustico tipicamente britannico. Armie Hammer, pare in odore di nomination per l'atteso Chiamami col tuo nome, mette la voce conciliante e quella sua bellezza noiosamente squadrata. Ancora più di loro, eppure ugualmente in parte, brilla la sorprendente regia di uno Stanley Tucci dall'altra parte della barricata: elegantissima, mai laccata, con la caligine malinconica del cinema d'oltralpe e la palette di colori di un Tom Hooper. Colto, teatrale, riuscito a metà, Final Portrait è il biopic atipico che descrive non i drammi del pittore, ma gli alti e bassi del processo creativo. Dalla creazione, in novanta minuti appena, perciò il fascino, gli sbaffi di colore e, purtroppo, la ragionevole monotonia. (6)

lunedì 27 novembre 2017

Recensione: La zona cieca, di Chiara Gamberale

| La zona cieca, di Chiara Gamberale. Feltrinelli, € 15, pp. 219 |

Non ci eravamo lasciati bene, no. Adesso, inconcludente e furbissimo, aveva dato vita a una pausa di riflessione lunga più di un anno e mezzo. Chiara Gamberale, leggevo in dolce attesa, questo inverno torna (ma non proprio) con La zona cieca. Si tratta infatti di una ristampa. Di un romanzo che il prossimo anno soffierà sulle sue dieci candeline. Ho potuto tirare così un sospiro di sollievo. Perché sulla Chiara di una volta non ho mai avuto dubbi: è la nuova, ogni tanto, che mi fa dubitare. Perché questi Lidia e Lorenzo, io, tanto li ho letti e riletti in ordine casuale. Li conoscevo già. Mandorla, la protagonista di Le luci nelle case degli altri, era loro condomina: la speaker radiofonica e lo scrittore in crisi creativa facevano coppia fissa, avevano un cane con il nome di un antidepressivo e si accapigliavano spessissimo, nell'amore bello e litigarello dei proverbi delle nonne.

Non ne posso più di tutto questo altrove, ho bisogno un po' di dove.

Lidia, a un bivio, più padrona di sé, era anche in quell'Adesso da dimenticare. L'alter ego dell'autrice – come lei, qualche disturbo alimentare in gioventù e buoni consigli in radio – incontra Lorenzo, un maestro nel dare e nel togliere, nel febbraio di un anno bisestile. Non per un caffè, ma per un giro a un luna park che di per sé mette un po' di malinconia. Credono che faranno eccezione. Si prendono e si lasciano. Lei, troppo malleabile, predica bene e razzola male. Lui, bello e dannato per copione, con una ex moglie omosessuale e un livido dentro, dipende dagli stupefacenti ma non dagli altri. Convivono, ma guai a dirsi insieme.

Nel suo immaginario Lorenzo era il pesce giallo e blu ferito nell'acquario dove va a finire il piccolo Nemo, era Spugna l'aiutante di Capitan Uncino ed era Scar, lo zio cattivo del giovane Re Leone, mentre, sempre secondo lui, io ero il piccolo Nemo, il giovane Re Leone ed ero Wendy, che sa volare sull'Isola che Non C'è ma può anche tornare a casa - questa la sua tragedia, questa la sua fortuna, diceva. Eravamo Lilo e Stitch.
- Una bambina delle Hawaii sola al mondo e un mostro orribile programmato per distruggere, ma che insieme imparano che 'Ohana vuol dire famiglia.

La zona cieca è la loro storia d'amore: con tutte le ansie, i dilemmi e i grattacapi propri delle coppie di oggi. La compongono le confessioni anonime degli ascoltatori; i pensieri estemporanei di una trentenne insicura, cotta e chiacchierona, che qualcuno potrebbe giudicare perfino senza capo né coda. Eternamente indecisi, Lidia e Lorenzo sono scordinatissimi: vogliono la stessa cosa, ma le danno nomi diversi. Fidarsi, affidarsi, significa scoprirsi vulnerabili. Perché finché siamo soli possiamo penserare a noi: anche diventando, a volte, i peggiori nemici che abbiamo. Ma in due ecco che ci si scopre più pieni, più felici, ma anche più tristi per per un muso lungo. Per un giorno no contro cui, nostro malgrado, nulla possiamo. L'amore fa miracoli? 
La zona cieca è tutto un processo di accettazione e di elaborazione, ora frizzante e ora mesto. Finisce con l'amarezza e una punta di beffa, con i puntini di sospensione, anche se a differenza loro so già la fine che faranno: so che possono farsi felici, applicandosi.
La zona cieca, ancoraè tutto quello che gli altri vedono di noi ma che ci sfugge – ad esempio, un pezzo di lattuga rimasto intrappolato fra i denti a cena, o una convivenza altalenante che bene non fa. Per capirlo bisogna sbatterci la testa o, in questo caso, rompersi il mento. Lo suggerisce per email uno sgrammaticato sciamano irlandese come amico di penna. Lo ribadisce una Gamberale ritrovata con piacere – anche se con due protagonisti molto difficili da amare, e infatti non li ho amati fino in fondo – che per fortuna, tra queste pagine, mi ha ricordato perché non sia un'autrice di cui parlare e sparlare per pregiudizio preso.

Vorrei tanto essere meno triste per farla felice.

Sulle strade senza uscita, sui coni d'ombra, ci proietta la sua riconoscibilissima luce. E gli spigoli di un rapporto considerati pericolosi solo perché lasciati al buio, i segreti dell'altro, non fanno più spavento sotto la guida di chi sa e, soprattutto, sa condividere. 
Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Arisa - Ho perso il mio amore

venerdì 24 novembre 2017

I ♥ Telefilm: AHS: Cult | Red Oaks - Stagione 3

L'avvento di Donald Trump alla presidenza generava proteste in piazza e piogge di meme su Facebook. Il logo di American Horror Story per dire che per una fetta di America l'orrore era appena cominciato. Ryan Murphy ha battuto il ferro finché era caldo. Ha preso alla lettera gli SOS sui social. E per il settimo appuntamento con una serie antologica tra alti e bassi ha scelto gli Stati Uniti di oggi, sì. Una stagione attuale, satirica, politicamente schierata, che per il raccapriccio lo prende dall'intolleranza, dall'estremismo, dalla regressione allo status quo ante. A onor del vero, da chi Trump lo sostiene a spada tratta ma anche da chi, agli antipodi, lo ostaggia. Tutto ha inizio dalla sconfitta a sorpresa della Clinton. Qualcuno si strugge: una coppia omosessuale con un bambino da crescere. Qualcuno esulta: un sadico mosso da un folle delirio di onnipotenza che del nuovo presidente vorrebbe emulare i gesti e l'ascesa, per poi un domani rimpiazzarlo. Per molti è un altro 11 settembre: il dissenso, l'insicurezza, alimentano infatti nuove e vecchie fobie. Per altri invece è l'ora di dar vita a una setta di assassini a sangue freddo, con gli inquietanti abiti dei clown, i mezzi delle camicie nere e le promesse melliflue di Manson. Puntare al disordine, al potere: mettere in pericolo le vite degli elettori, così da assicurargli certezze e riparo al momento debito. Qualche donna, silenziosamente, si distacca dal gruppo; si ribella al culto di un leader misogino, ingrato, filo-fascista in nome del famoso orgoglio femminile. Cult, tra politica e femminismo, ha temi caldissimi ma omaggia il gore degli horror meno sofisticati – Saw, The Purge. Ha guizzi interessanti, nella scrittura, ma esagera al solito – troppa violenza, troppi toni inconciliabili fra loro, ma finalmente pochi attori sui quali concentrarsi. Se dei pessimi Alison Pill, Colton Haynes e Billie Lourd (gli ultimi due, in una certa sequenza, in procinto di darsi a un ridicolo ménage a trois) nessuno sentiva la mancanza, per il carismatico Evan Peters è tempo di mostrarsi perfettamente all'altezza della situazione in un camaleontico one man show. Lo affianca e lo combatte una Paulson un po' in sordina, vero, con un ruolo pronto a sorprendere con moderazione dopo un inizio all'insegno delle urla e dell'antipatia più profonda. Cult non fa paura come gli home invasion a cui si ispira e non va tanto per il sottile per essere vera e propria satira. A lungo, non sa dove andare a parare. Fino all'ultimo, pur irritando meno dello scorso anno, pur pasticciando nei limiti consentiti, non si lascia mettere bene a fuoco. Ingrana a metà, tardi ma non troppo, quando si rivela una stagione cattiva, e dalla parte dei cattivi. In cui il più buono ha la rogna. In cui il potere, il sangue, ti logora e ti infetta. L'America, e American Horror Story, strombazzano di voler essere grandi di nuovo. Così basta? (6,5)

