venerdì 29 novembre 2019

Recensione: La vita bugiarda degli adulti, di Elena Ferrante

| La vita bugiarda degli adulti, di Elena Ferrante. E/O, € 19, pp. 336 |

Gli addii mi rendono codardo. Sono arrivato alla fine di Storia di chi fugge e di chi resta – il quarto romanzo della tetralogia già in attesa sul mio comodino da un po’ – e ho preferito fare dietrofront all’ultimo. Non sono bravo con i congedi: soprattutto se, come in questo caso, si tratta di un a mai più rivederci. Allora prendo tempo. A novembre, così, ho rimandato a data da destinarsi la lettura del capitolo conclusivo – spero comunque di riuscire entro l’anno –, barattando il vecchio con il nuovo, una fine con un inizio. Una Ferrante con un’altra. Ancora una volta circondata da un’aura di mistero, la “scrittrice geniale” mi ha dato la scusa per procrastinare il giorno del commiato con un romanzo da scoprire prima che il passaparola togliesse il piacere della sorpresa. 
La vita bugiarda degli adulti è una storia tutta nuova, ma restano le costanti fondamentali: una scrittura straordinariamente densa, gli alti e bassi di una narratrice adolescente talora difficile da perdonare, le contraddizioni di una città percorsa questa volta al contrario. Dal basso verso l’alto, dal Vomero al Pascone. I nostalgici del rione si sentiranno subito a casa, in un racconto di maturazione debitore della crescita di Lila e Lenù: prima bambine, poi donne, in un quartiere lontano dal baluginare del mare. Ricordate la galleria che a un certo punto le due percorrono mano nella mano, pur di affrancarsi dal giogo delle famiglie?

L’amore è opaco come i vetri delle finestre dei cessi.
Somiglia a un tunnel anche la libertà secondo Giovanna, tredicenne che compie invece il viaggio opposto: figlia della Napoli bene, si cala lungo una discesa tanto fisica quanto metaforica. A muovere la scarpinata è una cattiva parola pronunciata dal padre, professore ateo e alto-borghese, che d’un tratto reputa insopportabile i comportamenti della sua unica figlia. La bambina d’oro, all’improvviso, ha rinunciato a una camera rosa confetto per un vestiario succinto e tinto di nero. Ossessionata dal proprio riflesso allo specchio, non si sente all’altezza di quei genitori belli, colti e innamorati. Colleziona brutti voti, assesta rispostacce, s’incattivisce. Cose che succedono nell’età in cui il corpo si arrotonda nei punti giusti e l’animo, al contrario, si fa spigoloso. Ma Giovanna, a torto, si crede sola e incompresa. E frugando negli album di famiglia finisce per identificarsi con zia Vittoria, cancellata nelle fotografie a colpi di pennarello indelebile. Che lo scuorno della parente, rinnegata perché innamorata di un uomo già sposato, si sia abbattuto anche sulla nipote? Quante frequentazioni del ramo paterno sono state negate alla protagonista, scesa ora dalla proverbiale torre d’avorio?

Poi sussurrò in dialetto: scusa, non ce l’ho con te, ma con tuo padre; quindi mi infilò una mano sotto la gonna colpendomi lievemente, più volte, col palmo della mano, tra la coscia e la natica. Mi disse all’orecchio, ancora una volta: guardali bene, i tuoi genitori, se no non ti salvi.
Giovanna si sente a casa soltanto al terzo piano di un condominio imbrattato dalle scritte oscene, a tu per tu con la vergogna dei Trada. Vestita d’azzurro, magrissima e dal petto prosperoso, Vittoria ha le sopracciglia torve ma nasconde un animo romantico: si emoziona ancora parlando di Enzo, l’amante morto diciassette anni prima; balla nel salotto e invita Giovanna a seguirne i passi; racconta i dettagli più scabrosi del sesso e della vendetta, a zonzo su una Cinquecento verde che conduce la protagonista in un lungo tour del parentado, della fede e del dialetto. A ben vedere, chi è la persona davvero realizzata della famiglia? Bisogna biasimare la sguaiataggine della zia, o forse il perbenismo di un castello alto-borghese costruito su una polveriera pericolosissima? Inquadrata tra i tredici e i sedici anni, dalle scuole medie al ginnasio, la narratrice imparerà nell’arco del saliscendi un lessico sboccato e qualche rara preghiera. Asseconderà domande scomode, sensi di colpa, prurigini. Risponderà al nome di Giovanna in presenza delle amiche ricche, Ida e Angela, ma sarà semplicemente Giannina per i più ruspanti Giuliana, Corrado e Tonino. A piacimento, talpa e spola.
Leggere La vita bugiarda degli adulti è come accarezzare le ortiche. Immersa fino ai gomiti nella materia viscida e pungente della prima adolescenza, l’impavida Ferrante spia sotto le incerate dei tavoli e dai buchi delle serrature. Ama sporcarsi, con una scrittura paurosa e scintillante come il sangue vivo, ma protegge dagli schizzi del suo gran frugare il bracciale d’oro bianco ritratto sulla copertina: simbolo d'un passato furfante, falsato ad arte dal restauro dei ricordi, il gioiello passa da un polso all’altro e sembra portare disgrazie. Ma a lezione di stile e d’introspezione psicologica dall'autrice capiamo che la superstizione non esiste, idem il caso. I casi editoriali, quelli belli, per fortuna sì.

«Poi c’è la cosa che alla tua età è la più difficile: onorare il padre e la madre. Ma ci devi provare, Giannì, è importante». «Il padre e la madre non li capisco più». «Li capirai da grande». «Allora non diventerò grande».
Elena Ferrante ci ha abituati alle fragilità dei suoi personaggi, a finali bruschi, mai alla portata del suo talento. Si ripete. E mi ripeto anch’io. Impossibile non rimanere avvinti dal vigore della sua prosa; altrettanto non entrare nei suoi drammi, magari vestiti di tutto punto, fino a insudiciarsi di verità e altre sozzure. All’inizio divorato, poi centellinato per paura mi andasse di traverso, il nuovo romanzo ha la scrittura più preziosa dell’anno e la protagonista più antipatica. Guidato dalle secrezioni ghiandolari dei suoi personaggi, non dagli eventi, lo si ama e lo si odia insieme: compreso quell’epilogo della discordia, brusco come un colpo d’ascia, che in rete fa pensare a un’altra tappa della vita di Giovanna, all’arrivo di un altro testo complementare per dare un senso aggiunto a questa giovinezza: allo sbando, come d’altronde lo sono tutte indistintamente. Un fatto è certo. 
Chiunque sia, dovunque viva, non importa quanti anni abbia, Elena Ferrante dev’essere rimasta un po’ bambina. I grandi mentono per istinto di sopravvivenza. Lei, invece, ha l’onestà infantile di chi li biasima, li guarda tutti dal basso verso l'alto, li apostrofa. Avrà alimentato sotto banco la sua curiosità infantile, le braci incandescenti dei suoi anni sfacciati. Nasconde a media e pararazzi, adesso, un prodigio: quello di non essere mai diventata adulta.
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Billie Eilish - Bury a Friend

