lunedì 30 ottobre 2017

Recensione: La lotteria, di Shirley Jackson

| La lotteria, di Shirley Jackson. Adelphi, € 10, pp. 82 |

Giugno significa lotteria, e lotteria significa l'intero paese radunato in piazza con il fiato sospeso per l'estrazione finale. I bambini giocano coi sassi, le bambine si stringono pudiche alle sottane delle mamme, gli adulti parlottano scambiandosi ricordi e aneddoti sulle origini di quel rito diventato ormai tradizione irrinunciabile. Cosa si vince, se la (mala) sorte è dalla tua? Soprattutto, cosa si perde?
Una donna si fa bella il giorno delle nozze. Va verso i quaranta e, non più fresca come in gioventù, si preoccupa maniacalmente del trucco e dell'abito giusto. Tutto è pronto, ma manca lo sposo. Gli lascia un biglietto in cucina, semmai non dovesse trovarla a casa rientrando, e si mette in cerca. Un uomo alto e biondo, con un completo blu da scrittore e un mazzolino di crisantemi in mano. Qualcuno l'ha visto? Dov'è, chi è?
Un medico apre il suo studio a una paziente sull'orlo di una crisi di nervi. Agitata, mette in discussione il suo matrimonio, una società bella che votata alla spersonalizzazione e la realtà stessa. Il medico presta ascolto, serio. Chi aveva bisogno di un consulto più urgente: la donna, suo marito, o il dottore stesso?
Due attempate signore vanno a cena da sole, lasciando a casa i consorti. Parlano dei figli all'università e spettegolano degli altri commensali. Si godono le portate principali e l'intrattenimento in sala. Non soltanto orchestra e ballerini, ma anche un sinistro spettacolo di ventriloqui. Perché trattare un fantoccio come fosse vero?

Una volta c'era un detto, "Lotteria di giugno, spighe grosse in pugno".

Quattro racconti brevi o brevissimi per avvicinarsi al mondo misterioso e grottesco di Shirley Jackson: scomparsa presto, con pochi romanzi a carico, eppure considerata maestra di vita e scrittura dal sommo Stephen King. Apprezzarne a primo impatto lo stile inappuntabile, il senso di attesa, il modo graduale – soprattutto nei primi due racconti, i migliori: gli altri, infatti, mi sono parsi esercizi stilistici senza strascichi e bivi – in cui la trama si snoda in vista del finale. Questa conoscenza preliminare intriga, ma non soddisfa un lettore da sempre poco attratto dal formato esiguo del racconto. Non fa eccezione la Jackson, eppure esemplare come dicono i suoi eredi spirituali. I racconti contenuti in La lotteria sono sottilissimi, inspiegabili, strani. Non tornano. L'irritazione è da indirizzare alla sola Adelphi, allora. A un'edizione troppo costosa per il poco che offre, che rifiuta i preamboli e le prefazioni. Sfugge infatti il senso della silloge, che attualmente è la sola della Jackson in commercio – fuori catalogo, pare, una raccolta Mondadori molto più ricca di storie e dettagli. Come sono stati scelti questi racconti, pubblicati in momenti e luoghi diversi? Qual è la cornice pensata dai curatori? Se sgradite e simili domande incalzano per tutto il tempo, finiscono con l'intaccare l'illusione e la suggestione. Togliendo forza, purtroppo, agli interrogativi posti dalle quattro singole trame. A volte destinate a un bagno di violenza, altre un elegantissimo nulla di fatto. In cui, ancora una volta – ed è una volta di troppo, per sole ottanta pagine –, le risposte ci si negano.
Il mio voto: ★★★

venerdì 27 ottobre 2017

Mr. Ciak - Speciale Halloween: 1922, It Comes at Night, Leatherface, Annabelle 2, Berlin Syndrome

Il sommo Stephen King ha potuto soffiare sulle sue settanta candeline con la pace nel cuore. Quest'anno, l'autore horror storicamente maltrattato nel passaggio dalla carta alla pellicola è stato infatti fortunatissimo. Non soltanto un It all'altezza delle aspettative, infatti, a scacciare i prevedibili flop di The Mist e La Torre Nera. Complice Netflix, hanno gridato lunga vita al Re prima Mike Flanagan, poi questo 1922 uscito all'ombra del più pubblicizzato Pennywise. Ispirato a un racconto non di mia conoscenza, il film del promettente Zak Hilditch è la tragedia americana che forse non ci si aspetta. Un irriconoscibile Thomas Jane, uomo avido e tutto d'un pezzo, sgozza Molly Parker con la complicità del figlio adolescente. Se la moglie sognava la di città, i negozi alla moda, i protagonisti – strenuamente legati a una terra che neanche era la loro, a relazioni di buon vicinato che purtroppo non passeranno l'inverno – salvaguardano quella loro esistenza umile, dimessa, a costo della vita altrui. Il cadavere della donna di casa è lì, che si deteriora nel pozzo. Il tarlo dell'ossessione somiglia a un'orda di ratti che si riversano dagli interstizi e dalle tubature. Rosicchiano i nervi, tormentano le anime. Tutto precipita, e la violenza chiama violenza. Non se ne esce: mai. Il bene che fai porta fortuna, si dice. E il male? Dramma della coscienza lugubre e marcescente, che di horror ha soltanto i picchi della colonna sonora e le significative visioni di morte, 1922 è il King rètro che aspettavamo senza ansie. A tratti, eppure, sembra John Steinbeck. Di uomini e topi si parla, letteralmente. E della confessione senza fondo di un uxoricida messo a dura prova dagli agenti atmosferici e dal senso di colpa, in un quattro lunghe stagioni che, mentre sei impegnato a contarle, ti rubano sotto gli occhi i membri della famiglia – uno per uno – e l'illusione fantasma della prosperità. (7)

Un padre, una madre, un figlio. La minaccia del bosco e, quando il sole picchia, passeggiate con i fucili puntati. Contro un misterioso contagio che ha condotto gli Stati Uniti alla rovina, si resiste facendo affidamento alle leggi della famiglia e alle maschere anti-gas. Finché non bussa un estraneo, sano come un pesce, che propone una proficua collaborazione: si trasferisce lì con bambino e consorte. La convivenza mette a confronto due mondi, due coppie unite contro lo stesso pericolo senza nome. Come in un film di Shyamalan, tra gli alberi fruscia un male che non si svela mai. Il cane, intanto, latra. It Comes at Night, realizzato con costi ridotti e un cast esiguo (segnalo la presenza di Joel Edgerton, burbero patriarca, e Riley Keough, ospite così bella da spingere a pensieri maliziosi l'adolescente di casa), è un survival festivaliero girato in gran segreto. La critica americana parlava di Trey Edward Shults con un senso d'attesa parzialmente ingiustificato e paragoni esaltanti ma ingannevoli. Per quanto solido e ben scritto, assolutamente apprezzabile, il suo è un film senza grandi misteri, con la sintassi consueta del cinema indie e le ambientazioni di Into the Forest e Z for Zachariah – prodotti forse meno significativi, ma con gli stessi ritmi lenti, spaccati psicologici di insindacabile accuratezza e un'amarezza diffusa. Cosa succede se, in un cottage con le finestre sbarrate e le assi alla porta, in realtà è notte anche in pieno giorno? Fanno il loro ingresso il disagio, lo stare fissi sul chi va là, e non c'è arma che possa proteggerti dal sospetto dell'altro e dagli equilibri che, inevitabilmente, la novità della convivenza infrange. La paura dell'esterno li confina in un ambiente teso, claustrofobico, in cui il mostro è un loro simile. Riflessioni sparse, non troppo originali ma mirate, di un horror psicologico (o meglio, sociologico) che diventa prima campo di battaglia tra il dentro e il fuori; poi guerra civile che, in pochi metri quadri, logora e divide. (7)