Chi si aspettava di ritornare per il terzo anno su quei campi da tennis? Non io, probabilmente, quando Red Oaks era una comedy carina e poco più, semisconosciuta e dal destino incerto. Qualcosa però è cambiato lo scorso inverno. Quando, di nuovo tra gli oziosi villeggianti del country club di provincia, avevo trovato a sorpresa protagonisti più cresciuti, giardini e idee più verdi. Il coming of age prodotto da Steven Soderbergh, al solito inatteso per via di quell'Amazon poco a sua agio con il martellante battage pubblicitario di casa Netflix, è giunto all'ultima pagina. Alla sua ultima stagione. Sei episodi per la fine di un decennio fortunato, di un'epoca, di un'estate sospesa. Di una comedy piccolissima, ma per me tutt'altro che trascurabile – alla regia, per dire, si alternano ora David Gordon Green, ora Gregory Jacobs. Capitanata dall'immancabile Craig Roberts, che porta in campo la sua adorabile aria da attore indie, personalità e buon umore, Red Oaks si conferma brillante e scorrevole, nostalgica forse più che in passato. Ti dici che è un addio, infatti. David, single per scelta altrui, si muove tra incontri poco imbarazzati con le storiche ex, i sorrisi ricambiati di un'aspirante stilista e un lavoro poco soddisfacente presso uno studio cinematografico. Vuole ancora fare il regista, essere un altro Godard, ma intanto si accontenta di portare i caffè. A New York: lontano dal cloro negli occhi, lontano dalle racchette, e non senza un certo dispiacere. Il padre è alle prese con l'apertura di una nuova paninoteca, mamma Jennifer Grey con la liberazione del coming out, l'amico Wheeler con la gelosia per uno schianto di bagnina al di fuori dalla sua portata eppure misteriosamente innamorata di lui. In crisi esistenziale, pensano chi più e chi meno al cambiamento; al reinventarsi in fretta. Perché tutto ha un prezzo. Anche questi anni Ottanta troppo omaggiati, troppo stilizzati, troppo svenduti su altri canali. Anche il country club, soprattuto, puntato da una squadra di spietati acquirenti giapponesi. Può chiudere i battenti? Può licenziare i suoi dipendenti e congedare così la sua affezionata clientela? La terza stagione della serie di Jacobs è equilibrata ma forse frettolosa a tratti. Segna la fine dei match, delle sdraio al sole, dei sogni di gioventù – perché infranti o perché realizzati. Lasciamo David e gli altri cresciuti, ancora. All'ennesimo bivio, che stavolta somiglia alla costruzione di un lieto fine. Con un po' di amarezza, eretto proprio sulle macerie di quel Red Oaks da molti amato, da molti odiato. (7)

mercoledì 22 novembre 2017

Recensione: Arabesque, di Alessia Gazzola

| Arabesque, di Alessia Gazzola. Longanesi, € 17,60, pp. 352 |

L'Allieva mi era mancata. Lo scrivo in ogni post, da sette romanzi a questa parte, ma tant'è. Questa volta sentireste un po' di sopresa nella mia voce: una specie di sollievo. Merito o colpa di quella serie Rai che, non me ne vogliano l'autrice o gli spettatori affezionati, avevo abbandonato trovandola inguardabile – Alice, che sul divano si gusta in streaming Games of Thrones e Master of None, mi perdonerebbe a cuor leggero, abituata bene com'è. C'era il rischio (noi lettori siamo bestie strane, si sa) di essersela fatta venire a noia, perfino in antipatia. Questa stessa Alice Allevi, mi domando a fine lettura, che per qualche giorno ha dissipato le nuvole e la malinconia di un mese di novembre vissuto con tanta fatica? La Alice che cambia rimanendo sempre uguale a sé stessa, e non è un difetto? La Alice a un passo dai trenta, finalmente donna e indipendente, che sta imparando a diventare adulta senza tradirsi mai? Come ho potuto dubitarne, io? 
La avevo salutata ferma a un bivio, al tempo delle scelte. In Arabesque, un anno dopo, la protagonista è passata da specializzanda a specializzata; da in una relazione complicata a single.

Le relazioni umane sono il vero mistero, più della morte.

L'Allieva non è più tale. Abbandonato l'appartamento universitario, ora vive con Marco: il fratello minore fotografo, che a ventotto anni ha già un matrimonio fallito alle spalle e una bambina irresistibile, Camilla, che mostra alla nostra protagonista le indiscrete gioie del sentirsi chiamare zia. Ha il sogno di un dottorato che possa riportarla di corsa all'Istituto, eppure amato e odiato da studentessa, e la prima autopsia da affrontare in solitaria. 
Calma e sangue freddo: sul tavolo d'acciaio c'è una donna di mezza età, un'ex ballerina con un bel vestito Dior e la carotide lacerata, forse per una caduta in giardino o forse per un omicidio accidentale. La morte di Maddalena, étoile sfiorita presto e intransigente maestra di danza, porta la protagonista ad addentrarsi nel mondo luccicante e competitivo del miglior Aronofsky. A riesumare il cadavere di un'altra danzatrice, morta più di dieci anni prima, il cui caso era stato liquidato come suicidio: proprio da un Claudio Conforti che non sbaglia e, peggio, non si perdona. Non c'è spazio per i pasticci, per le mani che tremano, ma per un mistero sì, e questa volta indossa il tutù. Calma e sangue freddo: perché c'è un lui, piacione ma intenerito, che vuole conoscere Alice, non l'allieva Allevi, e magari chissà, fare tappa all'Ikea.

«Sa com'è, mi lascio trascinare dalle storie degli altri. Sono fatta così.»
«Forse le manca una buona storia tutta sua.»