lunedì 25 novembre 2019

Recensione [romanzo e film]: Dove la terra trema, di Susanna Jones

Dove la terra trema, di Susanna Jones. Harper Collins, € 18, pp. 204 |

In un Giappone di grattacieli vertiginosi e abbaglianti luci al neon, luogo d’ispirazione per le indimenticabili scenografie di Blade Runner, nasce e muore la storia di Lucy Fly. Straniera in terra straniera, l’enigmatica inglese in trasferta si trova coinvolta in un mistero degno del suo passato. È a Tokyo da dieci anni, lavora come traduttrice. Ormai ha imparato a confondersi tra lo sfarfallare delle luci e la pioggia fitta. Al punto che, probabilmente, un passionale fotografo di pozzanghere chiamato Teiji la prima volta deve averla fotografata scambiandola per un dettaglio del paesaggio. Da un semplice scatto ha avuto inizio una passione laconica e telepatica, terminata con la scomparsa del giovane uomo e l’omicidio di un’altra espatriata: Lily, originaria dello Yorkshire come la protagonista, in fuga da un fidanzato possessivo. Non è stato abbastanza per la sfortunata infermiera nascondersi in un bar dall’altra parte del mondo? O, come insinua la polizia all’indomani di un macabro ritrovamento – un busto ripescato nella baia di Tokyo –, la compatriota sotto torchio potrebbe aver avuto un ruolo cruciale nel fatto di sangue?
Dove la terra trema, dramma psicologico di Susanna Jones tornato in libreria grazie all’arrivo dell’omonimo film Netflix, è il romanzo che avrei voluto leggere al liceo. Quando un thriller tirava l’altro e, reduce dalla lettura dello straordinario Memorie di una geisha, sognavo di trasferirmi nel Sol Levante. Ma la lunghezza del viaggio, le difficoltà della lingua e una sensibilità troppo diversa da quella occidentale, a ben vedere, incantavano e terrorizzavano.

«Non abito in Inghilterra da tanti anni».
«Ma le radici sono importanti».
«I fiori e gli alberi hanno radici. Gli esseri umani hanno le gambe».
Come si vive in Oriente? Ci si ambienta? Ci si abitua mai ai risucchi rumorosi delle zuppe, ai condomini abitati soltanto da stranieri, alle caparre salate e agli agenti immobiliari diffidenti, alle minuzie del rito del tè o alle bellezze naturali dell’isola di Sado e del monte Fuji? Ultima di una nidiata di figli maschi, taciturna ai limiti del mutismo, Lucy – nel resoconto di un’infanzia a tinte burtoniane – racconta dell’attrazione magnetica verso il planisfero e del bisogno di appropriarsi di un linguaggio segreto. Distante chilometri e chilometri dal provincialismo inglese, ha realizzato il desiderio della bambina che in vacanza si era spinta col materassino in alto mare puntando alle coste norvegesi: isolarsi. Burbera e solitaria, benché i suoi occhi di corvo la rendano irresistibile per il sesso maschile, ha un’intensa vita notturna e un passato inframmezzato d’accidenti e catastrofi. Si immedesima nelle storie di finzione del teatro kabuki. Inventa esistenze per gli sconosciuti in foto. Scivola dalla prima persona alla terza. Sempre propensa a mettersi in pericolo, cammina sui binari di una città che somiglia a una giungla urbana. E talora si perde.
Narrato da una voce assolutamente conturbante, il triangolo erotico dell’autrice è un intrigo di amore e morte dall’intreccio basico – gelosie, stalking, ossessione –, con due grandi pregi: la scrittura della Jones, ipnotica e delirante per stare al passo con la confusione della protagonista; le ambientazioni giapponesi vividissime, che tenteranno ogni otaku a prendere il primo aereo e partire. Leggendolo senza particolari aspettative, mi sono trovato per le mani un romanzo di grande atmosfera ma con un finale sbrigativo, non all’altezza del resto. La tensione accumulata, infatti, si sgonfia come un palloncino nelle pagine conclusive. E una trama che scricchiola, qui e lì, si assesterà soltanto imparando a portare pazienza.

Guardandola, potrei pensare: è questo il momento esatto in cui qualcosa ha cominciato ad andare storto, il punto in cui ormai i giochi erano fatti. Prima dello scatto dell’otturatore. Dopo lo scatto dell’otturatore. Una frazione di secondo tra i due istanti, quando si verificò uno scorrimento sismico non registrato dalla crosta terrestre. Le sue conseguenze si sarebbero manifestato con il tempo sotto forma di un movimento tellurico talmente intenso da non poter essere misurato sulla scala Richter né con il sismografo giapponese.
Potrei dire lo stesso della trasposizione di Wash Westmoreland: fedelissima, pro e contro compresi, se non fosse per l’ambientazione anni Ottanta, il trattamento del protagonista maschile – un personaggio più ordinario e prevedibile rispetto alla controparte letteraria, dunque già sospetto a colpo d’occhio – e la retrocessione di Tokyo, cuore pulsante del tutto, a patinata protagonista secondaria. Da vedere esclusivamente per l’ennesima grande prova di Alicia Vikander, alle prese qui con un copione sdrucciolevole  e con le difficoltà dei monologhi in giapponese, il film può contare anche sulla freschezza dell’esuberante Riley Keough. Il terremoto resta una metafora dell’instabilità mentale della protagonista accusata e l’interrogatorio il mezzo per eccellenza per scoprire cosa, ieri come oggi, spinga una ragazza di belle speranze a preferire l’ignoto rispetto ai vincoli di casa propria. Preferibili l’arresto – benché in alcuni luoghi viga ancora la pena di morte per impiccagione – o il rimpatrio forzato? C’è differenza tra essere non colpevoli e incolpevoli? Dimenticherò presto la trama, forse. Non questa Tokyo inedita, inquadrata al buio e sotto un acquazzone perenne. Non lo smarrimento di un’apolide senza bussola e senza equilibrio, che sulla propria pelle sperimenta la curiosità e la tristezza di una versione noir di Lost in translation.
Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Tycho - Japan

giovedì 21 novembre 2019

Recensione: Il potere del cane, di Thomas Savage

| Il potere del cane, di Thomas Savage. Beat, € 12,90, pp. 303 |

Ci sono soltanto due tipi di persone nel Montana di metà anni Venti. Quelle capaci di astrarre, che vedono figure sui fianchi delle montagne e nei cumuli vaporosi delle nuvole. E quelle, invece, che non si spingono mai oltre il proprio naso: goffe e terrene. 
In una località rurale degli Stati Uniti, in prossimità delle Montagne Rocciose, ad esempio c’è questa collina: aguzzando lo sguardo puoi notare un cane che corre verso destinazioni ignote. Tu riesci a distinguerlo? La differenza delle percezioni esemplifica ad arte il divario caratteriale tra i fratelli Burbank. Quarantenni, felicemente scapoli, Phil e George vivono in una fattoria dove non si contemplano né sprechi né servitù.