Ricevere una motosega come regalo di compleanno. E, tra gli applausi e le incitazioni dei parenti, metterla in moto e rivolgerla contro il primo malcapitato. Piccoli assassini crescono, nell'ennesimo film ispirato ai mostri del compianto Tobe Hooper. Ci si guadagna, così, una scontata adolescenza in un ospedale psichiatrico, nonostante il gran scalpitare della matriarca Lili Taylor. E da quell'istituto che non disprezza l'elettroshock e le maniere forti, una notte, si scappa in tanti con un piccolo pretesto, trascinandosi dietro un'infermiera costretta suo malgrado a fidarsi del più docile tra loro. La struttura on the road e i personaggi depravati, trucidi, ricordano il primissimo Rob Zombie o Robert Rodriguez. Sulle loro tracce, gli agenti Stephen Dorff e Finn Jones – senza troppe sorprese, più selvaggi e cattivi della gang di psicopatici in libertà. C'è un interessante cambio di rotta nel momento in cui prima si invertono i ruoli di potere, poi cambiano bruscamente le preferenze dello spettatore. Gli inseguitori diventano inseguiti, o viceversa. I cattivi tenenti del profondo Texas degli anni Sessanta ci tentano, quasi, con il crimine preferito alla legge. Leatherface, film a sé sul primo amore e la cruenta adolescenza del membro più famigerato della famiglia Hewitt, è un horror dalla parte dei cattivi. Reboot trascurabile, sì, ma con la mano pesante dei registi del cult francese A l'interieur. Più europeo che americano: sporco, con sangue a fiumi, necrofilia e una trama che abbozza perfino un colpo di scena, nel tirare le conclusioni. C'è del buono, insomma, nel cattivo gusto di Alexandre Baustillo e Julien Maury. Adesso, prego, apritegli porte che non somiglino più a questa qui. (5,5)

Il prequel di uno spin-off: pessime premesse, e invece... Come il dignitosissimo Ouija 2con cui ha in comune, oltre alla cura degli interni e al fascino della ricostruzione storica, anche la presenza della piccola Lulu Wilson –, Annabelle: Creation sceglie atmosfere vintage e gli anni Cinquanta. Ci sono una casa di campagna, una famiglia addolorata per la perdita dell'unica figlia, uno spettro che utilizza il lutto e un'inquietante bambola di porcellana come canale. Ne viene fuori un horror classico, derivativo, certamente perdibile, che ha il pregio di saper cosa fare dei silenzi, dei coni d'ombra, del suo assurdo senso di attesa. Cosa si muove negli angoli bui? Perché i bambini, candidi e vulnerabili, sanno risultare eppure tanto inquietanti? Fedele alla mitologia a cui ha dato il via James Wan che qui si limita a produrre, ma presta il suo sguardo al Sandberg dell'orribile Lights Out –, il prequel gioca con lo spazio filmico e tutti i cliché del caso. Ecco le luci ballerine, i montacarichi tremolanti, le storie di fantasmi sotto le coperte, un pozzo nero in cui si rischia di essere tirati giù; le rarissime concessioni allo splatter e, nonostante la pochezza della trama, una cura che ipnotizza lo spettatore più attento alla forma che alla sostanza. Creation si prende il suo tempo. Troppo, forse, per approfondire le storie – melense, a tratti – di un gruppo di sfortunate orfane dickensiane. Troppo poco per chiudere il cerchio o colmare le falle. Fa sobbalzare, ma non spaventa. Convince ugualmente, se la paura è sopravvalutata e ci si accontenta di altro. Qualcuno, infatti, ha confezionato per Annabelle – vedasi la cura del comporto tecnico, l'eleganza degli interni, la studiata suggestione che si annida nei segreti dei campi lunghi – un gran bel pacco regalo. Scartatelo in fretta. Prima che Halloween e la voglia di accontentarsi passi in fretta. Prima che l'orrida bambola, impaziente, trovi da sé uno strappo attraverso cui tormentarvi. (6,5)

Una turista australiana con lo Reflex al collo incontra un ragazzo di quelle parti, rispettabile professore di inglese. Siamo nella stessa Germania affascinante e sgranata di quel Victoria girato d'un fiato. Berlin Syndrome, presentato in anteprima al Sundance e immancabilmente al Festival di Berlino, sembrerebbe un boy meets girl di quelli che tanto mi piacciono. Si passeggia chiacchierando, ci si conosce ingannano il poco tempo a disposizione. Teresa Palmer e Max Riemelt (sì, proprio il biondo del compianto Sense8) sono belli, bravissimi, presi. Lei sta per tornare a casa e lui, innamorato già al primo sguardo, vorrebbe che restasse. Nessuno ti potrà sentire, le sussurra al culmine della passione. Un invito ad abbandonarsi al piacere, o una minaccia? Berlin Syndrome sembrerebbe una rilettura europea, indipendente, di un'Attrazione fatale a rovescio. Riemelt la chiude in casa, la lega alla testiera del letto e, dopo un tentativo di fuga, le spappola le dita. Sembrerebbe, ancora, un rape and revange: ci sono le violenze fisiche e psicologiche, infatti, e il desiderio costante di insorgere. Il thriller di Cate Shortland è niente di tutto ciò, ma anche tutte e tre le cose insieme. Ha un occhio interessante, due ottime performance, un sociopatico dal profilo insolito – rispettato dai suoi studenti, popolare tra i colleghi, premuroso con il padre morente. Fa sì che lei abbia bisogno di lui, che diventi il suo mondo: usando ora la carota e ora il bastone, ammaestrandola. Il sesso non sembra più stupro. La cattività appare una scelta di vita. Accurato e sottile, Berlin Syndrome è però di una lentezza e una ripetitività snervanti. Una prigionia resa nel dettaglio, troppo? Difetti grandi e piccoli di una regia a lungo indecisa tra il dramma e la vendetta? (6)

mercoledì 25 ottobre 2017

Recensione: Ho taciuto, di Mathieu Menegaux

| Ho taciuto, di Mathieu Menegaux. Bompiani, € 15, pp. 144 |

Claire e Antoine hanno una bella casa nella capitale, carriere di successo e, come unico problema in paradiso, l'esasperante prigrizia degli spermatozoi di lui. Quarantenni attraenti e affiatati, hanno i loro piacevoli riti – fare l'amore di domenica mattina, ad esempio, o partire per una vacanza dell'ultimo momento senza dover dare conto a nessuno – e inviti a cena nei palazzi signorili della migliore borghesia parigina. A casa di un collega di Antoine, ci sono chiacchiere e perbenismo di troppo. Claire si congeda elegantemente, inforca la bicicletta. Imbocca un sottopasso, rivolgendo un sorriso di buona educazione a un'ombra più fitta delle altre. Che la abbranca strappandole un urlo e i jeans. Che la stupra sull'asfalto, al buio.

Ieri la mia vita era una vita a metà, una vita da fenicottero rosa, una vita su una zampa, in cui cercavo di mantenere l'equilibrio alla meno peggio, ma una vita. [...] Oggi cosa sono? Una donna violentata.

Come Isabelle Huppert in Elle, la protagonista chiama la polizia per riattaccare dopo qualche squillo appena. Si solleva da terra e se ne va. Si concede una lunga doccia. Si tiene per sé la paura di quell'aggressione che la renderebbe solo più fragile, solo più vulnerabile, agli occhi degli altri. E Claire, troppo legata alla sua idea di decoro per mostrarsi a pezzi, già in passato si è tenuta stretta i suoi segreti. Tace lo stupro. Qualche anno dopo, in attesa del verdetto della giustizia, tacerà le barbare ragioni che l'hanno condotta a una cella di massima sicurezza. Dove della sua identità non resta che un anonimo numero identificativo e una confessione di cui liberarsi entro l'alba del mattino successivo. Ho taciuto è un noir dell'anima. Un dramma giudiziario scabroso ma elegante, come soltanto i francesi sanno. Stranisce perché ha il tono delle storie vere, e al fatto che l'autore sia un esordente, lo stesso uomo fotografato nel risvolto di copertina, si fa semplicemente fatica a credere.

Leggetemi. Siete la mia ultima conversazione prima che io scompaia.

Si legge di Claire con un misto di interesse e abiezione. Ha commesso infatti il crimine più ignobile che si possa immaginare. E, tra le pagine, torna indietro. A quando era libera. A quando era innocente. A quando era lei, la vittima, e non il macellaio che fa sbizzarrire la stampa internazionale. Non fornisce alibi e non cerca giustificazioni. Non deve convincere il giudice e non può rabbonire una giuria di conservatori. Lei ha già condannato sé stessa. Il suo provante calvario, la sua affascinante tela di pensieri, contagia il lettore assieme all'incubo incancellabile di due occhi nerissimi. Claire, all'inizio dalla parte della ragione, gioca a imbrogliare gli altri, a fingersi Dio. Pecca di tracotanza nel costruire la sua personale Babele di bugie. Come Prometeo nel mito, però, ha un avvoltoio che le divora il fegato. E troppo provata, troppo suggestionata dalla violenza, smette di credere nei miracoli e nel prossimo. Il fegato a brandelli, e un cuore buio che non crede più alle schiarite.

Scavalcherò i muri di cinta senza scala, senza rampini, senza lenzuola annodate, volerò al di sopra dei fili spinati senza ali, sparirò senza trucchi, svanirò senza armi, senza odio né violenza. […] La scrittura è l'ultima stazione della mia Via crucis. Non conto di tornare il terzo giorno. Non mi rivedranno.