Le mie parole, davanti all'ennesimo romanzo divertente, intricato e godibile, tenderanno a ripetersi. Tra casi più o meno ben strutturati, tra tira e molla più o meno indispensabili, ma con uno spirito sempre riconoscibile. Questa volta Alice non pasticcia più, ma non per questo è più seriosa. Non è più un'universitaria, ma non per questo ha smesso di imparare la lezione. Fa da sé le sue constatazioni, i suoi esami, ma non abbraccia il cinismo dei medici legali – ogni corpo ha una dignità, una storia da raccontare. Arabesque – non inappuntabile, in definitiva, ma all'altezza della situazione – lo si conclude presto ma non troppo, con una risoluzione frettolissisima che poco si regge sulle punte ma che non lascia comunque delusi. Con la leggerezza intelligente a cui siamo abituati. Con la simpatia, il cuore in subbuglio tra più fuochi, a cui per fortuna mai ci abitueremo. Alessia Gazzola mi era mancata e si conferma, così, una di quelle autrici da cui non vedi l'ora di far ritorno. Come ho potuto dubitarne, io?
Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Levante – Non me ne frega niente

lunedì 20 novembre 2017

Recensione: Mildred Pierce, di James M. Cain

| Mildred Pierce, di James M. Cain. Adelphi, € 12, pp. 308 |

Nella Los Angeles degli anni Trenta cadono gli azionisti, gli angeli in paradiso, ma non la buona stella di Mildred Pierce. Divorziata, madre di due bambine agli antipodi, sembrerebbe incarnare alla perfezione l'immagine della buona massaia, dell'angelo del focolare senza referenze nel curriculum ma con un paio di gambe da capogiro: l'unica soluzione, se la Depressione con la lettera maiuscola minaccia di divorare quel che resta di casa sua, è farsi sposare dal migliore offerente? Chiediamolo alle insegne di Hollywood. Ai tubi di scappamento delle auto strombazzanti. Alle collane di perle. Ai grembiuli delle casalinghe e agli abiti a stampa delle signore per bene. All'America tutta, fissa alla cornetta dopo il tragico crollo della borsa di Wall Street. A un romanzo scritto quasi ottant'anni fa che ha la routine e la smania, l'indiscreto fascino della semplicità e i colpi di testa, di cuore, dei sogni di gloria. Possibili per chi si rimbocca le maniche, si impunta, combatte. James M. Cain anima con una scrittura elegantissima e incalzante, forse provocatoria per i suoi tempi, un personaggio femminile sottile ma mastodontico, di straordinaria tempra morale – interpretare l'orgogliosa protagonista ha regalato l'Oscar alla leggendaria Joan Crawford e premi innumerevoli, tra Emmy e Golden Globe, a una Kate Winslet a puntate. Il rischio c'era, sì. Di trovarlo pomposo, laccato, fuori tempo. Mildred Pierce, a metà tra il noir e il mélo, è un dramma d'epoca con una scrittura immortale e sfide furibonde. Un superbo romanzo sul reagire. Anche se gli inevitabili rovesci di fortuna, i tranelli all'orizzonte, sono impossibili da prevedere: perfino per una donna come lei, lungimirante e spietata all'occorrenza. Una mamma leonessa con una figlia serpente.

Mildred aveva paura di Veda, del suo snobismo, del suo disprezzo, del suo spirito indomabile; temeva più di tutto qualcosa che sembrava covare sotto il tono scherzosamente affettato, sotto le pose della bambina: un desiderio freddo, crudele, volgare di torturare sua madre, di umiliarla, soprattutto di ferirla.

L'autore del Postino suona sempre due volte racconta infatti gli sgarbi della genetica, che a volte ti mette in casa chi non ti somiglia affatto – una nemica mortale, in questo caso. L'ottusa caparbietà delle mamme, crocerossine in nome di quel loro amore viscerale e cieco, che pensano di poter far tutto semplicemente desiderandolo. Mildred, combattuta fra “l'orgoglio e lo stomaco”, rifiuta fieramente le divise; l'elemosinare. Da cameriera part-time, si improvvisa con successo imprenditrice: prima le torte vendute alle migliori pasticcerie della città, poi una rosticceria tutta sua con sfavillante insegna verde e parcheggio annesso, infine gli introiti di ben tre ristoranti da gestire. L'ascesa: solo per conquistare la stima e la fiducia di una figlia con la vergogna nel sangue. Per prendersi cura di una piccola tiranna con il desiderio di un pianoforte a coda e del palcoscenico. L'incantevole e amorale Veda pretende il cibo pronto in tavola, e non si domanda mai da dove arrivi. Spinge la madre al meglio, al peggio: al limite. Si respingono come chi, nel profondo, è uguale. Sono fatte segretamente della stessa sostanza. Custodi insospettabili della medesima natura subdola e manipolatrice – Mildred conosce mezzi leciti e illeciti, infatti, e le attenzioni di tre uomini che sono figuranti usa e getta. Ha il timore di non essere all'altezza. Sfidare testardamente tutti, tutto, serve a dimostrare a Veda il contrario. Proprio come il volerla sofferente, a terra, per il desiderio malsano di poterla finalmente aiutare. Farla capitombolare rovinosamente dal piedistallo solo per tenderle una mano? Ottenere l'ottenibile, e poi? Nutrita l'inquietudine, scoprirsi magari in pace, felici? Non era meglio una vita onesta, di pasticcini da glassare e piccoli dispiaceri?

«Lei ha mai visto quei piccoli serpenti, allo zoo? Quelli che vengono dall'India, quei bei serpentelli rossi, gialli e neri? Lei forse se ne porta a casa uno, per addomesticarlo come un cagnolino? Non sarà così stupida, immagino. Ebbene, mi creda, questa Veda è così. Se vuol vedere il serpente, comperi il biglietto, ma non lo porti a casa. No.»

Si fa un disperato tentativo di tornare indietro, sulla scena del crimine dei propri lussi esagerati; dei propri sbagli. Ma più sali in alto, più ti fai male quando cadi. 
Mildred Pierce è un romanzo di emozioni intense e scomode, di dive per sempre, che sgomita furiosamente verso la fragile illusione del sogno americano – ignaro che si trovi a confine con l'abisso. Su sigarette, ed esistenze, bruciate fino al filtro. Consumate a boccate avide, lussuriose, vivendo sempre al massimo.
Il mio voto: ★★★★½
Il mio consiglio musicale: Blondie feat. Philip Glass - Heart of Glass

sabato 18 novembre 2017

Mr. Ciak: Indignazione, Auguri per la tua morte, Maudie, Fortunata, Sole cuore amore