«Mi ha insegnato un sacco di cose. Mi ha insegnato che se hai fegato puoi fare qualsiasi cosa, fegato e pazienza. L’impazienza è un lusso costoso, Peter. Mi ha insegnato a usare gli occhi, anche. Guarda là. Che cosa vedi?». Peter alzò le spalle. «Tu vedi il fianco della collina. Ma Bronco, quando guardava quella collina, sai cosa vedeva?». «Un cane» disse Peter. «Un cane che corre».
Benché siano stati i primi a godersi il privilegio della luce elettrica in tutta la vallata, si atteggiano a cittadini umili – più braccianti che proprietari terrieri, più servi che padroni – in nome di un connaturato senso di modestia. Hanno una tinozza, ma fanno il bagno nel lago. Rifiutano garze o cerotti, preferendo far seccare le ferite all’aria. A stento, di tanto in tanto, acconsentono a cene di gala o alla velocità delle automobili. Ma tanto Phil è acuto e poliedrico, quanto George è apatico e raggirabile. 
Se il primo, con hobby che vanno dagli scacchi al benjo, ha conservato lo spirito giocoso e smaliziato di un bambino cresciuto, l’altro ha la lentezza dei lavoratori con il cuore più grande del cervello. Con i genitori che trascorrono la vecchiaia a Salt Lake, i Burbank smussano la terra, spostano i buoi, parlano dei tempi andati. Non sanno che la tappa obbligata in quel di Beech, con la mandria che intanto solleva sbuffi di polvere e gli esercenti che si rimboccano le maniche per rifocillare gli uomini, spezzerà per sempre il ritmo delle loro comode consuetudini. Come spesso capita, a cambiare le carte in tavola è l’arrivo di una donna: vedova di un medico fragile e amorevole, la bellissima Rose possiede una locanda infestata dai fantasmi e un figlio adolescente, Peter, che attira lo scherno dei bulli. La gentilezza di George conquista Rose e si sposano senza dirlo ad anima viva. Da un giorno all’altro si trasferiscono nel ranch di famiglia, accompagnati a ogni passo da quel ragazzino con le scarpe immacolate e i Levi’s odorosi di cloroformio, incuriosito dai segreti della natura tutt’intorno. La convivenza dei quattro sarà infernale. Gelosie, dispetti per primeggiare sugli invasori, attenzioni morbose, silenzi a tavola che hanno del brutale.

«Mio figlio non è una femminuccia». 
«Lo dicono tutti gli altri ragazzi». «Perché legge. Perché pensa».

Una narrazione ad ampio respiro, meticolosa nelle descrizioni paesaggistiche e chirurgica nell’indagine degli spaventosi coni d’ombra degli attanti, hanno fatto del Potere del cane un classico da riscoprire. La voce distesa e pacata dell’autore americano, rivalutato postumo, è un metronomo che scandisce con precisione i capitoli di un conflitto interpersonale devastante perché sottaciuto, che per tutto il tempo ribolle come magma mortifero sotto la superficie delle cose. Ci illumina per fortuna la postfazione di Annie Proulx: l’autrice di Brokeback Mountain riconosce al collega scomparso il merito di aver sdoganato il tema dell’omosessualità negli ambienti western – nell’immaginario, simbolo per eccellenza di machismo – e i meccanismi di difesa che trasformano un’attrazione negata in omofobia. Erano gli anni degli indiani confinati nelle riserve. Di conquistatori venuti da lontano, ammaliati dalle ricchezze dell’Ovest, e infine tornati all’ovile con la coda tra le gambe. Della legge del più forte. Ci sono prese di coscienza, allora, che personaggi come Phil negano a loro stessi. Il primogenito, vissuto all’ombra di un mentore che non smette mai di celebrare a parole, nasconde qualcosa di diverso dalla semplice emulazione dietro il desiderio di fondersi con Bronco Henry: di essere con lui, come lui. La vergogna diventa prima intolleranza verso i giovani mandriani, traviati dalle fantasticherie del cinema; poi un odio viscerale verso la cognata, moglie trofeo che inconsapevolmente incarna quello che Phil si nega – il sesso, l’amore, la normalità. Sopravvissuta alla guerra e al proibizionismo, Rose è tormentata dalle risate crudeli del parente acquisito e non bastano né il pianoforte né l’hobby dell’origami a salvarla dalla prigionia di una stanza rosa confetto in cui l’ozio si rivela essere amico del vizio.

Ma Phil sapeva, Dio se lo sapeva, cosa significava essere un paria, e aveva odiato il mondo prima che il mondo odiasse lui.
In un microcosmo inquieto e affascinante in cui ho ritrovato le dinamiche di Abbiamo sempre vissuto nel castello, la potenza di Savage crea sismi – tanto forte è la tensione sessuale da sfogare, con le buone o con le cattive – e una tragedia moderna che vibra delle stesse scosse elettrostatiche che anticipano i temporali. La rivelazione dell’ultima pagina, senza anticiparvi troppo, vi lascerà a bocca aperta come davanti a un giallo. Ne trarrà un film Jane Campion, con Benedict Cumberbatch, Paul Dano e Kirsten Dunst.
In Montana la terra strappata ai pellerossa era una discarica a cielo aperto, dove le gazze banchettano tra l’immondizia e gli scarti di macelleria. Laggiù, si diceva, il sangue era il miglior concime. Ne scorre tanto in questa storia, improntata com’è sulla crudeltà di Madre Natura e su quella imprevedibile del cuore degli uomini. Può crescere fertile, così, un capolavoro sui sogni d’evasione irraggiungibili come stelle e i rischi dell'incomunicabilità. Nel silenzio generale il non detto diventa un segreto, infatti: oggetto di ricatto e manipolazione psicologica. È un piccolo mondo antico da liberare dalla morsa della nostalgia, in cui il passato è impossibile da proporre e il presente è duro da accettare. È la fine dell’età dell’oro. Vecchio e nuovo possono convivere in pace, o il secondo rimpiazzerà violentemente il primo nell’incessante divenire del progresso?
Il mio voto:  ★★★★½
Il mio consiglio musicale: Hozier - Dinner & Diatribes 

lunedì 18 novembre 2019

I ♥ Telefilm: Looking for Alaska | The End of the F***ing World S02

Avevo sedici anni, John Green era il migliore autore dell’universo ed ero perdutamente innamorato di Alaska Young. Una che accumula libri usati come fossero gioielli. Una che beve, fuma, impreca. Una che la dà a tutti ma non si concede mai a nessuno. Uno di quei personaggi che a una certa età, insomma, segnano l’immaginario: dieci anni dopo non l’ho scordata. Anche se nel frattempo John Green ha scritto altro, superando il successo del suo esordio indie. Anche se non sempre l’ho apprezzato, in salute o in malattia. Ho scoperto una cosa: che la cotta per Alaska è rimasta incorrotta anche sul piccolo schermo. Oggetto di una miniserie Hulu senza una distribuzione italiana, il romanzo di formazione ambientato agli inizi del Duemila funziona alla perfezione anche a episodi con i suoi primi baci, primi strusciamenti, primi dolori. Purtroppo passata sotto silenzio, la trasposizione – un gioiellino di scrittura e recitazione – si è rivelata un impensato terremoto emotivo, capace dal nulla di riaprire vecchie ferite: a volte erano i segni dei dardi di Cupido, infatti, altre traumi insuperati. Pur senza meriti stilistici, Looking for Alaska conquista subito grazie a un’irriverente anima da canaglia, ma con il procedere della visione si rivela infine struggente. Quanti prodotti per ragazzi hanno il coraggio di mettere in scena l’assoluta centralità del dolore? Quanti sanno trattarlo senza l’intromissione del politicamente corretto, ma affrontandolo ora da una prospettiva religiosa, ora da una filosofica? Tutti all’inseguimento di un Grande Forse, i protagonisti fanno a gara di sbronze e sensi di colpa – e se sceneggia il veterano Josh Schwartz, piccole e grandi aggiunte daranno profondità anche ai comprimari: tralasciando un Charlie Plummer non all’altezza del ruolo di protagonista, gli applausi sono per Denny Love (uno straordinario Colonnello), Sofia Vassilieva (la dolcissima Lara), Ron Cephas Jones (il professor Hyde, qui con un amore omosessuale che emoziona). Tra grasse risate e pianti torrenziali, ho ricordato perché all’epoca ne avessi consigliato la lettura in lungo e in largo. E come mai alla protagonista del mio romanzo, più tardi, avrei dato i tratti dello sfuggente sogno erotico di Miles, qui interpretata da Kristine Froseth: bella come Margot Robbie, e per di più già bravissima, farà strada marciando su nuovi cuori infranti mentre il deejay passa Fix You. Lo spettatore, proprio come la matricola protagonista, la osserva e la venera, spaventato da un inquietante conto alla rovescia che avanza. Alaska Young resterà sempre il mistero della mia gioventù. E il giallo dei suoi spericolati anni alla Cobain, tutt’ora, sfavilla fino a farmi lacrimare. (8)