Corto e spregevole, il primo romanzo di Mathieu Menegaux è un racconto a sangue freddo aperto a diverse svolte shock e a pagine di impensata delicatezza (pensate, si chiude con la mia preferita delle canzoni degli Smiths). Succede poco, ma le pagine non consentono altrimenti. Non dico troppo, perciò. O comunque meno di quanto vorrei. Sembrerebbe di giudicare una pagina di diario, non un romanzo bellissimo. Gli sbagli della donna, non del personaggio fittizio. Claire non esiste, invece, e metabolizzare la consapevolezza, lo strazio, richiede tempo; i nervi che intanto ringraziano. Ho taciuto è un romanzo di cuori neri che non vogliono saperne di far riempire da cima a fondo una pagina bianca. Una macchia addosso che più provi a cancellarla, con il palmo della mano, e più ti insudicia.
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Depeche Mode - Enjoy the Silence

lunedì 23 ottobre 2017

Recensione: Tartarughe all'infinito, di John Green

| Tartarughe all'infinito, di John Green. Rizzoli, € 17,50, pp. 337 |

Paragonerei John Green a uno di quei bellissimi film indipendenti che conosci solo tu e, all'improvviso, diventano moda. Prima lo trovavi sulle bancarelle, tutto ammaccato tra le rimanenze di magazzino. Poi qualcosa cambia, ed è ovunque. Le librerie te lo lanciano appresso dagli espositori dei best-seller. E vorresti trovarlo antipatico all'improvviso, ma non puoi mica rinnegarlo. Ti ricorda le estati: quelle belle, del liceo. La leggerezza di un'adolescenza vissuta a modo tuo. L'affetto che, complici le massime e i dolori di Cercando Alaska, ci legò per un tempo che credevamo senza scadenze. Per fortuna non mi sono ricreduto negli anni. Anzi: quel Colpa delle stelle giudicato troppo cerebrale su carta, troppo freddo, al cinema mi ha regalato pianti indecorosi. Pubblicato da Rizzoli in contemporanea mondiale, l'autore americano torna trovandomi uomo. In rete, almeno dal poco che ho letto, i soliti estimatori e qualcuno convintosi durante l'ultimo tratto della via di Damasco. John porta con sé le protagoniste dagli strani nomi di battesimo (Aza Holmes, con tutto l'alfabeto nel nome e un cognome da investigatrice, è la nuova Hazel), gli hobby per pochi eletti (l'astronomia, la medicina, le fanfiction sulla vita amorosa di Chewbecca), quel filosofeggiare sui massimi sistemi frammisto a dialoghi finto sgrammaticati (non so se sia da imputare alla fretta della nostra traduzione o ai tentativi di un autore che non ha più l'età per scimmiottarci l'irritante abuso di “tipo” e aggettivi “super”, nei dialoghi fra la protagonista e la sua migliore amica).

«Mi piacciono le poesie brevi con schemi metrici strani, perché la vita è così.»
«La vita è così?» «Sì. Rima, ma non nel modo che ti aspetti.»

Sembra citare il gioiello di Chbosky, ma Tartarughe all'infinito si riferisce in realtà a un'affascinante teoria cosmologica: il mondo intero poggerebbe su un carapace. E chi sosterrà mai, a sua volta, la prima tartaruga di una pila lunga quanto la storia del nostro pianeta? Se lo domanda Aza, che ha sedici anni e vive sulla sponda sbagliata di un fiume non navigabile: il corso d'acqua, di quei gusci che affiorano, è pienissimo. Sull'altra riva svetta una villa con cinema, piscina e zoo privato. Ci vivono il coetaneo Davis e il fratellino irrequieto, in attesa che la giustizia faccia il suo corso. Il loro papà, uomo d'affari invischiato in traffici illeciti, si è volatilizzato nel cuore della notte per sfuggire all'umiliazione dell'arresto e nel suo lascito ha designato un rettile centenario come erede universale. Aza e l'inseparabile Daisy si mettono in cerca del miliardario scomparso. Un po' per una taglia che, diciamocelo, fa gola. Un po' perché la protagonista e Davis, un Richie Rich con mille responsabilità e una brutta sindrome di abbandono, condividono i ricordi di un campeggio estivo, e chissà, potrebbero scoprirsi affiatati anche adesso. Cresciuti con un solo genitore, distanti un passo, disfuzionali.

E' un'espressione strana in inglese, in love, come se l'amore fosse un mare in cui anneghi o una città in cui vivi. […] E volevo dirgli che anche se non ero mai stata in love, sapevo che cosa si prova a essere in un sentimento, non esserne solo circondata ma anche intrisa, come quando mia nonna diceva che Dio è dappertutto. Quando i miei pensieri prendevano la spirale, io ero nella spirale, e della spirale.

Tartarughe all'infinito è interamente ambientato nella testa di Aza: posto intenso, sì, ma che sa più interessare che coinvolgere. A differenza dei passati protagonisti, la sedicenne non spicca per il suo essere adorabile: ipocondriaca, instabile, egocentrica. Cosciente di ogni germe, di ogni pensiero brutto o bello, è sconvolta dalle implicazioni di un innocuo bacio alla francese e, nelle ricadute, si sente estranea perfino a se stessa. Si autoinfligge piccoli tormenti per sapere di essere una persona vera, non un insieme di circostanze esterne. Come sperare di frequentare un college lontano, con i suoi disturbi ossessivo-compulsivi? Come impedire che nel suo vortice di pensieri intrusivi – un buco nero efficacemente rappresentato dal disegno copertina – ci finisca tutto il resto? I comprimari non si imprimono, così; l'idea di venire a capo del mistero si perde nel mezzo di una girandola-cappio; il sentimento per Davis risulta troppo discreto per farti innamorare delle sorti della coppia. Tartatughe all'infinito non è consolatorio. Non è né romantico né strappalacrime, quasi a sfatare l'infondato pregiudizio. Purtroppo, non è nemmeno ben definibile. Amaro, sospeso, o forse irrisolto e basta. Con i suoi difetti, con una trama che trama non è, si muove in una stanza al buio e sbatte dappertutto, in una serie di tragicomiche, metaforiche reazioni a catena.

Tu sei il fuoco e l'acqua che lo spegne. Sei il narratore, il protagonista e la spalla. Sei chi racconta la storia e la storia raccontata. Sei il qualcosa di qualcuno, ma sei anche il tuo te.

Ci sono le turbe psichiche del Viaggio di Caden, ma senza abbandonare la terra ferma all'insegna dei mari del simbolismo. Le contraddizioni e la profondità dell'inaspettato The Edge of Seventeen, pur ispirando meno simpatia. A guidarlo, una protagonista assolutamente credibile, che ha voce in capitolo sulla cornice – per parafrasare un suo stesso pensiero – ma non sulla foto d'insieme. Il soggetto l'ha scelto l'autore. Ed è a quello, nonostante il lodevole coraggio di rischiare con una storia meno vendibile, che mancano il guizzo e l'armonia. Il giallo e la storia d'amore sono infatti un pretesto dalle pagine contate. Il nuovo John Green, diverso ma uguale, è una riflessione sulla delicata costruzione della propria identità e sulla paura, se giovanisimi, di perdere il filo nel mentre. Restando, così, per sempre a metà.
Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: P!nk – Fuckin' Perfect