Indignazione è stato il mio primo Philip Roth: a sorpresa, il romanzo più bello della scorsa annata. C'era il rischio, a fine lettura, di non vedere la trasposizione cinematografica con i giusti occhi, nonostante la buona accoglienza al Festival di Berlino e i plausi qui e lì: inevitabile quando una storia ci tocca, ci scuote. Un po' per sicurezza, un po' per noia, ho lasciato passare undici mesi. Sono servite le dovute precauzioni, la giusta distanza, a farmi prendere a cuore quest'altro avvocato delle cause perse, questo Marcus fattosi di carne e ossa? La sua educazione sentimentale, la sua silenziosa ribellione nei primi anni Cinquanta, passa attraverso le tappe che ricordavo: l'interrogarsi sulla vita sessuale della ragazza con cui esce; gli insospettabili genitori che pensano al divorzio; l'opporsi strenuamente alla guerra e a Dio. Marcus ci crede: si impunta, fino a farsi venire i travasi di bile; fino a una tragedia tutt'altro che annunciata. Tutto accade dietro la scrivania del superbo Tracy Letts, o a colloquio al capezzale del protagonista. Al cinema, Indignazione sembra già vecchio. Sarà la fedeltà filologica, per una volta eccessiva, verso un coming of age che ha la maleducazione dei vent'anni e la velocità del racconto; sarà una sceneggiatura elegante e misurata, emotivamente lontana, che non si getta mai a capofitto nel travaglio interiore di lui; sarà che risulta più pesante, più teatrale, più sconfitto. Lo accompagnano le scale al pianoforte, la fotografia patinata, le fattezze rassicuranti di due protagonisti eppure bravissimi – la fragile e fatale Sarah Gadon e un Logan Lerman, dopo Noi siamo infinito, che torna a interpretare con convinzione un altro dei personaggi del mio cuore di lettore. Roth bolle e sbolle. Esplode di rabbia repressa. La regia di Schamus, invece, ha il grande difetto di risultare impersonale: imperdonabile con un protagonista di tale levatura. Che alza sempre la voce, che sa come farsi notare. Per Marcus, inevitabilmente, tutto va come deve andare. Ma questa lentezza, questa flemma, questa vaga leziosità, con l'indignazione del titolo purtroppo poco hanno a che fare. (6)

Universitaria ai vertici di una sorellanza viene assassinata la sera del suo compleanno. Il maniaco omicida indossava la maschera di un bebè e non si svelava guardandola morire. Chi c'era dall'altra parte? Chi voleva il male, ma soprattutto il bene, di un'aspirante Mean Girl con più rivali che compagni? Jessica Rothe, una Lively meno clamorosamente bella, ha tutto il tempo per farsi domande, esami di coscienza e scartabellare la nutrita lista dei sospettati. L'ultimo giorno della sua vita, in realtà, è il primo di un loop temporale in cui si agonizza e ci si risveglia dal nuovo, con un corpo che va indebolendosi e una mente che non dimentica. Come nella commedia cult con Bill Murray, si ricomincia da capo. Come nel già non memorabile Prima di domani, di cui Auguri per la tua morte sembra la riscrittura in chiave sanguinosa ma non troppo, una ragazza superficiale è costretta a guardarsi dentro, a mettersi in discussione come amica, figlia e fidanzata, prima di essere pugnalata per l'ennesima volta. L'ultima? Commedia (poco) slasher dal regista del delizioso Manuale scout per l'apocalisse zombie, Auguri per la tua morte è un horror innocuo e già visto, a cui avremmo potuto trovare giustificazione giusto nella penuria dell'estate. In ritardo per Halloween, invece, con un serial killer semiserio che scimmiotta Scream e La bambola assassina, è un incubo dalla morale facile e dall'esito scontato, che diverte meno del previsto e di certo non sorprende. Spegniamo in fretta candeline e luci sull'ennesimo prodotto mordi e fuggi, pronto all'uso, che riempie le pance con le tentazioni passeggere dei dolcetti preconfezionati. (5,5)

Cercasi domestica, diceva l'annuncio sulla bacheca di un alimentari della Nuova Scozia. Nessuno, eppure, si capacita di come Maud sia finita sotto lo stesso tetto di Everett, maleducato pescatore ben lontano dal ravvedersi in nome della vita insieme. La protagonista – sola al mondo, piccola e artritica – non ha il physique du role. Né per essere una buona tuttofare né per improvvisarsi, come insinuano i conoscenti maliziosi, una schiava d'amore. Il delicatissimo biopic irlandese che porta il nome della donna racconta di come le sue mani nodose non le impedirono di riempire quella casetta condivisa con disegni di fiori, uccelli e fate, dal pavimento fino al soffitto. Di uno strano ménage domestico che prima si fece amicizia, poi strano amore. E di come il sentirsi amata, degna di fiducia, la rese un'illustratrice richiesta perfino da Nixon. Maud Lewis, artista a me finora sconosciuta, aveva la mente di una bambina, la maledizione di un corpo deforme e un marito burbero, incapace di buone maniere ma non di una certa pazienza, che zitto zitto vedeva il mondo con i suoi stessi colori. Se a Ethan Hawke donano le camicie grezze e le tenerezze farfugliate come fossero insulti, a commuovere e a impressionare è la straordinaria Sally Hawkins, scomparsa dietro i tic e i sorrisi dolorosi del suo personaggio: non tocca aspettare The Shape of Water per assistere alla sua consacrazione. Ballano schiacciandosi la punta delle scarpe. Vendono stampe sull'uscio di casa. Invecchiano, e diventano marito e moglie, in maniera impercettibile. Sono, come dice Everett, un paio male assortito di calzini: scuro e sbrindellato lui, sgargiante lei. Fa sinceramente piacere ritrovarli riposti nello stesso cassetto. Nello stesso film lieve, ad acquerello, che in un pomeriggio di pioggia, con il gatto e il plaid sulle ginocchia, una tazza di tè accanto, te li fa conoscere (soprattutto, te li fa piangere) per la prima e ultima volta. (7,5)

Per ironia della sorte porta un nome augurale. Eppure, mamma single che si arrangia come parrucchiera in attesa che si realizzi il sogno di aprire un istituto di bellezza, Fortunata tale non è. La vediamo ancheggiare nella sua minigonna di jeans, correre a perdifiato sulle zeppe scomode, come se avesse sempre fretta; come se inseguisse chissà che. I numeri vincenti della lotteria, i capricci delle spose di borgata e degli altri inquilini, l'amore di un Accorsi che si merita la nostra antipatia. Jasmine Trinca, meritatamente premiata a Cannes, si sbraccia, strilla, si spoglia e si riveste, in un dramma – non sprovvisto di una certa ironia di fondo – in cui c'è troppo in ballo. L'ultimo film di Castellitto, tratto da un racconto inedito dell'immancabile Mazzantini, la ribattezza e la plasma: la tinta per capelli, la volgarità dell'accento romano, due ali a metà tatuate sulla schiena. La bravura della Trinca non si perde nella sovrabbondanza di temi e tragedie, nelle piazze di una Roma grezza e multiculturale, nella folla di comprimari che si trascinano storie pesanti appresso – un plauso all'intensità di Alessandro Borghi, sensibile tatuatore della porta accanto con mamma smemorata al seguito. Dopo il buon equilibrio del precedente Nessuno si salva da solo, che per impostazione e dialoghi faceva il verso al dramma da camera, Castellitto ci riprova con una vicenda che non riesce ad arginare, e forse neanche vorrebbe. La scrittura fiume della moglie scrittrice non sa contenersi. Colpa di toni che vorrebbero virare al lirismo grottesco di Sorrentino; di interpreti tutti bravi e tutti sguaiati; di una regia che non lavora purtroppo a togliere, bensì a mettere. E più che generoso, di cuore, Fortunata appare così esagerato. Meno a sua agio coi bagagli pesanti e l'equilibrio mantenuto pur se in bilico di una donna che, al contrario del film stesso, si fa bastare con un sorriso stanco il poco che ha. (6,5)