Lo abbiamo visto sia con The Handmaid’s Tale, sia con Big Little Lies. Pessima idea cavalcare l’onda del successo, se significa superare a piè pari l’intento originario dell’autore. Entrambe tratte da bestseller, le due serie TV hanno guadagnato stagioni aggiunte e perso infinita credibilità. Quando un romanzo viene annacquato per allungare il proverbiale brodo, infatti, difficile confidare in buoni risultati. Il pregiudizio è toccato anche alla seconda stagione di The End of the F***ing World: ispirata a un fumetto destinato a chiudersi con una scioccante tragedia finale, la fuga dei due sociopatici più amati di Netflix poteva forse avere un degno prosieguo? Al di sopra delle aspettative – pensati senza grandi forzature, ma assolutamente pretestuosi nello svolgimento – i nuovi otto episodi risultano sì superflui, ma hanno il merito di non snaturare la personalità dei personaggi e di allinearsi allo stile della prima stagione. I trascorsi di Alyssa e James, infatti, li hanno resi più buoni, più umani, più cresciuti. Purtroppo, anche meno spassosi. Lei, vestita di bianco, è una sposa in fuga il giorno delle nozze. Lui, impettito dentro un brutto abito elegante, porta un’urna sottobraccio di cui non svelerò il contenuto. Bravissimi e subito iconici, Jessica Barden e Alex Lawther sono diventati tutt’uno con i loro ruoli: tanto algida lei quanto adorabile lui, costituiscono una coppia tenera e mal assortita come poche. Per questo gli si vuol bene. Soprattutto in una stagione a corto di svolte, che gira in tondo e poi torna sui luoghi della prima, retta soltanto dall’innegabile alchimia del duo. Insieme, così, superano le incertezze e le lungaggini di una scrittura che vorrebbe stare al passo ma non può: non abbastanza caustica, non abbastanza memorabile. Brava altrettanto, qui, è colei che vorrebbe farli scoppiare: pazza d’amore, Naomi Ackie viaggia sul sedile posteriore e semina pallottole con incise promesse di morte. Poteva andare meglio. Poteva andare peggio. La decorosa via di mezzo accontenterà comunque i fan, sempre attratti dalla ricercata colonna sonora rètro, dalla regia hipster e dalla promessa di uno spasimatissimo lieto fine. Quest’ultimo non scontenterà nessuno, giuro. Neanche chi, vagamente deluso, non vorrà perdonare alla serie di non essere stata di nuovo la fine del mondo. (7)

sabato 16 novembre 2019

Recensione a basso costo: La simmetria dei desideri, di Eshkol Nevo

| La simmetria dei desideri, di Eshkol Nevo. Beat, € 9,90, pp.350 |

Le ragazze vanno e vengono, si dice, gli amici restano. A lungo è stato questo il mantra di un inseparabile quartetto di compagni di merenda, inquadrati qui in un ventennio di amicizia. Si sono conosciuti negli anni del liceo e dell’arruolamento militare. Quelli dell’indipendenza politica di Israele dalla Gran Bretagna. Quelli dell’indipendenza economica da famiglie, talora, oppressive e provinciali. Insieme si sono trasferiti dalla piccola Haifa a Tel Aviv, ognuno in cerca della propria affermazione in un Medio Oriente ricco e al passo, più vicino a noi di quanto immaginiamo. Gli opposti si attraggono. I protagonisti, apparentemente troppo diversi per andare d’accordo, compongono così una squadra vincente: di quelle da non cambiare mai. Che differenza passa tra una storia d’amore e una d’amicizia? Richiedono entrambe una costruzione lunga e faticosa. Ricordi condivisi, gioie e dolori, tante risate e sporadici abbracci. Un passato che spesso non ci è dato conoscere.
Il bravissimo Eshkol Nevo, atteso al cinema con la trasposizione di Tre piani a cura del nostro Moretti, ci regala il privilegio di entrare a far parte per un po’ del loro circolo elettivo. Purtroppo non ho grandi amici, soprattutto maschi. Ne so poco di cameratismo, partite di pallone e giuramenti solenni. Avrei potuto mantenere le distanze con Yuval e gli altri,  ma a sorpresa li ho profondamente invidiati. Provando un affetto che raramente riservo agli sconosciuti, meno ancora ai personaggi di finzione.

Ci poniamo delle mete, ne diventiamo schiavi. Siamo talmente impegnati a realizzarle, che non ci rendiamo conto che nel frattempo sono cambiate.
Ci sono Churchill, il leader del gruppo, soprannominato così per le arringhe appassionate del suo mestiere di avvocato; il dolce Amichail, marito di Ilana e genitore di due gemelle, che filosofeggia di medicina alternativa ma si gode intanto il ruolo di “mammo”; Ofir, pubblicitario in crisi esistenziale che all’improvviso scopre i pregi della spiritualità accanto alla danese Maria; infine il narratore. L’osservatore interno di cui finisci sempre per scordarti il nome. Un personaggio in disparte, nell’ombra giacché timidissimo, che con una certa amarezza mi ha ricordato proprio il sottoscritto. Basso, asmatico, spaiato, Yuval li guarda, li adora, pende dalle loro labbra. Rischia di vivere attraverso le azioni degli altri però; di rimanere indietro. Non lo taglieranno fuori quando saranno troppo felici, oppure troppo presi dai doveri familiari? A unire il quartetto non è soltanto un’invidia malcelata, ma un patto fatto davanti alla tivù. Guardando i Mondiali di calcio hanno scritto su un foglietto un paio di desideri a testa; ne hanno letto uno ciascuno, ma hanno giurato di scoprire gli altri al prossimo Mondiale, quattro anni dopo. 
Ci si mette la vita di mezzo, abile a mescolare le carte in tavola. Ci si mettono donne che somigliano alla fascinosa e incostante Yaara: fidanzata col narratore, passa presto tra le braccia di Churchill seminando imbarazzi e musi lunghi. Soprattutto perché sposarla era uno dei sogni per il futuro di Yuval. Tutto, allora, è perduto? 
I personaggi vivono in un’era senza social, dove i compagni di scuola persi di vista diventano leggende metropolitane. Per loro rrivano i trent’anni, e con essi il profondo senso di sconforto che portano con sé. A Tel Aviv si inaspriscono i conflitti fra ebrei e palestinesi. I topi di campagna si trasformano in topi di città, gli amori si avvicendano – per separazioni o lutti sconcertanti –, l’armonia è messa in pericolo.