sabato 21 ottobre 2017

Mr. Ciak - Speciale Halloween: It, La Babysitter, The Devil's Candy, The Monster

Il mostro sotto la pelle del clown ballerino andava in letargo dopo aver fatto razzie. Rifugiato nel suo nido acquitrinoso dove tutti galleggiano, dormiva saltando un paio di generazioni ma non risparmiando loro gli incubi del suo ghigno. Apre gli occhi ogni ventisette anni, e tanti ne sono passati dalla prima volta in cui Tim Curry – caratterista straordinario all'interno di un adattamento altrimenti mediocre – lo ha fatto vivere e uccidere in una miniserie insalvabile, se non vista con sguardo nostalgico. Nonostante l'improvviso passaggio del testimone da Cary Fukunaga al semiesordiente Andrés Muschietti, la seconda vita di Pennywise e la sua caccia all'infante sono state possibili senza slittamenti o delusioni. Presto accolto come l'horror dei record, atteso e apprezzato anche da chi non sta al passo con le infinite trasposizioni del Re, It è la personale rilettura di una pietra miliare che, pur prendendosi qualche libertà e semplificando l'antico potere della sua belva seriale, non snatura il messaggio di un romanzo che parla più dell'umano che del mostruoso. Di adulti pessimi, a cui insegnare la limpidezza dei dodici anni. Di un'infanzia persa tra le fogne e mai restituita al proprietario. Di un'unione che proverbialmente fa la forza. Agli anni Cinquanta del romanzo si preferiscono gli Ottanta, abusatissimi soprattutto sul piccolo schermo ma qui ripresi con discrezione: le sale che danno Nightmare e Arma Letale, un poster dei vituperati New Kids On The Block in cameretta. Se Stephen King usava il dopoguerra per omaggiare il cinema di quegli anni (il suo villain si trasformava ora nella Mummia, ora nel Mostro della laguna), il cambio d'epoca modifica per forza di cose citazioni e referenti. Le paure dei giovani protagonisti, attualizzate, sono purtroppo meno originali (restano il sangue a fiotti dallo scarico e il lebbroso di Neibolt Street, ad esempio, ma l'orribile ritratto che perseguita Stanley sembra richiamare da vicino il secondo The Conjuring, pur non avendo la stessa classe di James Wan nella pianificazione dello spavento). Quello, forse, l'unico neo. Una paura non tra le più raffinate, che ricerca il sobbalzo facile e la fisicità travolgente di Bill Skarsgard. Il Pennywise del figlio d'arte, già vampiro bello e inquieto in Hemlock Grove, è un giullare dall'impressionante mimica facciale, che danza con scatti convulsi, canticchia e gioca con le prede prima di divorarle in un sol boccone. Le sue entrate in scena non sorprendono però: attrazione principale della sua stessa grotta degli orrori, il clown sbuca come un pupazzo a molla e ti fa “Buh!”, fedele agli spaventi basici di un regista sulla buona strada per imparare il mestiere. Muschietti, d'altra parte, riesce alla perfezione laddove mi premeva di più: a inserirsi nel girotondo dei Perdenti senza disturbare, immortalandoli affiatati e tenerissimi al crocevia dell'infanzia. Brillano allora l'esilarante Finn Wolfhard di Stanger Things e le chiome della bellissima rivelazione Sophia Lillis, ma te li prendi tutti indistintamente a cuore. Apprezzi la pienezza dei toni, che comprendono anche qualche grassa risata; il miracoloso senso di appartenenza di chi Derry l'ha visitata con loro giusto l'estate scorsa; il candore di quel bacio dato a Beverly, in un momento critico, preferito all'orgia onirica che mi ha sempre disturbato. Ho galleggiato anch'io nella luce dei defunti. E, se non terrorizzato come si legge dappertutto, ne sono comunque uscito emozionatissimo. Da orgoglioso Perdente quale resto. (7,5)

A dodici anni sei troppo grande per una tata. Se però somiglia a Bee, boccoli biondi e tutte le curve al punto giusto, l'occhio ringrazia e l'orgoglio acconsente. Soprattutto se in lei, a conti fatti, vedi non soltanto un sogno erotico ma l'amica del cuore. Restare in piedi sperando di vederla amoreggiare in salotto. E assistere, tuo malgrado, a una mattanza. Questo è l'incubo di Cole, protagonista intelligente e impacciato che di notte scopre che il suo salotto è stato invaso da una combriccola di star televisive (tra loro, Robbie Ammell e Bella Thorne, che divertono prendendosi finalmente poco sul serio) e che la moquette è già chiazzata di sangue arterioso. Serve quello dell'innocente ragazzino, ora, per completare il rito. E lui, che ha paura degli aghi e di mettersi al volante, pavido per natura, non ha intenzione di offrirsi al nemico senza scalciare. Anche se la morte somiglia a Samara Weaving, bella (e brava) come Margot Robbie. La Babysitter, al pari delle recenti produzioni Netflix, conserva cast, foggia e scrittura tipicamente televisive. La commedia horror del prolifico McG, nella sua prevedibilità, ha però vari pregi. Atmosfere finto anni Ottanta, con le nebbie imperiture di Carpenter, le citazioni di Spielberg e un piccolo protagonista che si scoprirà Rambo sognando Risky Business; l'indiscreto divertimento di omicidi sanguinosissimi; due protagonisti che spiccano, quando distolti dall'intento di ammazzarsi l'un l'altra. La Babysitter è un Mamma ho perso l'aereo autoironico e splatter, come se Chris Columbus avesse infine ceduto il pilota a Joe Dante. Da bambino, probabilmente, lo avrei adorato. Da grande meno, ma quanto ridere. (6,5)

La solita casa teatro di un duplice omicidio. Il solito sociopatico a piede libero, che combatte le voci con il rock più duro e miete vittime per placare forse la malattia mentale, forse il maligno. La solita famiglia felice – anche se di metallari fascinosissimi e in armonia, non di borghesi con la puzza sotto il naso – che in quella casa va ad abitare, e con quell'assassino in sovrappeso s'incontra e si scontra. Dall'apprezzatissimo Sean Byrne, già autore dell'adorabile e truce The Loved Ones, ci si aspettava non il solito horror. Poteva sorprendere, The Devil's Candy. Indipendente, ristretto, con una colonna sonora assordante, un quartetto sui generis e un look vintage – occhio alla bellezza dei rossi, alla cura rimarchevole nella composizione. In Italia, arriva al cinema due anni dopo. Per un passo fuori stagione; in ritardo. Perché distribuire in sala un horror passato finora in sordina? Cos'ha di speciale questo home invasion non troppo splatter, non troppo intrigante, in cui l'inquietante figura di Pruitt Taylor Vince fa la maggior parte del lavoro sporco? La motivazione sfugge. The Devil's Candy avrebbe potuto essere uno di quei prodotti di nicchia saltati fuori all'improvviso, invece mi accorgo a fine visione che non lascia scossoni: ennesima riscrittura non detta di Amityville Horror, con una certa simpatia di fondo e il buon gusto di un giovane regista che ho preferito di gran lunga altrove. Caramelle da sconosciuti che parlano col demonio? Accettate solo se a stomaco, e a mente, vuoti. (6)

Una macchina in panne ai margini di un bosco. Una pioggia battente. Un mostro. Bloccate nel veicolo inservibile ci sono l'adorata Zoe Kazan – qui particolarmente intensa, con il personaggio di una giovane alcolista – e una bambina di cui maledice la nascita. Sono mamma e figlia. Si vogliono bene, anche se ricordarselo, tra disintossicazioni, ricadute e fidanzati violenti, è difficile. Per strada, in quel clima già tesissimo di per sé, le sorprende il male: sotto una nuova forma. The Monster è un horror timido, ma un dramma che per i suoi flashback quotidiani e le sue prove attoriali rischia spesso di commuoverci. Come in The Babadook, non è importante lo spauracchio bensì ciò che c'è dietro. I demoni sono quelli della dipendenza, dell'incomunicabilità, e fronteggiarli insieme non presenta sorprese né criptiche chiavi di lettura. Bryan Bertino, già regista di quel The Strangers troppo blando per farsi valere, non osa neanche questa volta. Il suo compito senza errori e senza guizzi, però, complice qualche dramma toccante e la dolce musa del cinema indie, si fa voler bene. Moltissimo. E i figli, anche se nati da genitori vicini all'abisso, impareranno a lasciarsi il buio alle spalle seguendo la luce. A non temere i mostri delle eredità genetiche. (7-)

venerdì 20 ottobre 2017

Recensione: Parla, mia paura, di Simona Vinci

| Parla, mia paura, di Simona Vinci. Einaudi, € 13, pp. 128 |

Era nell'aria che ci incrociassimo. Il desiderio a voce alta di leggerla, così, si è trasformato in un pacchetto blu poggiato sul mio comodino: regalo inatteso di una persona che mi presta ascolto, sempre, e che sa rendere le paure più piccole. L'ultima fatica di Simona Vinci – e uso il sostantivo fatica con cognizione di causa – è un libro senza precedenti, soprattutto considerando una densa biografia che spazia dalla letteratura cannibale al racconto, dal Premio Campiello alla traduzione della poetessa Kate Tempest. Vulnerabile, dolorante, personalissimo, a tal punto che non saprei bene cosa dire. Perché mi si è svelata la Simona donna, non la scrittrice, e confido che alla prossima occasione saprò scorgerla meglio tra le righe. Parla, mia paura suona come un invito a far luce sui mostri invisibili della depressione. Una bestia nera qui braccata, qui immortalata. Le fobie irrazionali, le mancanze sepolte, l'inclinazione alla malinconia di chi triste forse ci è diventato, forse ci è nato e basta.

Sarei morta. Quella notte. E quella dopo. E quella dopo ancora. Avrei continuato a morire finché non sarei morta davvero.