Eli – trent'anni, un marito disoccupato, quattro figli – esce di casa quando fuori è ancora notte. Scivola dal letto senza far rumore e macina chilometri da Ostia a Roma per tirare su la saracinesca del bar in cui lavora per ottocento euro al mese, sette giorni su sette, come cameriera, cuoca e donna delle pulizie. Vale, sua coetanea, conduce invece una vita indipendente e solitaria che suscita vergogna nella madre alto-borghese: agile come una perfetta étoile, calca però le piste dei locali notturni. Eli e Vale sono vicine di casa. Amiche, diremmo, se non fosse che la prima esce quando l'altra rincasa. L'ultimo dramma di Daniele Vicari racconta gli spossanti viavai, il loro incrociarsi quando capita, con la voce asciutta ma partecipe del cinema di Loach e dei Dardenne. Le accompagnano una bella colonna sonora jazz, le sfarfallanti luci notturne e più di qualche dubbio verso la struttura, se la storia dell'androgina Eva Grieco appare quasi incidentale, sempre all'ombra della meraviglia di una Ragonese che non ha nulla da invidiare alla Marion Cotillard di Due giorni, una notte. In una scena, arriva la canzone di Valeria Rossi: così leggera, così spensierata, in un film pesantissimo, eppure, che scava rughe di preoccupazione in mezzo agli occhi. Il cuore si affanna e cerca riposo. Il sole ci si scorda che faccia abbia, al chiuso, tra le chiacchiere querule di un bar e le luci al neon di una discoteca. L'amore è quello verso una famiglia che chiede un po' troppo, per un Francesco Montanari che ci aiuta arrangiandosi, ma a mancare è quello più necessario, per se stessi. Quanto male mi ha fatto Sole cuore amore. Gli ingredienti di una banale canzonetta amata dai bambini. Gli ingredienti di una vita banale, che in due ore con Vicari finisci per scambiare per verità. E ti domandi che senso abbia tutto questo correre e sacrificarsi, e per cosa poi? E ti confonde l'idea che sia inutile tutto il dolore in cui indugia – vivere è difficile, soprattutto in questi tempi disperati, e lo sappiamo già, chi più e chi meno – ma che allo stesso tempo siano un dolore, un'amarezza, che van provate. Ti fai venire i sudori freddi, perché al contrario di Eli – a modo, vitale, educata – tu in certi giorni non conosci decoro. Appunti i segreti dei suoi sorrisi perciò: sinceri, nonostante tutto. Aspetti che il lorogorio di una vita in nero, sempre in moto eppure ferma immobile, faccia il suo corso. Una routine a tempo indeterminato in cui domani è un altro giorno, sì, però scritto con i migliori auspici e il copia-incolla. (7,5)

giovedì 16 novembre 2017

Recensione: Una questione privata, di Beppe Fenoglio

| Una questione privata, di Beppe Fenoglio. Einaudi, € 12, pp. 192 |

Al liceo, di malavoglia, imparavo a memoria i versi dell'Orlando Furioso. Le donne, i cavalieri, l'arme e gli amori, le audaci imprese. Di Ariosto, anni dopo, ricordo l'avventura di Astolfo sulla luna ben più delle passioni della contesissima Angelica. In sella all'ippogrifo del mito, il cavaliere volava in cerca dell'ingegno che l'amico Orlando aveva smarrito: racchiuso in un'ampolla e della stessa consistenza di un liquido sottile e scivoloso. Facile lasciarselo sfuggire dalle mani, dalla testa, se pazzi d'amore e di gelosia. All'università, anche se per vie traverse, sono arrivato a leggere il romanzo postumo di Beppe Fenoglio – in questi giorni, potreste incrociare il titolo su un poster del vostro multisala di fiducia: è diventato un film dei Fratelli Taviani, con Luca Marinelli per protagonista. Come il paladino di Carlo Magno, anche Milton ha perso la testa. Vive una doppia guerra, combattuta dentro e fuori se stesso. Vaga senza meta da una parte all'altra di quelle Langhe cupe, sotto assedio, di una storia breve e appassionata mossa da violente forze centripete. Galeotti, ora come allora, una ragazza impossibile e un rivale inatteso.

E cose allegre non ne traduci mai?” “Mai”. “E perchè?” “Nemmeno mi vengono sott'occhio. Credo che scappino da me, le cose allegre.”

Probabilmente però, figlio di un macellaio di paese e accanito lettore di letteratura americana, Fenoglio – come il suo protagonista, partigiano nel 1943 – ai sospiri e alle rime del ciclo carolingio non dovette pensare mai. Una questione privata, incompiuto e parzialmente autobiografico, è il racconto di un'ossessione che fa infangare le suole degli stivali e impazzire l'ago della bussola. Si inizia e si finisce con i piedi in moto, un ritmo marziale, e la nebbia. Quella che si posa come un drappo pesante e confonde i percorsi, le intenzioni, i contorni. La guerra, vissuta in prima persona, non è soltanto fuoco e rumore, ma disorientamento. La violenza – dei sentimenti, dei gesti – ti fa brancolare. Ti travia. C'è la nebbia, sì, quando Milton indugia all'ingresso della villa di Fulvia. Lui di una bellezza spiacevole, malinconica, con un talento per la scrittura e le lingue straniere, due occhi assolutamente spiazzanti e troppo in comune con me. Lei, irresistibile civetta con i vestiti leggeri, una sigaretta tra le labbra e infiniti balli sulle note della Garland. Tra loro c'era Giorgio, aitante figlio di papà contro cui Milton nulla ha mai potuto: perché suo unico e migliore amico, perché sconfitto in partenza.

Io non sopporto più di non ballare mai con te.

Il conflitto interrompe il loro triangolo. La resistenza e una domestica con la lingua lunga portano poi dubbi su dubbi. Dov'è adesso Fulvia? Lei e Giorgio, soprattutto, si sono amati per tutto il tempo alle sue spalle? Ha inizio, così, una ricerca che minaccia di interrompersi con la notizia che l'amico dal pigiama di seta – ora, ufficialmente rivale – è caduto in mano ai fascisti. Milton non si arrende, invece, e parte da qui. I suoi compagni non sanno che non è questione di eroismo, bensì di cuore. Sempre in allerta, tra calorosi gesti d'ospitalità e il cameratismo con commilitoni con cui scambiarsi soprannomi e aneddoti, Fenoglio e il suo Milton abbandonano il lirismo dei primi due capitoli per un prosieguo meno godibile, secco e quasi spionistico, con il bellissimo contrappunto della gelosia di lui tra le righe. Gli altri personaggi, mai presenti in scena se non attraverso il ricordo, accompagnano l'affannarsi solitario e disperato del partigiano.

Sono sempre lo stesso, Fulvia. Ho fatto tanto, ho camminato tanto... Sono scappato e ho inseguito. Mi sono sentito vivo come non mai e mi son visto morto. Ho riso e ho pianto. Ho ucciso un uomo, a caldo. Ne ho visti uccidere, a freddo, moltissimi. Ma io sono sempre lo stesso.