Per fortuna che ci sono i Mondiali, così il tempo non diventa un blocco unico, e ogni quattro anni ci si può fermare a vedere cos’è cambiato.
Da traduttore a autore, ossessionato dalla scadenza dei famosi quattro anni, il protagonista diventa un custode di confessioni, confidenze, memorie. Rincasa da solo, in un appartamento angusto e senza bambini, e fa di quell’amicizia un’oasi felice in un mondo cinico e ostile. Ma se l’inciviltà regna, è possibile preservare l’armonia in un paese che è una maledetta polveriera? Meglio restare oppure fuggire per ricominciare altrove? E questo monologo, in definitiva, cos’è: un requiem oppure un messaggio di speranza?
Fatta eccezione per una mesta parentesi dedicata alla malasanità e per gli stralci superflui della tesi del protagonista, esperto di filosofi che all’ultimo hanno cambiato opinione, La simmetria dei desideri è una commedia agrodolce che fa il bello e il cattivo tempo, ridere e piangere insieme. Nella descrizione millimetrica dell’incedere impietoso del tempo e della persistenza dei sentimenti mi ha ricordato il miglior Nicholls. Ai picchi di ilarità rispondono infatti buie voragini di depressione: momenti sorretti da un’idea di partenza brillante giacché assai plausibile.
Lo sviluppo, lineare e senza particolari guizzi, è di quelli non guidati dalla grandezza degli eventi bensì dalla potenza comunicativa di un cast di personaggi indimenticabili. Per realizzare i loro desideri, i quattro si pestano i piedi, imbrogliano, se li rubano a vicenda. Ma la scrittura di Nevo è così vibrante da bilanciare qualsiasi disparità e da dare voce al membro più marginale della comitiva. Fa goal, infine, con un post scriptum da lacrime. 
Avete scommesso attentamente su quale squadra puntare? La più bella e affiatata di questo campionato, di quest’anno di libri, è in trasferta dal Paese che non ti aspetti.
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Francesco De Gregori – La leva calcistica della classe ’68

mercoledì 13 novembre 2019

Recensione: Cercami, di André Aciman

| Cercami, di André Aciman. Guanda, € 18, pp. 278 |


Elio e Oliver. Tutti fanno cenno alla loro storia d’amore, nessuno li ha dimenticati. Ma per tre quarti di Cercami, il romanzo che avrebbe dovuto riunirli, non condividono mai la stessa pagina. Forse, e dico forse, soltanto l’epilogo li vedrà insieme: difficile, tuttavia, prevedere se sarà felice o meno. Questo sequel che tale non è, a ben vedere, prenderà in contropiede gli eterni romantici che aspettavano un ritorno di fiamma in linea con i toni della prima volta. Diversissimo e spiazzante, ambientato a decenni da quella famosa estate italiana, l’ultimo romanzo di André Aciman è una caccia a Cupido che sconsiglio a coloro che erano interessati unicamente a conoscere la sorte dei due innamorati dopo il crepacuore dei titoli di coda. Mal sopportando i romanzi autoreferenziali e il fanservice – insomma, gli strascichi fuori tempo massimo –, non ho potuto fare a meno di accogliere a braccia aperte la virata a sorpresa dell’autore di Chiamami col tuo nome: un ritorno costituito da storie dentro storie, in cui i personaggi interpretati al cinema da Thimotée Chalamet e Armie Hammer hanno all’apparenza ruoli secondari. Basta forse questo a precludere la lettura di un romanzo, per il resto, intensissimo e narrato con grazia estrema? Si può attualizzare il passato, o limitarsi a vivere in funzione di esso? Se lo chiedono attanti vecchi e nuovi, mentre leggono le inquietudini di un giovane Dostoevskij e si struggono nella bellezza degli amori istantanei: speciali perché impossibili.

Eppure ci dev’essere almeno una piccola gioia nello scoprire che ognuno di noi si trova nella posizione di completare le vite di altri, di chiudere il libro mastro che hanno lasciato aperto e di giocare l’ultima carta al posto loro. Che cosa potrebbe esserci di più gratificante di sapere che spetterà sempre ad altri completare e concludere la nostra vita? A qualcuno che abbiamo amato e ci ama abbastanza per farlo. Nel mio caso, mi piacerebbe pensare che sarai tu, anche se non staremo più insieme. È come sapere chi sarà a persona che verrà a chiudermi gli occhi. Voglio che sia tu, Elio.
Samuel, il padre di Elio, siede su un Freccia per Roma. Prepara l’intervento per un convegno, rimugina su un incontro di famiglia mandato a monte, condivide convenevoli con una vicina di posto di nome Miranda: una fotografa con il look da maschiaccio che in teoria ama la solitudine, ma in pratica ricerca il dialogo; va da sé l’invito a filosofeggiare anche a pranzo, a rivedersi con una scusa da poco, nonostante ci siano trent’anni di differenza a dividerli e la tappa nel capoluogo laziale non sia di piacere. Sui luoghi della sua giovinezza, fra chiese, caffè ed enoteche, Samuel si accorge di non essere mai stato felice e, come ricorderete dal commovente monologo del romanzo precedente, non contempla una vita senza amore.
Elio, alle prese con un’altra tappa della sua formazione, si esibisce come pianista a Parigi. Rimasto fragile e bisognoso, attratto dall’abbraccio di uomini potenti, a un concerto conosce l’anziano Michel. Trattato ora come un figlio, ora come un oggetto del desiderio, il ventenne gode dei comfort di un appartamento alto-borghese e delle attenzioni di un nuovo Pigmalione. Insieme s’imbatteranno nel mistero di un assolo per pianoforte – eredità del padre di Michel –, e la ricerca li metterà sulle tracce di un musicista ebreo morto ai tempi della Seconda guerra mondiale.
Oliver, invece, in un loft affacciato sulle sponde dell’Hudson, festeggia con fiumi di prosecco il suo ultimo giorno a New York. Gli ospiti, i brindisi e il dramma della retrocessione in un’università del New Hampshire semineranno risentimenti tra lui e la moglie: soprattutto se due degli invitati, Erica e Paul, lo spingono a fantasticare su plausibili mènage a trois e sullo spettro di un adolescente coi pantaloncini corti, amato segretamente vent’anni prima. Un pianoforte inutilizzato e un pezzo di Bach creeranno un ponte per scappare, si spera, dalle costrizioni di una non-vita.

La musica non è altro che il suono dei nostri rimpianti tradotto in una cadenza che stimola l’illusione del piacere e della speranza. È la cosa che ci ricorda con maggiore evidenza che siamo qui per un brevissimo lasso di tempo e che abbiamo trascurato o ingannato le nostre vite o, peggio ancora, non le abbiamo vissute. La musica è la vita non vissuta. 
Questi tre racconti apparentemente a sé stanti, ambientati in tre diverse città del mondo, sono destinati a incrociarsi con un po’ di pazienza e di magia. Ogni storia risolve la precedente, infatti, in pagine dai ritmi cinematografici – quanti dialoghi fiume; quanta attenzione verso l’erotismo degli sfioramenti casuali o dei lembi di pelle sbirciati sovrappensiero – in cui rintracciare gli stessi dialoghi ai limiti dell’artificiosità, la stessa resa affascinante di mondi colti e irraggiungibili. Dediti ai rossi corposi, alle cene prelibate e ai discorsi sui massimi sistemi, i protagonisti di Aciman flirtano semplicemente aprendo bocca e nelle relazioni sfoggiano una naturalezza che va a braccetto con la libertà. Sapiosessuali – definizione perfetta per chi come loro si lascia sedurre soprattutto dai fuochi d’artificio di una testa pensante, non da un corpo scolpito –, vantano uomini e donne nella schiera degli amanti e popolano una bolla elitaria che ispira sincera invidia.
Dall’estate calda e vitale del capitolo introduttivo, però, sono passati a autunni uggiosi e contemplativi degni di un quadro di Corot. Parlano per tutto il tempo, come i turisti di Prima dell’alba. Non smettono di credere nei giochi del destino o nell’esistenza del colpo di fulmine. Trascorro notti in bianco, quando su di giri, o rubano l’oro in bocca alle mattine del nostro proverbio. Provengono da ambienti signorili, condividono radici ebraiche, sperimentano l’intimità sempre incuranti delle differenze anagrafiche.