Un orizzonte di notti inesorabili in cui tutto il mondo dorme, ma tu non chiudi occhio. La tentazione di usare qualsiasi cosa – corde, lamette, pasticche – contro di te. Il pensiero incancellabile che soltanto il suicidio possa darti meritato ristoro. La paura obbedisce, da brava: risponde per le rime. Mai filtrata, mai educata. Presenza strisciante, muta, che ti salta al collo e ti succhia il sangue, grazie a una scrittura ora scabrosa, ora ricercata. Simona ne contrasta gli eterni ritorni facendo chiarezza. Chiedendo e offrendo aiuto. Prendendosi cura di sé stessa, con le fughe dall'altra parte del mondo, qualche ora a settimana sul lettino dell'analista, il ricorso alla chirurgia estetica dopo una dieta debilitante. Parla a noi, alla sua coscienza, alle canzoni generazionali di Chris Cornell, a un amico che non c'è. Di un dolore giovane, taciuto per vent'anni, e di una malinconia curata male con l'imbarazzo del silenzio. Della casa vissuta come trappola mortale, e della pace che le ispira il verde dei giardini. Di un figlio all'inizio non desiderato, poi messo al mondo sentendolo estraneo, infine compreso quando a unirli sono arrivate le prime parole balbettate. 

Tu sei la forma del buco
Dentro il mio cuore.

Parla, mia paura è il soliloquio di una signora scrittrice che si spoglia di altre storie per indossare eccezionalmente la propria. Le stava stretta. A lungo, non le è piaciuta. Pizzicava la pelle come certi maglioni d'inverno. Faceva difetto in qualche punto. Ci si sente osservati, infatti; fuori posto. Come se tutti percepissero la bruttezza delle nostre cuciture, delle nostre cicatrici, e la forzatura di un benessere stentato. Onestamente, non ho apprezzato i momenti in cui i toni da saggio tolgono immediatezza alla confessione. Qualche tecnicismo di troppo (soprattutto nel penultimo capitolo dedicato ai meccanismi della sanità in Italia) e un ricorrere alle parole di altri (delle canzoni rock e del cinema d'autore, degli scienziati e dei filosofi) per farsi coraggio e schiarirsi la voce qui e lì. Il monologo sa aprirsi però al dialogo. Con chi dall'abisso ci è passato a nuoto. Con chi per sua fortuna mai ci passerà, ma in caso saprà farsi trovare in allerta; pronto. La via di fuga sono le belle persone che ti sorprendono, di mercoledì pomeriggio, e i libri così. Loro, e cognomi che sembrano imperativi categorici. Simona, vinci.

Le parole mi hanno salvata, ancora una volta.

mercoledì 18 ottobre 2017

Mr. Ciak: Ammore e Malavita, A Ghost Story, La signora dello zoo di Varsavia, This Beautiful Fantastic, The Hero

Al ramo paterno devo l'amore per il musical e la familiarità con l'accento campano. Si canta e si balla in molti dei film che rivedo più volentieri. Si parlava della Napoli sismica, invece, nella mia tesi di laurea. Al quadro generale, aggiungete che i Manetti Bros e il loro Coliandro sono i soli che mi spingono a sintonizzarmi sulla Rai in un giorno infrasettimanale. Sommate i tre fattori, aggiungeteci gli applausi a Venezia, e otterrete l'improbabile ma dirompente Ammore e Malavita. Un Gomorra rivisto e corretto, in cerca della nota giusta e di un briciolo di speranza. Nel musicarello napoletano di colpi di fulmine e pallottole volanti, ci sono: un piccolo boss che, come in 007, inscena la propria morte (lui è il solito Buccirosso, mentre la sua Lady Macbeth è una strepitosa Gerini, con un personaggio iconico come lo fu la Jessica di Viaggi di nozze); un'infermiera che sa più di quanto vorrebbe (Serena Rossi, troppo bella per essere soltanto la voce di Frozen); un sicario incaricato di metterla a tacere (Morelli, ormai attore feticcio, con poche parole, tanti proiettili e troppa matita sugli occhi), che nei ricci scuri di lei riconosce il primo amore. Ci si sfrega le mani. Si affilano i coltelli. Ci si scalda le ugole, ora con effetti esilaranti (Scampia Disco Dance, il rifacimento nostrano di What a Feeling) e ora con brividi a fior di pelle (l'emozionante Bang Bang). Restano il crimine, baci appassionati e rime baciate, risate che contagiano tutta la sala; una fiera aria da film di serie B (la regia è povera, scarna, e si poggia sulla praticità dei droni e la frenesia della telecamera a mano) a cui aggiungere idee bizzarre e perfetti equilibri biologici. Esperimento azzardato ma che centra il bersaglio, Ammore e Malavita è una sceneggiata kitsch, di buon cuore e belle speranze, dove l'amore è 'o vero l'unica redenzione (impossibile non sorridere leggendo i titoli di coda: durante le riprese, scopriamo, sono stati concepiti ben quattro bambini), ma non il solo di cui cantare. Tanto, a Napoli resta sempre il sole. (7)

Lui e lei si amano in questa casa che di notte scricchiola tutta, dal tetto alle fondamenta. Si sussurrano promesse a letto, accarezzandosi, e qualche volte li strappa dalle lenzuola il suono del pianoforte scordato. L'uomo muore. Prima di conoscere i loro nomi, prima di sapere quanto e da quanto si amassero. La donna riconosce il suo cadavere all'obitorio, lo seppellisce, poi va a casa e si ingozza con una torta lunga un piano sequenza. Vomita. Non sa che lui è lì, ma non può tenerle i capelli. Non sa che lui è lì, che la sfiora, eppure non ha dita. Casey Affleck si è alzato dal tavolo autoptico e ora si trascina impotente, con un lenzuolo bianco con due buchi per occhi, nei luoghi in cui ha trascorso la vita con Rooney Mara. Osserva, vaga, aspetta. Forse la luce in fondo al tunnel da seguire, oppure Dio. Forse il momento in cui lei andrà via senza di lui. Chi ci sarà allora da attendere? A Ghost Story, scritto e diretto da un David Lowery tornato alle proprie origini indie dopo la remunerativa parentesi Disney, è un limbo lento e concentrico sul non-senso della vita. Passato, presente e futuro sfociano l'uno nell'altro. La nostalgia infesta le stanze e le epoche, dà eterno tormento e turba il riposo. Melodramma beckettiano dalle suggestioni orrorifiche, a tratti potrebbe apparire troppo provocatorio per essere vero: un attore fresco di premio Oscar che recita con il volto coperto, dialoghi muti e il contrappunto da una colonna sonora da lacrime, sequenze interminabili in cui succede tutto ma non succede niente, uno strano 4:3 dai bordi smussati per formato. Nessuno può sapere che sotto un lenzuolo che evoca spauracchi e risate, attutita ma potente, c'è una tristezza che giorni dopo sto ancora metabolizzando. Il fantasma con la sindrome di abbandono, che non dà peso al tempo o al presentimento che l'amore sia l'ennesimo ectoplasma impalpabile, mi ha affranto e angosciato. Sotto il lenzuolo nessuno può vedere Affleck piangere. Domandare al vuoto cosmico che senso abbia questo suo esistere, e questo nostro resistere. Lui e lei devono amarsi ancora, oltre il qui e oltre l'ora. L'uomo è morto. La donna pure: dentro. Ogni storia d'amore è una storia di fantasmi. (7,5)

Gli irreprensibili coniugi Zabinski sono i custodi dello zoo di Varsavia. Scoppia la Seconda guerra mondiale. Di giorno si fingono collaborazionisti. Di notte, al suono del pianoforte, si trasformano in reazionari. I custodi di elefanti e leoni diventano custodi di uomini. Nascondono gli ebrei nel seminterrato, sottraendoli al ghetto. The Zookeper's Wife (nei nostri cinema a novembre) inquadra la tragedia dell'olocausto da un punto di vista inedito. Si è sensibili alla durezza del tema, alle immagini degli animali sofferenti, allo splendore di Jessica Chastain – qui, con la grazia di una diva di altre epoche, è affiancata dall'attore rivelazione del belga Alabama Monroe e dal sempre convincente Bruhl, tedesco ferito nell'orgoglio. Ci sono una sottotrama spionistica, un ritratto di signora, la shoah vissuta in differita nella Polonia assediata. Chi troppo vuole nulla stringe? Il troppo stroppia? The Zookeper's Wife, elegante ma tutt'altro che memorabile, ne esce comunque discretamente. Sulla scia di Storia di una ladra di libri, è una bellissima vicenda ma un adattamento, a malincuore, più giusto che bello. Colpa di un montaggio indegno di una grande produzione, soprattutto in una parte conclusiva con l'acqua alla gola; di una scrittura attenta ai fatti – cinque anni condensati in due ore, con tutti i tagli del caso – e meno ai copioni delle sue punte di diamante. Chiamate poco, però, una vicenda che come il recente Lion emoziona a scatola chiusa. Chiamate poco la forza di una coppia che non scoppia, la purezza degli animali e la cattiveria degli uomini, la persistenza di una natura che resisterà a ogni scempio. (6,5)