In Una questione privata, per fortuna, si parla più del cuore che del fucile, nonostante la frenesia e la crudeltà prendano il sopravvento in un finale misterioso che finale non è. Per me, eppure, è perfetto così. L'anti-eroe dello scrittore piemontese cerca un ostaggio per fare a cambio con Giorgio. Un senso all'amore suo e alla guerra degli altri. Cerca in lungo e in largo, bagnandosi nella pioggia e rotolando sui fianchi delle colline, per il gusto di continuare a correre e cercare ancora. Per la paura di morire fermandosi. Di scomparire al levarsi di una foschia densa, imperitura, costante, in cui si trattiene il respiro peggio che sotto il fuoco incrociato della trincea. E forse trova tutto, Giorgio e Fulvia, un senso e il ristoro, il coraggio di frenare finalmente la sua corsa, da qualche parte oltre la nebbia. Da qualche parte, oltre l'arcobaleno.
Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Fabrizio De Andrè - La canzone dell'amore perduto

martedì 14 novembre 2017

Recensione: Ci vediamo un giorno di questi, di Federica Bosco

|Ci vediamo un giorno di questi, di Federica Bosco. Garzanti, € 16,90, pp. 310 |

A volte, basta tanto così a far scattare la scintilla. Uno scambio di merende a rincreazione, ad esempio: vorresti questi biscotti biologici in cambio di un morso del tuo panino al prosciutto? La riservata Ludovica non sa dire di no alla sfacciata esuberanza di Caterina, l'unica bambina a scuola che sembra accorgersi di lei. Al suono della campanella sono già migliori amiche. Lo saranno per tutta la vita che resta, nella buona e nella cattiva sorte.
A volte, basta tanto così per scoprirsi soddisfatti, dopo letture intense, impegnative o semplicemente deludenti: la freschezza di quella Federica Bosco, ad esempio, che prima o poi mi toccava proprio conoscere. Volevo la leggerezza e, senza troppa sorpresa, ho trovato qualcos'altro: qualcosa di più. Lo scrivevano in rete gli affezionati di un'autrice con la quale, tra cinema e televisione, saghe per ragazzi e chick lit, è impossibile stare al passo. Quest'anno mi ha aspettato in fondo al molo della copertina. Con qualche nuvola all'orizzonte, il mare come una tavola e una storia adulta, su una forma d'amore che non aveva ancora raccontato. Perché l'amicizia tra Cate e Ludo, sì, sempre amore è. E, come ogni amore che si rispetti, ha i suoi alti e bassi, le sue gelosie, i suoi conflitti di interessi.

L'amore di chi ti sta accanto non ti guida mai nella direzione sbagliata.

La prima, mamma single che non ha mai dato spiegazioni sull'identità del padre di suo figlio, salta nel vuoto per atterrare agilmente in piedi: ha sprezzo del pericolo e un'attività – un centro olistico nel cuore di Genova – che, alla faccia degli scettici, non conosce crisi. La seconda tira invece a campare come se non avesse più scelta: un lavoro in banca noiosissimo, la relazione abitudinaria con il possessivo Paolo, i pochi bagagli a mano di chi ha paura di costruirsi un futuro e quindi vive giorno per giorno, un passo dopo l'altro. Quanto ha sacrificato per seguire Cate sulle montagne russe, e quanto dovrà sacrificare ancora? Quanto pesa il dubbio che la loro invidiata affinità elettiva l'abbia fatta vivere nell'ombra, appesa alle scelte volubili dell'altra? Ci si ritrova a tavola però, in cene popolose e colorate a festa come in un film di Ozpetek, e tutto passa. Forse, anche la tempesta che tra le pagine minaccia di separarle. A quarant'anni, la protagonista dovrà contare sul suo solo senso dell'orientamento: imparare a nuotare dove non si tocca, e a portare in salvo anche una Caterina che d'un tratto non sembra più così inarrestabile. Si passa attraverso le gravidanze, i matrimoni, la malattia e la violenza domestica, i biglietti aerei in missione dall'altra parte del mondo. Si pensa finalmente a sé stessi, anche se un deus ex machina – un'amica che è un architetto di felicità e buone intenzioni – pianifica disastrosi incontri su Tinder, lasciti scaramantici e case per cagnetti disabili.

Perché il cuore è sempre un ingenuo idiota, che crede che gli altri ti ameranno sempre anche se non ti hanno mai amato, che gli altri soffrano per te anche se non hanno mai sofferto, e soprattutto che chi ti ha fatto male non si rifarà mai e poi mai una vita, ma continuerà a scontare un'eterna fila di delusioni a catena come fossero una maledizione, finendo per rimpiangerti.
Ma questo non succede mai. Vanno tutti avanti proprio come vai avanti tu.

La Bosco ha una parola buona per tutti, infischiandosene del rischio di risultare banale. Frizzante e propositiva, non si piange addosso. Coi suoi alti e bassi, i suoi grandi momenti di sincerità e qualche esagerazione di troppo, ma un bene – il calore in pancia, in petto – che per fortuna ha la meglio sui difetti sparsi. Ci vediamo un giorno di questi è una commedia degli equivoci (e quanti ce ne riserva, quella bastarda impenitente della vita) che fa bene anche facendo male. Un album di ricordi lungo, vario, pieno zeppo, che non sbiadisce in fretta. Si riconoscono a colpo d'occhio i soggetti principali, infatti, e saranno sempre i soliti due. La mora e la rossa, quella istintiva e quella flemmativa: amiche, sorelle, contro l'inerzia e i rovesci di fortuna. Mi hanno ricordato Toni Collette e Drew Barrymore nel buffo e struggente Miss You Already, che sbronze e terrorizzate cantavano abbracciate i R.E.M. Capisci subito perché si vogliono tanto bene. Alla fine gliene ho voluto anch'io, in un anno in cui sto imparando ad aprirmi, a fidarmi. In cui, da solitario cronico, sto capendo che non poteva mancarmi quello che non avevo mai conosciuto. Ora mi manca.
Federica, ci rivediamo un giorno di questi: presto. Ora potresti mancarmi anche tu.
Il mio voto: ★★½
Il mio consiglio musicale: Levante – Abbi cura di te

domenica 12 novembre 2017

Recensione: La natura della grazia, di William Kent Krueger

| La natura della grazia, di William Kent Krueger. Neri Pozza, € 18, pp. 350 |

L'estate mi manca. Mi lamentavo, eppure, del sole che bussava alle finestre e della calma piatta del mare. Me ne accorgo adesso: con le nostalgie che pesano e cieli grigi che mi vogliono prigioniero di una casa da cui scappo, ogni tanto, a passeggio proprio sul bagnasciuga sporco e desolato dell'inverno. Ecco il desiderio fuori stagione di un portico all'ombra, di una limonata fresca, delle notti illuminate a giorno dai fuochi artificiali.
Mi manca essere un ragazzino. Non vedevo l'ora di crescere, eppure, perché qualche giorno fa mia mamma mi ha ricordato al telefono che, tanto, sono sempre stato un bambino grande: al corpo toccava solo adeguarsi a pensieri e preoccupazioni già adulte. Ecco il bisogno di ritornare con una macchina del tempo, con un romanzo che aspettavo senza neanche saperlo, alla curiosità e alla spensieratezza della prima adolescenza. Ho avuto la mia lunga estate crudele e tredici anni esatti in compagnia dell'indimenticabile famiglia Drum. Ho scoperto, accanto ai giovani protagonisti, la morte, la collera e i miracoli del perdono.