«Quando vengo qui, che sia da solo o con altra gente, con voi per esempio, sono sempre con lui. Se restassi qui un’ora a fissare questo muro, starei con lui per un’ora. Se parlassi con questo muro, mi risponderebbe.»
[...] 
«Che cosa mi direbbe? Semplice: “Cercami, trovami”.»
«E tu che cosa risponderesti?»
«La stessa cosa. “Cercami, trovami”. E siamo entrambi felici. Adesso lo sapete.»
Ognuno tira le fila di un’altra esistenza lasciata in sospeso. Ognuno, seguendo il filo conduttore del rimpianto, cerca qualcosa fino a venire a capo del bandolo della matassa: il vicolo in cui Elio e Oliver hanno bevuto fino al vomito, le motivazioni di un lascito enigmatico, la classica seconda possibilità. 
Cerca qualcosa anche il lettore affezionato – sul Lungotevere, o fra le note di un pentagramma criptato. In questo romanzo troverà ciò che non si sarebbe aspettato all’inizio. È il bello della serendipità: una delle mie parole preferite. Imbattersi in qualcosa, e in qualcuno, che non stavamo cercando. Ma simili gite fuori porta, quando ben accolte, rendono un piacere perfino smarrirsi.
Il mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Lucio Battisti – E penso a te 

lunedì 11 novembre 2019

I ♥ Telefilm: BoJack Horseman S06 | The Kominsky Method S02 | Shameless S09 | Extravergine

Scoperta appena qualche anno fa, si è imposta subito come una delle serie del cuore. BoJack Horseman, infatti, non è soltanto l’ennesimo esempio di un’animazione per adulti che parla alla maniera dei grandi autori. È uno stato d’animo. È uno stile di vita. Tutto finisce, e a volte è sacrosanto così: la parentesi della  serie Netflix, destinata a concludersi in un secondo arco di episodi previsto per gennaio, sta per chiudersi. Degnamente? Difficile dirlo, dal poco che si è visto; bello sperarlo. La visione di questi otto episodi non è stata particolarmente consolante, anzi, costituiscono l’intermezzo più trascurabile di un colpo di fulmine lungo sei stagioni. Cos’è successo? Purtroppo niente di che. Il nostro anti-eroe sta cercando di fare ammenda: ormai in riabilitazione, rivanga gli sbagli passati e soprattutto il giallo della scomparsa di Sarah Lynne. Ma il suo piangersi addosso, questa volta, irrita e annoia. Le cose vanno meglio per Princess Carolyne e Todd, che insieme si prendono cura di un’adorabile cucciolo di porcospino: tenerezza a parte, però, le svolte narrative latitano. Allora ci si consola con Diane e Mr. Peanutbutter: benché non più in coppia, i due rubano la scena con i momenti più appassionanti – lei a Chicago con un nuovo compagno. lui in attesa di convolare a nozze. Il resto? Scenette giustapposte in cui la scrittura si rivela a digiuno di guizzi, con personaggi fuori forma e un’emozione che – fatta eccezione per il settimo episodio, per me il degno finale di questa midseason  – ci si nega. Non dispero. In quel di Holliwoo siamo abituati agli scoop, ai colpi di scena, ai rovesci di fortuna. Ma l’amarezza di questa piccola delusione basta a farmi dire: inutile compiangerlo, BoJack forse ha davvero esaurito gli spunti.

Relegata in quattro e quattr’otto a comedy da seguire durante i pasti, The Kominsky Method di lì a poco si sarebbe divertita a prendermi in contropiede. La solita serie su un paio di adorabili brontoloni alle prese con gli acciacchi della terza età, infatti, avrebbe conquistato i Golden Globe tra sorpresa e scetticismo. Possibile che l’avessi presa sotto gamba? Non lo saprò mai, immagino, ma ho fatto pace con Sandy e Norman grazie a una seconda stagione finalmente all’altezza. Un ritorno di fiamma che somiglia proprio al mancato colpo di fulmine dello scorso anno. La formula, eppure, resta invariata. Ma succede che l’insegnante di recitazione Michael Douglas, sempre affascinantissimo ma allarmato qui da nuove problematiche di salute, riveli un’umanità dolente che non ti saresti aspettato: più bendisposto verso il prossimo, dice sì all’amicizia con una donna e al fidanzato sessantenne della figlia Mandy, interpretato da un irresistibile Paul Reiser. Succede, ancora, che il sarcastico e rancoroso Alan Arkin faccia pace con la figlia alcolista – è uscita definitivamente dal tunnel? – e con lo spettro della moglie Eileen, destinata a far posto a una splendida fidanzata di gioventù. La scrittura di Lorre è più profonda e divertente che mai, e si fa dell’invidiabile autoironia sul mestiere dell’attore – tanto spazio agli allievi di Sandy, con monologhi tratti dalle migliori pièce e un’apparizione del premio Oscar Allison Janney – e perfino sulla comicità tipica delle sitcom – a scuola di recitazione non si portano soltanto pezzi tratti da Il dubbio o Apocalypse Now, infatti, ma anche gli sketch di Due uomini e mezzo. Finalmente a fuoco, brillante come non avevo creduto in passato, The Kominsky Method ha un cast che cresce e una scrittura di qualità. No, non è la classica storia sugli anziani brontoloni. Da ora posso garantirlo anch’io. Per ravvedersi non serve aspettare la saggezza della senilità. (7,5)

Da un decennio ho una costante. Vive nello squallore della periferia di Chicago, risponde al nome di casa Gallagher. Ma ogni relazione conosce momenti di riflessioni, crisi, attimi che attentano al desiderio. Tra me e Shameless è successo con la nona stagione. Ho iniziato a vederla seguendo la programmazione americana e l’ho abbandonata presto, cosa mai accaduta. Colpa di attori importanti che abbandonavano il cast. Colpa, soprattutto, dell’impressione che non avessero tutti i torti: questa banda di matti, ormai, si trascina. Ma con un anno di ritardo sono tornato alla loro porta. Da dirmi avevano poco ugualmente, già, ma la verità è che mi mancavano da morire. Ian, il primo del cast a tagliare la corda, esce presto di scena e indossa la divisa da carcerato; Lip cerca l’equilibrio interiore e le solite ragazze già impegnate; Frank esagera al solito con trovate strampalate e raggiri – questa volta ha una terapeuta bipolare da ingravidare –, e assieme a lui fanno altrettanto Veronica e Kevin. Vere mattatrici della scena sono allora Debbie e Fiona. Se la prima, matura  e volitiva, si assume le responsabilità che spetterebbero al capofamiglia, l’altra ci ricasca: uomini bastardi, piani fallimentari, alcol e droghe. Degna erede di suo padre, si copre di ferite e ridicolo; diventa insopportabile. Ma permette a Emmy Rossum, altra colonna della serie che ci dice addio, di congedarsi con una performance ingiustamente passata in sordina. La decima stagiona va in onda in questi giorni in patria, con una nuova sigla e qualche posto in meno a tavola. Pace è stata fatta, forse, ma non ho fretta. Che la fine sia vicina o meno – sarebbe auspicabile salutare i Gallagher al decimo anniversario –, tornerò in periferia non per curiosità ma per nostalgia. (7)