Jessica Brown Findlay, orfana inglese che si arrangia come bibliotecaria in attesa di scrivere un romanzo tutto suo, è una ragazza strana e incantevole. Ha innumerevoli disturbi ossessivi compulsivi, e di nero ha i capi nel guardaroba e il pollice. Nemica giurata della natura, ha lasciato che sul retro di casa sua crescesse una piccola giungla. In This Beautiful Fantastic, commedia pastello a metà tra Il favoloso mondo di Amelie e Matilda, ha quattro settimane per trasformare quell'intrigo disordinato in un giardino. Il timore: essere sfrattata. A darle una mano e l'ispirazione necessaria, una ricca galleria di personaggi maschili: lo scorbutico vicino Wilkinson, il romantico inventore Irvine, il contesissimo factotum Andrew Scott. Sognante, dolcissimo e pieno di ingenuità (talora, spiace dirlo, imperdonabili), il film di Simon Aboud ha le pile di libri in salotto, i prodigi della natura e le regole di buon vicinato. La sua fiaba shaby chic a lieto fine, però, non è all'altezza di un titolo che parla di esagerata bellezza. Derivativa, curata, ma fredda e perfettina come solo un certo cinema inglese sa. Semina, sì, ma poco raccoglie. (5,5)

Una voce cavernosa. Baffoni grigi che sfidano la forza di gravità. Pubblicità ridicole, un tiro di erba buona e qualche riconoscimento di poco conto – commemorazioni, quasi, come se fosse già morto. Lee, vecchia gloria del cinema western, sta più di la che di qua: ha una fama in caduta libera, un cancro al pancreas e, in tanti anni di carriera, ha collezionato più errori che successi. Riuscirà a farne una giusta, nel poco tempo che resta? Qualcuno si prenderà a cuore la sua triste sorte? Un regista giovanissimo, che eppure intuisce e sa, cuce un dramma agrodolce su un anziano non così sprovveduto, non così docile, che si adatta alle forme spigolose di uno dei pochi superstiti di un mondo in estinzione – quello degli sceriffi e degli indiani, dei miti generazionali. Il settantatreenne Sam Elliott, una prescenza scenica straordinaria e un fascino che fa sincera invidia, ricerca allora il perdono della rancorosa figlia Krysten Ritter e, involontariamente, trova la tenerezza della bellissima Laura Prepon. E una ragione per risalire la cresta dell'onda? E il coraggio, da vero eroe qual è stato, di vincere la paura dell'ospedale e dell'abbandono? Il suo post scriptum da indirizzare all'attenzione del notaio suona ironico, parzialmente autobiografico, un po' commovente. Come tipico di quei vecchini burberi che si fanno volere bene proprio per il loro opporre strenua resistenza. Come succede quando una sgarbata Hollywood fa in fretta piazza pulita: vedasi il reinventarsi secondo Bojack Horseman. Come piace accada nel bel mezzo di quegli amori alternativi, asessuati, parlatissimi, che prevedono passeggiate sul bagnasciuga e le confidenze più intime. (6,5)

lunedì 16 ottobre 2017

Recensione: Da una storia vera, di Delphine De Vigan

| Da una storia vera, di Delphine De Vigan. Mondadori, € 19, pp. 302 |

Lei incontra lei. La prima: madre di due figli grandi, goffa, in crisi. L'altra, agli antipodi: ghostwriter bella e fatale come Eva Green. La loro misteriosa affinità elettiva – all'inizio soltanto un'amicizia inattesa, poi qualcos'altro, qualcosa di più – sfocia in un mare di sopraffazione e violenza. Fin qui, presto detto. Un thriller anni Novanta, alla Inserzione pericolosa, in cui l'ossesione per l'amante spinge a saccheggiarne i modi, i vestiti e, infine, a violarne l'identità. Magari all'omicidio, sventato da copione un attimo prima dei titoli di coda. Invece, magistrale e ipnotico com'è, francese fino alle ossa, il primo romanzo che leggo della bravissima Delphine De Vigan è più dalle parti di Persona e ai bordi delle piscine del cinema di Ozon, sebbene citi Stephen King e I soliti sospetti. Ne ha tratto un film di prossima uscita Roman Polanski. Il presto detto, la prevedibilità, le mettono allora a tacere un garbuglio metaletterario che vive di citazioni, lusinghe e fumo. 
Perché lei – quella che scrive e che si racconta, l'autrice, ma anche il personaggio principale – è la De Vigan in persona. Divorziata, compagna di un documentarista spesso all'esterno, ora acclamata e ora minacciata dopo un romanzo in cui ha lavato i panni sporchi (i disturbi alimentari in gioventù, il suicidio della madre) al di fuori della ristretta cerchia familiare. Affetta dal famigerato blocco creativo, in bilico tra il successo precedente e il terrore di fallire, non toccherà penna per tre anni.
E perché l'altra, protetta dall'anonimato di un'abbreviazione, è la sua dolce e crudele metà: forse un alter ego fittizio, forse di vera carne, in pagine incalzanti in cui autobiografia ed enigma si alleano a tavolino.

La scrittura è un'arma, Delphine, una dannata arma di distruzione di massa. La scrittura è molto più potente di quanto tu possa immaginare. La scrittura è un'arma di difesa, da tiro, una scacciacani, la scrittura è una granata, un missile, un lanciafiamme, un'arma da guerra. Può devastare tutto ma può anche ricostruire tutto.

L'instabile e vulnerabile Delphine cerca il conforto della narrativa dopo un'opera che l'ha messa a nudo, in pericolo. L., vendicatrice dei torti e inquietante demiurgo, la induce a riflettere sulle leggi imperscrutabili dell'ispirazione e del desiderio carnale; accende le lampadine della creatività e folgora ogni rivale. Chi manipola chi? Quali sono i confini di un thriller psicologico ai limiti della fiction? Quanto c'è di vero nella bugia lunga un libro della De Vigan? Da una storia vera si oppone a una narrazione lineare e coerente. Fa carta straccia del sacro patto fra chi scrive e chi legge. Romanzo allo specchio ingannevole e traditore, la cui penna si scarica un po' a metà per poi ritrovare linfa e inchiostro nell'irresistibile vezzo del finale, mi ha divertito da morire laddove potrebbe frustrare altri. In un rapporto ambiguo e simmetrico, che pretende in cambio di qualche confidenza troppo intima una libbra di cuore e la stesura di un secondo memoir capolavoro, emergono infatti in filigrana i temi realmente predonimanti. L'intreccio non è che una pura cornice ornamentale, perciò, per parlare dell'arte maieutica del processo creativo e del nostro essere voyeur. Attratti dalla cronaca nera, dalle promesse di verità. Desiderosi di sbirciare nei cassetti e nelle menti altrui.

La verità è l'unica cosa che conta.

L'autrice – quella che non sa più scrivere, quella fragilissima, quella che si vede piccola brutta e inadeguata – ci dice che le chiavi di scorta sono al solito posto, sotto lo zerbino. Prego, servitevi pure. Mi racconto, m'invento. E così lo facciamo. Origliamo. Ficcanasiamo. Spiamo, eccitati, le labbra di due donne cha parlano fitto fitto, a distanza di bacio. Apriamo gli armadi che ospitano gli scheletri più privati. Potremmo stimarla, compatirla o perfino deriderla, Delphine. Ci appassioniamo, sentendoci presenze onniscienti e invisibili. Ma è tutto un falso d'autore. Lei resta la padrona di casa. Tiene il coltello dalla parte del manico nonostante tutto. E non si svela. E ci guida con discrezione all'interno, in silenzio, passo dopo passo. I fiori di plastica, i mobili nuovi di zecca, una scenografia di cartapesta. Da qualche parte, in salotto, c'è una libreria. I libri, l'unica cosa a non apparire intonsa. Una donna elegante, di spalle, legge le coste. Un fantasma di professione. Unisce i titoli come fossero parte di una frase lunghissima. In un sopraffino taglia e cuci, ci raccontano una storia: questa. Siamo ospiti in un set cinematografico che presto sarà sgombrato, giusto il tempo di un'ultima illusione.
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Yael Naim – Toxic

giovedì 12 ottobre 2017

Recensione: Romanzo rosa, di Stefania Bertola

| Romanzo rosa, di Stefania Bertola. Einaudi, € 13, pp. 208 |

Tutti ne abbiamo qualcuno in casa, nascosto strategicamente in seconda fila. Eredità di mamme o zie che li hanno letti e riletti, ispirate dalle pose plastiche in copertina, dalle ambientazioni esotiche e dai toni pruriginosi ma non troppo. Ma sì, lo ammetto: non soltanto in libreria ne tengo ben camuffati un paio anch'io ma, peggio, nelle frequenti crisi di astinenza pre-blog (che brutta bestia, i periodi di magra) ne ho perfino letti due o tre in mancanza di meglio. Si parla di romanzi sentimentali. Quelli con i pediatri scapoli e le infermiere sexy. Quelli con i vampiri e i lupi che convolano a nozze, scortati da una solenne parata di fate madrine. Quelli con protagonisti che non hanno ancora l'età, ma le basse voglie sì. Quelli storici (i preferiti di mia madre, ai tempi) con rosse accusate di stregoneria e inquisitori in tentazione. Gli Harmony sono ribattezzati Melody nel primo romanzo che leggo di Stefania Bertola, autrice che i più mi consigliano da innumerevoli sessioni d'esame a questa parte. Olimpia, mite bibliotecaria sui sessanta, decide di scriverne uno in una settimana, seguendo le indicazioni di un corso di scrittura creativa a cui, intraprendente per una volta nella vita, ha preso parte. Non gliene vorranno le nipoti. Non miagoleranno troppo i suoi coinquilini, due gatti viziatissimi.