Mi mancherà, come mi mancherebbero i pettirossi se non tornassero mai più.

Siamo nel 1961. Il telefono squilla nel cuore della notte. Lo sentite? I piccoli di casa, Frank e il balbuziente Jake, drizzano le orecchie e mettono le scarpe in fretta e furia. Si interessano agli incarichi del capofamiglia, ai grattacapi che puntualmente saltano fuori, come se fossero due apprendisti detective. Ubriachi molesti, un loro coetaneo travolto dal treno in corsa, tentati suicidi e nella peggiore delle notti, a metà romanzo, la notizia di un assassinio che li tocca e li spezza. Li obbliga a crescere in tre mesi scarsi. Il loro papà, Nathan, ispira in paese la stessa reverenza dei militari – la Seconda guerra mondiale lo ha infatti cambiato per sempre – ma è un pastore battista, non un agente di polizia. Lo si scomoda, a letto, per qualche pecorella smarrita da riportare d'urgenza all'ovile; per un consulto veloce sulla bontà di un Dio di cui è cosa umana dubitare. Gli borbotta accanto Ruth, la moglie: donna bellissima e infelice, con una voce d'angelo e sogni di gloria sacrificati in nome della vita frugale ma decorosa scelta dal padre dei suoi figli. Rincasa tardi e di nascoso, invece, la promettente Ariel: adolescente che pensa all'amore romantico e alla Juilliard, ignorando la curiosità dei fratelli minori ancora in piedi e la freddezza fra i genitori.
Come in Grandi speranze, uno dei miei romanzi preferiti, c'è un ricercato in fuga e una famiglia sfortunata – i Brandt come gli Havisham – il cui patriarca è un virtuoso del pianoforte, condannato alla cecità e alla compagnia della sorella sordomuta. Come nel Buio oltre la siepe, protagonisti innocenti vengono a patti con i sospetti del razzismo – nell'occhio del ciclone, un misterioso Sioux capitato nel posto sbagliato al momento sbagliato. Come in Mystic River, e voglio sottolineare l'entusiasmo dello stesso Dennis Lehane in copertina, c'è un fiume che a volte dà la morte, altre la libertà. William Kent Krueger ricorda tanto, tanto altro (aggiungeteci il bullismo e l'amicizia del miglior Stephen King, i problemi in paradiso di Benedizione), ma in questa giostra di echi e omaggi non smarrisce chissà in che modo lo stile, la magia, la bellezza.

Quell'estate la morte venne a visitarci assumendo molte forme: incidente, malattia, suicidio, omicidio... Si può pensare che la ricordi come un'estate funesta, ed è proprio così, ma non del tutto. Mio padre citava Eschilo: colui che apprende deve soffrire, e persino nel sonno il dolore, che non piò dimenticare, cade goccia a goccia sul cuore, finché, nella nostra stessa disperazione, contro la nostra volontà, giunge la saggezza attraverso la terribile grazia di Dio.

La natura della grazia non è il solito amarcord. E di grazia ne è ricco, sì, benché abbia i colori foschi del thriller; gli strappi dolorosi di certe infanzie negate, di certi sogni infranti. I toni: quelli ispirati e solenni di chi è sopravvissuto al peggio, ed è grato per un altro giorno al mondo, la giustizia che fa finalmente il suo corso, il ritorno del senso di Dio. Raccontato dalla voce rotta ed emozionante di un Frank ormai uomo, il romanzo è una conta struggente dei vivi e dei morti, dei ricordi belli e brutti. Una passeggiata all'ombra dei tigli, una corsa proibita sulle rotaie, con atmosfere d'altri tempi e amici che impari a chiamare uno a uno per nome. A tredici anni, in estati così, tormentate da scoperte e colpe criminose, si rischia di perdersi. Seguire le briciole di pane e il disegno dei binari, la meraviglia a ogni passo, per fortuna riporta sulla via di casa. Al fresco dei portici e delle limonate. Alle notti che poi passano.
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Jeff Buckley - Grace 

venerdì 10 novembre 2017

I ♥ Telefilm: Alias Grace | The Booth at the End

Grace ha violato il quinto comandamento. Ha ucciso. Condannata all'ergastolo, ha evitato l'impiccagione per il beneficio del dubbio. Immigrata irlandese poco più che adolescente, avrebbe massacrato i padroni di casa con la complicità di un garzone. Un giovane psichiatra, quindici anni dopo, la interroga. La verità sfugge. La protagonista taglia e cuce, inventa e soggioga, si difende con parole studiatissime, lo seduce. Con il suo viso angelico, coi suoi misteri insolvibili, diventa un'ossessione. Sarà innocente o colpevole? O l'una e l'altra cosa, se scrive Margaret Atwood, sceneggia Sarah Pauley, dirige Mary Harron e le piccole sfumature, sì, contano? Period drama in sei puntate, senza particolari guizzi ma con un cuore bugiardo fino all'ultimo, Alias Grace inquieta e confonde. Ha i suoi difetti in qualche svolta soap di troppo – il prevedibile transfert vissuto da un imbambolato Edward Holcroft, eppure intenso amante di Ben Whishaw in London Spy, o il doppio ruolo del furfante Zachary Levi – e in un epilogo accelerato, dopo qualche episodio a metà scorso invece a rilento. Ispirata a una storia vera ma con una fortissima matrice letteraria alla base, la miniserie della regista di American Psycho si muove sul filo. La coerenza, sacrificata per fedeltà assoluta a una protagonista manipolatrice: Sarah Gadon, assassina impenetrabile e incantevole. Paranormale, follia, o forse semplice menzogna? E quel finale ambiguo, che svela e non svela: sospeso o inconcludente? Gli sguardi in camera che tanto mi avrebbero fatto dannare l'anima in un'ora e trenta, i puntini di sospensione, a lungo hanno invece finito per infastidirmi. A volte, soprattutto in un tocco femminile impossibile da fraintendere, Alias Grace somiglia alla Maurier di My Cousin Rachel: una caccia alle streghe guidata dal pregiudizio dei tempi, dalla misoginia, in cui l'essere donne era il vero crimine da scontare. Altre a un Gone Girl in costume, in cui a una protagonista messa con le spalle al muro spetta l'ultima parola. Altre ancora, e lì non convince chi come me non apprezza il genere, a un feuilleton che sacrifica il dramma giudiziario, la seduzione del doppio gioco, in nome di una classica storia di orfane sfortunate e grandi soprusi. Di The Handmaid's Tale, inevitabile metro di paragone, mancano purtroppo la sorpresa, lo spessore, la doppiezza. E dalla penna della Atwood – per un soffio, mancato premio Nobel – quest'anno ci si aspettava l'impossibile en plein. (6)