Si chiama Dafne Amoroso, ha trent’anni e lavora in una redazione alla moda. Vorrebbe scrivere di libri, ma pare che in una Milano tinta di rosa nessuno legga più. Il sesso, al contrario, incuriosisce e solletica. Galeotto un equivoco a tinte bollenti, la protagonista cambia disciplina: dalle novità in libreria ai segreti della camera da letto, senza prima passare dal via. Dafne ha un segreto di cui si vergogna un po’. È ancora vergine. La conoscenza di un bel fotografo potrebbe rendere semplice colmare l’imbarazzante lacuna, ma una ragazza romantica e di sani principi può forse dare cuore e corpo al primo arrivato? Un appuntamento ogni settimana, venti minuti a episodio, volti freschi e la regia di una professionista scoperta con il visionario Riccardo va all’inferno. Capitanato dall’adorabile Lodovica Comello e diretto da Roberta Torre, appassionata di simmetrie ipnotiche e tinte lisergiche, Extravergine avrebbe potuto essere la commedia d’autore che mancava all’Italia. Annunciata come un incrocio tra Bridget Jones e Sex and The City, non ha né l’ironia della single londinese né la sfacciataggine delle amiche di New York. Si lascia seguire, soprattutto per le trovate visive della Torre e le smorfie della bella conduttrice TV – il rischio che stufino entrambe, però, spesso c’è –, ma in dieci episodi leggerissimi troviamo un’idea piacevole e nessuna identità precisa. Il genere chick-lit infatti neanche a puntate, nemmeno in Italia, può permettersi tutto questo candore o una scrittura dai ritmi svogliati. Riuscirà Dafne a perde la verginità, magari incontrando anche il principe azzurro? Dopo aver trovato risposta alla domanda – comunque non abbastanza solida per costituire le fondamenta di una serie TV –, niente ci impedirà di cambiare canale. (5,5)

sabato 9 novembre 2019

Mr. Ciak: Parasite | Doctor Sleep | L'uomo del labirinto

Li vediamo setacciare la casa, un seminterrato infestato dalle blatte, in cerca del segnale wi-fi da rubare ai vicini. Sono i membri di una famiglia di disperati che all’occorrenza sa reinventarsi, glissando sui legami di parentela o pompando il curriculum. Qualcuno potrebbe definirli degli imbroglioni, parassiti. Ma se appaiono in verità un gruppo di lavoratori instancabili, che male c’è a insediarsi a casa dei ricchi facendo qualche sgambetto per primeggiare? Agli antipodi, infatti, c’è una villa che è un capolavoro di design: due bambini irrequieti, cagnetti di razza e una coppia di genitori attraenti, con il classico uomo d’affari assente e una moglie con la testa tra le nuvole. In un Oriente devastato dalla lotta di classe e dalle disparità, è necessario fare di necessità virtù: in nome di una strana forma di nepotismo, piano piano, i protagonisti – un tutor d’inglese, una maestra d’arte, un autista e una domestica – rimpiazzano il personale preesistente. Quando i gatti non ci sono, i topi ballano. E nel tempo restante recitano come attori navigati la loro lista di menzogne, soprattutto se c’è da coprire le tracce dei loro dispetti. Ma potrebbe smascherarli un odore che fa arricciare il naso ai potenti. È quello di chi condivide lo stesso sangue sporco. È quello della povertà. Guerra tra disperati al tempo dei ricatti online e dei rifugi anti-Corea del Nord, l’ultimo vincitore della Palma d’oro è una commedia caustica e divertentissima, talora dai toni perfino fiabeschi, che spiazza con il bagno di sangue dell’epilogo e riflessioni a proposito di disparità sociali esemplificate nel contrasto alto-basso, grigliate in giardino ed esondazioni da arginare. Si ride a denti stretti e ci si indigna fino a perdere le staffe, senza però ricorrere mai a passaggi didascalici. Imbastito come una tragicommedia degli equivoci, ma teso come un thriller psicologico, Parasite si poggia su una sceneggiatura da Oscar e sulla regia millimetrica di Bong Jooh-ho. I colpi bassi, gli spruzzi di sangue e una vena sentimentale fortissima porteranno, nonostante tutto, a una di quelle chiuse commoventi possibili grazie alla magia del cinema asiatico. Ai travasi di bile, infatti, si risponde con una risata isterica degna di Arthur Fleck e con un messaggio di resilienza in codice Morse. Abbiate cura di questi parassiti, non correte ai ripari con la disinfestazione. Sono i protagonisti del mio film dell’anno. (9)

Qual è il termine oltre il quale un sequel può dirsi fuori tempo? Sono passati trentanove anni da Shining e sei dall’arrivo in libreria del secondo capitolo. King, infatti, aveva un conto in sospeso con questa storia. Ai ferri corti con Kubrick – regista colpevole di avere stravolto il materiale di partenza dello scrittore del Maine –, ha voluto ricondurci all’Overlook attraverso le disavventure di un Danny cresciuto. Tanto di cappello al talento di Mike Flanagan, questa volta schiacciato tra l’incudine e il martello: da un lato la visione di Kubrick e dall’altra quella di King; da un lato un epilogo sotto zero e dall’altro un drappo di fuoco e fiamme. Avrebbe saputo mediare? Equilibrista e arredatore di incubi bellissimi, fa il possibile confezionando l’intrattenimento che non ti aspetteresti sotto Halloween: un film lungo ed elegante, con nessun sobbalzo e una squadra di cattivi – capitanati da una magnetica Ferguson, superiore al resto del cast  – protagonista tanto quanto gli eroi. Meno spavaldo del previsto, fedele a un seguito che parte da lontano e giunge all’hotel con un pretesto da poco, Flanagan non si butta a bomba. Si prende il suo tempo: ossia quasi tre ore. Ci insegna, con la solita emozione, che non tutte le paure vanno chiuse in un cassetto. Ci mostra, in una sequenza debitrice agli archivi di Inside Out, i cassettoni dove sono racchiusi i segreti e le memorie di una bambina speciale – e guai a frugarci dentro, benché la sequenza del viaggio astrale di Rose Cilindro sia una delle migliori del film. Flanagan fa il giro lungo e, quando arriva al punto di partenza rifiuta di entrare dalla porta principale. Crea enfasi, ci prepara alla resa dei conti. E ci porta infine lì dove perfino un profano non vedeva l’ora di tornare: i corridoi dove si annidano le gemelle diaboliche, le vecchie marcescenti e i tricicli spericolati. Proprio qui, ahimè, si nascondono le pecche di un’operazione troppo rispettosa per rischiare, che prepara il terreno all’omaggio anziché preoccuparsi di essere memorabile. È fuori tempo massimo il sequel che adesso deve fare i conti anche con la Stranger Things mania – soprattutto se, a ben vedere, Dan e Abra ricordano Hopper ed Eleven? È destinato a rimanere nell’ombra l’horror che per incutere paura si limita a macinare strizzate d’occhio e citazioni? Ai posteri la sentenza. Nel dubbio, risulta comunque gradevole il dialogo telepatico e intergenerazionale tra passato e presente. Anche se la “luccicanza” di Doctor Sleep, con affetto, è luce riflessa. (6,5)