Per scrivere un romanzo rosa in una settimana ci vogliono otto giorni.

La protagonista ignora le telefonate, rifornisce il congelatore di Tupperware e, come un'eroina dalla doppia vita, al mattino pende dalle labbra dell'acidissima Leonora (la Stephen King degli amori da edicola, insomma) e di sera batte al computer, intabarrata nel conforto del plaid. E la noia della sua routine, del suo guardaroba monocolore, del suo compassato modo di porsi, la seppelliscono d'un tratto sotto la neve scozzese i personaggi dello stimolante esperimento letterario. La zitella di San Mauro Torinese si nutre di liquirizie e fantasia, infatti, prendendo alle lettera le istruzioni: il sesso deve esserci, purché reso con fior di metafore; le protagoniste sono volitive e orgogliose, ma non abbastanza da non cedere al conto in banca di un uomo più facoltoso; i protagonisti, di solito perseguitati da un tragico passato, hanno sepolto il cuore ma niente è perduto. Meglio abbondare, poi, con marche di abbigliamento, auto sportive, nomi ridicolmente complicati, avverbi di modo e perifrasi barocche quanto basta.

Per la prima volta in vita mia mi addormento sul 61, e scendo al capolinea. Torno indietro a piedi, e mi chiedo se allora non sia soltanto il sonno a generare i sogni, ma anche i sogni a generare il sonno.

Romanzo rosa è una storia nella storia nella storia. Diciamolo meglio. Si articola su tre livelli: il quieto vivere di Olimpia, con attorno i flirt e le liti degli altri aspiranti romanzieri; il vademecum dell'affermata Leonora; i garbugli amorosi fra i fittizi Turquoise (come il colore) e Angus (come la bistecca), lei inventrice di marmellate e lui imprenditore rampante, in una strampalata Scozia di frutti succosi e colpi di fulmine. Come Jane The Virgin, la comedy che da quattro stagioni parodia con intelligenza le telenovelas argentine senza mai diventarne una, così Romanzo rosa si fa apprezzare per la leggerezza studiata e i gustosissimi incastri metaletterari. Si ride, ma con decoro e misura. Si ammirano la destrezza e l'autoironia di una scrittrice che interpreta e canzona le tendenze editoriali, tesse merletti per vecchi canovacci e non rinnega mai se stessa. Rivelando con umorismo e perizia il peso di questa musica leggera. Le sfumature nell'uniformità impenetrabile del rosa confetto.
Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Levant feat. Max Gazzé – Pezzo di me 

lunedì 9 ottobre 2017

Recensione: Tutta colpa delle meduse, di Ali Benjamin

| Tutta colpa delle meduse, di Ali Benjamin. Il Castoro, € 13,50, pp. 317 |

Quest'anno sono arrivato impreparato alla sessione d'esami e all'arrivo dell'autunno. Erano lì, e io non avevo fatto neppure il cambio di stagione. Soprattutto: troppo da studiare, e mancavano i romanzi giusti sul comodino. Ne ho iniziati un paio senza successo, ma la colpa era più mia – anzi, dell'organizzazione delle università statali – che loro. Non leggevo da una settimana quando il postino mi ha portato Tutta colpa delle meduse. Ufficialmente, il romanzo per i più piccoli di cui avevo bisogno. Come volevasi dimostrare, l'ho terminato in due sere, scoprendolo degno della bellezza della sua copertina illustrata, dei prestigiosi premi vinti qui e lì, del catalogo di una casa editrice che non sbaglia mai. Lieve, scorrevole, ma dalle riflessioni cruciali (sul tema, sempre per ragazzi, vi ricordo la sorpresa che fu Voce di lupo). Amo i romanzi che si rivolgono a questo target con onestà, meno l'impiego della prima persona; i narratori che scimmiottano le voci dei bambini, rendendosi irritantissimi ventriloqui. Non è il caso di Ali Benjamin, per fortuna, e di una storia che non fa sconti.

Il veleno è una difesa. Più fragile è l'anima e più ha bisogno di proteggersi.

Si parla di bambine che si scoprono adolescenti. Si parla di dodicenni che, nell'estate tra la prima e la seconda media, muoiono: non ci torneranno più, a scuola, sfoggiando l'abbronzatura nuova e qualche macchia di sole sulla punta del naso. Franny è morta annegata. Suzy – figlia di genitori divorziati e con il mito del fratello maggiore, presenza fissa in casa insieme al fidanzato Rocco – non se ne capacita ancora. Perché la sua coetanea nuotava come un pesce, scoppiava di vita, e prima che entrassero in ballo la vanità, le cricche, i ragazzi, era la sua migliore e unica amica. Le cose succedono e basta, le ripetono gli adulti. Fanno spallucce. La protagonista invece rimanda, inventa scuse, pianifica un viaggio impossibile dall'altra parte del globo. Si sente colpevole, e se ne va in cerca di spiegazioni e alibi, con gli occhi che corrono invano alla fine del tunnel. Passata in un attimo dalla parte della ragione a quella del torto, Suzy ha infatti deciso di non parlare più ad anima viva per paura di dire la cosa sbagliata. Di nuovo. 

Non so come fare a dirti: Una volta mi piaceva stare insieme a te, ora non ne sono più così sicura.
Non so come fare a dirti: Per favore, ti prego, non essere un'altra delle cose che cambiano.
Perciò non dico niente.

Ciò che ti rende interessante, a quell'età ha il potere di dipingerti strano e basta – e lei, precoce e intelligente, ha il pallino per le scienze ma è a digiuno di bon ton. Ciò che l'ha unita a Franny (il saperne tanto della natura, ma pochissimo di quella umana) alla fine le ha separate. Una gita allo zoo, nel primo capitolo, suggerisce che è tutta colpa delle meduse: subdole, insospettabili, onnipresenti, stanno invadendo i mari, e chissà che non abbiano punto loro l'ex compagna di scuola. Per risolvere il giallo, tocca ingegnarsi e contattare un esperto australiano; trovare il coraggio che serve. La protagonista, personaggio non senza macchie, rievoca così un rapporto tutt'altro che idealizzato; della sua miglior nemica rispetta il ricordo postumo, gli sgarbi e le colpe. Non sa piangere ai funerali. Non sa perdonarsi. Ha fatto una cosa brutta, e forse non aveva tutti i torti.

Ci sono tante cose di cui aver paura, in questo mondo: fioriture di meduse. Una sesta estinzione. Un ballo di scuola media. Forse, invece di sentirci come un granello di polvere potremmo ricordarci che tutte le creature di questa Terra sono fatte di polvere di stelle. E noi siamo gli unici ad averne la consapevolezza.