Siede nell'angolo più estremo di una tavola calda. L'uomo, un affascinante cinquantenne con la giacca elegante e il taccuino sempre aperto, non abbandona il suo posto fino all'orario di chiusura. In un bar ai confini della realtà,  il protagonista fa accomodare davanti a sé interlocutori innumerevoli. Presta ascolto, prende nota. Ci sono uomini e donne, anziani e perfino qualche bambino. Ognuno brama disperatamente qualcosa. Una famiglia unita, la bellezza, l'eterna giovinezza, il denaro, l'amore, Dio. L'uomo senza nome, che ha le premure di un analista e i poteri del genio della lampada, può esaudire le loro richieste in cambio di un prezzo salatissimo. Ci si vende l'anima con il furto a mano armata, le stragi in piazza, l'infanticidio, la tortura, il concepimento di un figlio indesiderato, la corruzione da cui non sono esenti né gli agenti di polizia né le spose di Cristo. Mi ha dato il suo biglietto da visita Paolo Genovese: forse a corto di buone idee dopo il successo del magnifico Perfetti Sconosciuti, forse sinceramente interessato a farci riscoprire una piccola serie dal grande potenziale. Le due stagioni di The Booth at the End – in totale, dieci episodi di venti minuti ciascuno – spaventano con i loro spunti faustiani, degni delle ispirazioni di Black Mirror, ma si trasformano in qualcosa di impercettibilmente diverso pur non tradendo l'originalità del menù. Restano il leggero umorismo nero e i dilemmi etici. Il meglio e il peggio degli avventori rievocato a voce, se non ci si può allontanare da quello scenario fisso. A cavallo di una stagione e l'altra, invece, le costanti sono questa misteriosa cameriera che sa molto più di quanto crediamo; una ragazza riportata in vita dall'egoismo del padre in lutto; lo straordinario Xander Berkeley, forse un diavolo spregevole o forse la personificazione del nostro angelo custode, che rischia di rimanere a tal punto invischiato nei drammi mortali da non poter più rinunciare alla loro compagnia. E da scoprire bricioli di mortalità, di moralità, perfino in sé stesso. The Booth at the End ha richieste tremende e una delicatezza conciliante. L'uomo spinge i suoi clienti l'uno tra le braccia dell'altro con incastri perfetti, per combattere la solitudine e l'infelicità. A volte si incontrano, trovano il lieto fine. Altre cozzano, collidono, in tragedie agghiaccianti già predette e scritte sul suo fedele quadernino. Qualcuno, in una tavola calda qualsiasi, ha il potere di esaudire i tuoi peggiori desideri. Ti spinge al limite, ti ascolta arrabbiarti per quello che non hai. Nel mentre – proprio quando progetti ordigni esplosivi, rapimenti, cuori spezzati, remake italiani – ti ravvedi, magari, e ti accorgi del bicchiere mezzo pieno; di ciò che hai già. (7,5)

mercoledì 8 novembre 2017

Pillole di recensioni: Il cacciatore di sogni (Sara Rattaro) | Mangiare la paura (Antonio Ferrara)

Titolo: Il cacciatore di sogni
Autrice: Sara Rattaro
Editore: Mondadori
Numero di pagine: 173
Prezzo: € 15,00
Il mio voto: ★★
A Sara Rattaro, autrice scoperta e apprezzata più di qualche anno fa, ho rimproverato negli ultimi romanzi – storie al femminile, solitamente, con cuori messi a nudo e sentimenti intensi – il troppo indugiare sugli stessi temi, negli stessi dolori. Esisteva una Sara leggera, serena, diversa? Dopo L'amore addosso, piaciuto ma con moderazione, l'autrice torna a distanza di qualche mese con l'inatteso Il cacciatore di sogni. Un romanzo diverso, finalmente, perché pensato per un pubblico di ragazzi. La biologa abile con i casi di coscienza e i drammi, con la complessità della natura umana, racconta partendo da uno spunto semplicissimo il suo primo amore: la scienza. Chi era Albert Bruce Sabin, e quanto gli dobbiamo? Quale sorpresa poteva trovare su un aereo in volo un adolescente dei primi anni Ottanta, se infortunato e con passeggeri interessati unicamente alla presenza del Pibe de oro a bordo? Luca, di ritorno da Barcellona con mamma e dispotico fratello maggiore, ha il sogno del pianoforte, un braccio rotto e un vicino di posto d'eccezione. L'uomo, barbuto come Babbo Natale, racconta e si racconta. Le proprie origini ebraiche, la fuga negli Stati Uniti, lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale e il desiderio di vincere la morte – nella New York raccontata da Philip Roth in Nemesi, la poliomelite causava infatti più stermini del conflitto a fuoco. Ho saputo di più sul padre del vaccino, mi sono confrontato con la Rattaro inedita in cui confidavo da un po', ma Il cacciatore di sogni – brevissimo, anche se impreziosito qui e lì da belle illustrazioni – è un romanzo che non fa sognare. Divulgativo, sintetico, agiografico. L'effetto Wikipedia: sfiorato, ma vinto dai parallelismi tra le infanzie lontante di Luca e Albert, e da pagine più ispirate, in corsivo, collocate in apertura e in chiusura. Ai tempi del giornalino scolastico avevamo questa rubrica intitolata "Intervista impossibile". Il confronto a quattr'occhi con il medico polacco somiglia troppo a quel timido esperimento di un liceale che ora chiacchierava con Dante, ora con William Shakespeare. Non sa uscire dall'omaggio, per quanto importante e sentito. Non sa allontanarsi dal confine limitante dei banchi di scuola.

Titolo: Mangiare la paura
Autore: Antonio Ferrara
Editore: Il battello a vapore – Vortici
Numero di pagine: 144
Prezzo: € 12,00
Il mio voto: ★★½
Irfan, tredici anni, viene allevato per diventare un martire della fede. Per lasciarsi morire a comando e distruggere i nemici dell'Islam col fragore di una detonazione. Prega, studia, cucina, guida. Ultimo di tre figli, con una mamma cagionevole e un nonno che ha perso la voglia di raccontare favole, alla scuola coranica sperava di imbrogliare la povertà. Trova invece percosse, violenze fisiche e psicologiche, e un'idea di religione diversa da quella che gli hanno spiegato in famiglia. Dove Allah non voleva il male di nessuno, non di certo l'odio che i suoi maestri gli insegnano quotidianamente a suon di scudisciate: piegando, così, la religione a loro uso e consumo. Ci sono personaggi che scappano da una guerra all'altra, nel romanzo di Antonio Ferrara, e tutto appare loro come un gioco pericoloso. Una routine fatta di versetti e di levatacce faticose, una porta serrata da cinque lucchetti che nessuno dovrebbe aprire. Farsi esplodere procura gloria, centomila rupie e un biglietto di sola andata per il Paradiso. La tragica educazione del protagonista ha lo stile stringato e lapidario di un mantra, di chi tenta disperatamente di autoconvincersi di una cosa sbagliata. Simula la naturalezza del parlato rinunciando al lirismo, o banalizza forse troppo? Ferrara non fa male quanto dovrebbe. In Mangiare la paura c'è il tema, infatti, ma non il resto: una scrittura che sia all'altezza. L'idea perde così la sua importanza, la sua potenza, a causa di un approccio semplicistico e di pagine inconsistenti. Più che il romanzo di un ragazzo kamikaze, sembra il suo compito per casa; un tema. Bastano le buone intenzioni, mi domando, per cambiare il mondo di Irfan? Bastano, soprattutto, per scrivere un buon libro per ragazzi?