La sua ricerca – della verità del dolore, del senso di se stessa – è il cardine di un romanzo dalla faccia pulita, ma di impensata durezza. Dal cuore di medusa. Pulsante e velenoso quanto un buco nero, ma iridescente e immortale. Nel profondo degli abissi di un mare di dolore, in cui si annaspa disperati, non sapendo che il bagnasciuga è lì, alla prossima bracciata.
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: The Lumineers – Dead Sea

mercoledì 4 ottobre 2017

Mr. Ciak: L'inganno, Il gioco di Gerald, Le nostre anime di notte, I peggiori

Una scuola femminile nei boschi. Un frusciare di gonne e chiome. E l'isolamento che, ben presto, viene minacciato dal ritrovamento di un uomo ferito: un mercenario bello come Colin Farrell, finito nella novella più licenziosa di Boccaccio. Il caporale rifiuta Nicole Kidman: come in Stoker, ape regina tiratissima, algida e repressa. Fa innamorare la Dunst, romantica e ingenua maestrina di francese. Si lascia tentare da Elle Fanning, un tornado irresistibile di sguardi in camera e ammiccamenti. A metà tra le passioni dei feuilleton e gli orrori del romanzo gotico – mai distante dai territori della fiaba nera, con personaggi volutamente bidimensionali, senza passato, e castelli nella nebbia – L'inganno accoglie alla porta rovesci di fortuna e inversioni di ruolo. Un gioco di colpe, in cui uomini e donne escono parimenti sconfitti – lo esemplificano le sbarre della straordinaria inquadratura finale. Esempio di cinema d'autore che richiama il pubblico in sala e, a sorpresa, diverte per la scrittura dei dialoghi (molto arguti, a dispetto di una trama esile), l'ultima Coppola è un concentrato di civetteria e tensione erotica che si lascia ammirare con l'acquolina in bocca. Esercizio stilistico pieno di accortezza e ironia, in cui tutto scorre splendido ma banale, incanta con accortezze da bozzetto impressionista (vedasi le attività quotidiane delle allieve, in cui la monotonia è opera d'arte; l'attenzione per le mani e le acconciature, dalla crocchia severa della Kidman alla criniera indomabile della Fanning) e soggioga. Peccato manchi il guizzo. Per nulla distante da ciò che mostrano i trailer, L'inganno è una bomboniera piccola e cesellata in ogni sua componente, ma imperfetta. Se la regista brilla dietro la macchina da presa, resta però imbrigliata nelle maglie delle sceneggiatura – troppo romanzesca, troppo lineare, nonostante la presenza delle tematiche a lei più care (un verdeggiante giardino di vergini omicide, la tipica leziosità di fondo che questa volta non mi ha fatto grande antipatia). E da questo covo di donne e desideri taciuti, che un po' somiglia al paradiso e un po' all'inferno, si esce sì uguali a prima, al contrario del caporale McBurney, ma con lo sguardo pieno di bellezza. Anche l'occhio vuole la sua parte: qui, tutta. (6,5)

Un fine settimana romantico nella casa sul lago, una camicia da notte con ancora il cartellino dell'acquisto, un paio di manette per innocenti fantasie di stupro. Cosa non si fa per salvare un matrimonio che, dopo dieci anni, è già in crisi di identità? A cosa non ci si piega per solleticare l'ego e i boxer di un marito annoiato, che ricorre alla pillola blu e ai giochi di ruolo? E' da uno di questi che prende avvio l'incubo di Jessie: una Carla Gugino straordinaria, che piange, strepita e si sdoppia, con il cadavere del prestante Bruce Greenwood tra le gambe. Un infarto, e la fantasia erotica di una bella coppia di mezza età diventa il delirio di uno degli Stephen King più ardui e intraducibili – purtroppo, una decina di anni fa, del romanzo non ho mai conosciuto la fine, restituito al legittimo proprietario prima del tempo. Una stanza, due personaggi, un flusso di coscienza ininterrotto sul deperire delle relazioni amorose, la fierezza delle donne, i traumi sepolti. Rischioso che si facesse cinema senza scivolare, a tratti, nella noia o nel ridicolo. Per fortuna muove le fila il miglior Mike Flanagan. La sua regia, studiata e mai statica, al sesto film può contare su un cast di tutto rispetto; una sceneggiatura raffinata, quasi di impianto teatrale; qualche trovata particolarmente brillante, ispirata alle allucinazioni di lei, che fa sì che si affastellino ai piedi del letto cani famelici, mostri veri o inventati, presente e passato. Lo spettro di Greenwood, sollevatosi dal tappeto, sobilla così al chiaro di luna e dialoga con la proiezione di un'altra Gugino: quella libera, fresca e pettinata, che non sente né la fame né la sete (ripenso a Buried, a 127 ore) e affronta a occhi aperti i flashback di un lontano giorno di eclissi. Qualcosa si incrina in un epilogo feroce, diluito con lo splatter, la CGI e le spiegazioni di troppo, ma Il gioco di Gerald – trasposizione difficoltosa e sorprendente, in attesa di assistere ai fasti annunciati dell'acclamato It – è un claustrofobico teatrino della mente, tra elaborazione e metafora. Solido quanto la testiera che frena i polsi e la deriva della sua sfortunata protagonista. Profondo come un taglio, nel suo vagare senza pace pur restando fermo immobile. (7)

Essere soli da tanto tempo, con la notte che, a una certa età, mette paura. Perché non passarla insieme, anche a costo che nella minuscola Holt la gente parli e sparli? Suona così, all'incirca, la proposta indecente che Addie fa a Louis nel romanzo postumo di Kent Haruf. Erano vedovi, dirimpettai, e prendevano sonno chiacchierando. Senza pensare al sesso, ma all'amore chissà. Al cinema – si fa per dire, perché Le nostre anime di notte, presentato fuori concorso a Venezia, è una produzione originale Netflix – gli anziani innamorati diventano Jane Fonda e Robert Redford. Lei (che ha sepolto una figlia) senza peli sulla lingua, lui (che ha messo in pericolo i suoi affetti per una relazione extraconiugale) vagamente intimidito all'inizio. Come nel romanzo, si fingono una famiglia attorno al nipotino di Addie, con papà Shoenaerts che alza il gomito e rispolvera di tanto in tanto vecchie recriminatorie. La loro vicinanza, eppure miracolosa, rivela problematiche difficili da ignorare: non sono abbastanza, ottant'anni, per concedersi un po' di sano egoismo? Più fedele del previsto alle pagine rade e laconiche dell'autore scomparso, eccezion fatta per qualche aggiunta che ammorbidisce i toni e amplia un finale altrimenti troppo stringato, il film dell'indiano Ritesh Batra delude a malincuore. Di ingiustificabile foggia televisiva piuttosto che indie, scarico, privo di intimità. Se c'è l'emozione, somiglia più alla leggerezza di un Tutto può succedere che all'inevitabile malinconia delle occasioni perse e ritrovate. Il più grande pregio e il più grande difetto insieme: i protagonisti. Bellissimi, bravissimi: anche troppo. Così tanto da stringersi per l'ultima volta in un compitino troppo piccolo per loro, e da reggerlo interamente; così tanto da tradirla e illuminarla a giorno, questa notte di grilli e confessioni, con la luce di riflettori puntata più sul glamour che sui sentimenti. (5,5)

Fabrizio e Massimo, romani a Napoli, fuggono dall'onta di una mamma truffatrice e crescono una sorella tredicenne. Il primo aspirante avvocato, l'altro manovale in nero. Hanno una Panda scalcagnata, fanno spesa ai minimarket e, se il citofono suona, sono o gli assistenti sociali, o il padrone di casa. Come elevarsi dalla mediocrità, se la Campania nasconde le sue contraddizioni dietro un dito? Come arricchirsi, se alla criminalità spettano le porzioni migliori? Le risposte e le colpe sono da rintracciare nei fumetti. Una maschera (di Maradona), un account cifrato, un'armatura messa su alla bell'e meglio e, con un pene scarabbochiato come simbolo, i protagonisti si improvvisano novelli Robin Hood. Vigilanti che rubano ai ricchi per dare ai poveri, ma sotto compenso. La città e la regia, moderna e fresca, ricordano il cinema dei Manetti Bros. L'idea – eroi di periferia, armati di disperazione e belle speranze – ha il difetto di scontrarsi con il ricordo freschissimo e bellissimo di Lo chiamavano Jeeg Robot. Scapestrata commedia d'azione con i conti in rosso degli italiani e le suggestioni degli americani, da Kick-Ass a Birdman (occhio alla pioggia di luci all'ingresso di un negozietto cinese), I peggiori è meglio di quanto il titolo suggerisce. Merito, soprattutto, di due protagonisti convincenti tanto nei momenti comici quanto nel conflitto (il Lino Guanciale più amato dalle casalinghe italiane e la rivelazione Vincenzo Alfieri, che recita, abbozza e dirige). Si ride spesso e, tocca ammetterlo, più per la scontata verve del dialetto che per la brillantezza della scrittura. Si loda il tentativo, buono soprattutto nella prima metà, di allontanarsi da un cinema piccolo e provinciale. A non decollare, però, è l'indagine, dove un inedito Izzo tenta di incastrare Antonella Attili. Come se si trattasse di una puntata scritta alla buona, eppure decisamente perdonabile, di un serial che potrebbe altrimenti contare sui ritmi e i volti giusti. Un'emozione da poco, per dirla allo Zingaro, a cui chiedevamo tanto così di più. (6)