Ci sono storie che funzionano meglio su carta, perché troppo lunghe, troppo intricate, troppo immaginifiche. E  ci sono quei finali abbastanza clamorosi, per fortuna, da funzionare dappertutto. È questo il destino dell’Uomo del labirinto, ritorno alla regia dell’autore Donato Carrisi. Questa volta, come sapranno i lettori a lui affezionati, la faccenda si complica ulteriormente: ci sono un profiler straniero, un investigatore dalle ore contate e una ragazza sopravvissuta alle sevizie di un moderno Enigmista. Siamo in un tempo vago, al centro di una metropoli devastata dalla canicola e dagli annunci apocalittici. Ma i nomi dei personaggi, un po’ italiani e un po’ stranieri per depistarci, rendono le ambientazioni tanto care all’autore vagamente posticce nel passaggio al cinema. La sensazione iniziale, infatti, è quella di trovarsi in un girone infernale – fra figuranti spaventosi e testimoni grotteschi – grazie alle tappe di una caccia al tesoro forse più adatta al linguaggio delle serie TV. Donato ha cura nel dettaglio delle scenografie e della messa in camera, e dirige senza ansia da prestazione un cast di stelle non sempre brillanti come la loro fama garantirebbe: se Hoffman prende parte alla produzione devotamente e umilmente, con un ruolo piuttosto stratificato, il collega Servillo esagera in una prova sin troppo manierata; un plauso alla Bellè, invece, imbruttita e costretta in un letto d’ospedale, che regala anima e corpo al personaggio della mancata vittima – nonostante qui e lì, purtroppo, il doppiaggio  ne appiattisca le buone intenzioni. I difetti non sono pochi, e comprendono anche lungaggini e sottotrame da asciugare in fase di sceneggiatura, e superano senz’altro quelli del giallo precedente: una storia più radicata nel nostro paese, al contrario, che guardava alla cronaca nera anziché ai puzzle di Christopher Nolan e poteva vantare a bordo un ispirato Boni. Ma le sbavature hanno tutte a che fare con la passione di un professionista, narratore in primis, che nel passaggio alla pellicola tende a mettere tanto, troppo del proprio universo espanso: anche a rischio di confondere i profani. Con l’ambizione di un novello Icaro che si brucia, vero, ma lascia comunque ammirati. In un panorama italiano a corto di thriller, di colpi di scena o di testa, come non restare affascinati dalla follia di un salto più lungo della gamba? (7)

mercoledì 6 novembre 2019

Recensione: Un altro candore, di Giacomo Verri

Un altro candore, di Giacomo Verri. Nutrimenti, € 18, pp. 255 |

Lo scorso aprile mi sono laureato con una tesi su Beppe Fenoglio, scrittore dalla vita breve riscoperto dai filologi italiani del secondo Novecento. Di un autore famoso soprattutto per il successo tardivo di Una questione privata e per un carattere ai limiti della misantropia ho scelto di indagare aspetti meno conosciuti: l’educazione scolastica e sentimentale,  per mostrarlo eccezionalmente irrequieto alle prese con lo sport, le prime cotte non corrisposte, l’imprinting verso la letteratura anglosassone; la sparuta produzione drammaturgica – punto d’arrivo e d’approdo della sua sfortunata carriera –, inscindibile dai capolavori della prosa. Storie d’amore e Resistenza struggenti, inscenate sullo sfondo nebbioso delle Langhe, le opere di Fenoglio mostravano il conflitto armato da una doppia prospettiva: quella dei partigiani e quella dei civili, concentrandosi sugli strascichi della violenza e sull’intimità della dimensione quotidiana.
Un altro candore ha fatto sua la lezione dell’autore partigiano, nonché il desiderio condiviso di mediare tra narrativa italiana e americana nel solco della short story. Giacomo Verri, classe 1978, conosce a menadito la tematica – il suo romanzo d’esordio s’intitola proprio Partigiano inverno – e in esergo cita un passaggio di Tom Drury, di cui ho letto La fine dei vandalismi senza la spinta necessaria per recuperare, però, i restanti capitoli della trilogia.

Non sapeva parlarmi d’amore se non dicendomi cose grandi e infelici. Così avevo paura che innamorarsi significasse diventare tristi.
Ambientato in un paese del Nord, sotto un monte che ricorda un panettone, Un altro candore è uno spaccato sommesso della provincia italiana. Persone perbene, occupazioni umili, episodi giustapposti di rapporti di lavoro e matrimoni, famiglie felici e famiglie infelici. Generazioni lontane. Come sono cambiati gli abitanti di Giava in cinquant’anni? Alla ricerca di gradi di parentela e legami, il lettore ha tre personaggi per orientarsi: Claudio, Franco e Cristina. Inseparabili ai tempi della guerra, costituivano un triangolo destinato a sfaldarsi. I due uomini si amavano in segreto, infatti, e la ragazza era a sua volta innamorata di uno dei due: l’impossibilità dei loro sentimenti amareggia e commuove, soprattutto all’indomani della Liberazione. Il venticinque aprile segna la dispersione dei tre, che coltivano a distanza i loro rimpianti. In amore si stava meglio quando si stava peggio? 
Il romanzo prende avvio negli anni Novanta e si dirama in lunghi flashback, per me non sempre necessari. L’anziano Claudio ha represso la sua sessualità, ha sposato Dora, e i coniugi si fanno reciproca compagnia guardando I segreti di Twin Peaks sul divano. E c’è un segreto anche tra di loro – l’ombra dell'amato Franco, tornato in mente in periodo di bilanci – con cui venire finalmente a patti dopo quarant’anni di matrimonio. 
Mentre Cristina sceglieva invece la via della prostituzione, dopo il sogno infranto di una carriera al cinema, qualcun altro ne seguiva per tutto il tempo le mosse da lontano: Sebastiano – appena un bambino all’epoca dei fatti, con le mani tuttavia già macchiate del sangue dei fascisti – è cresciuto nell’adorazione della sfrontata partigiana, al punto da mandare a monte ogni relazione in nome del colpo di fulmine.

Non ti annoierai, signor Benetti, disse lei scherzando. Io ci sono ancora e tu non scapperai.  Mi vuoi bene. E lui, chissà, sarà sposato o vedovo o solo. Parlerete, racconterete delle cose. Tutto qui. Sarà come rinfrescarsi la memoria, riabbracciare un vecchio amico. Alla nostra età l’amore assomiglia troppo all’affetto. Se tu ne hai provato e ne provi ancora per lui, o per il ricordo che hai di lui, dimostraglielo. Non farai del male a nessuno.
Presentato a torto come la storia di un amore omosessuale, Un altro candore trova un’inattesa dimensione corale mentre si passa dal color seppia della guerra mondiale ai colori degli anni Novanta, con il rischio che in una struttura accorata ma un po’ confusionaria si perdano di vista i personaggi che, da sinossi, stavano più a cuore. 
Perfino la Resistenza – i ripari di fortuna, il freddo, le fughe, le liti con il comandante Vladimir – appare una breve parentesi in mezzo a pagine in cui si mescolano discorsi diretti liberi, descrizioni paesaggistiche, nomi all’inizio difficili da identificare. 
Partito sotto i migliori auspici, con uno spunto toccante e una scrittura ricercata, il bravo Verri finisce a volte per perdere di vista il punto della situazione, confondendo le acque con sottotrame poco fondamentali ai fini del romanzo – quella del giovane Marco, ad esempio, manovale di Claudio innamorato della figlia di Cristina – e un epilogo che potrebbe lasciare delusi gli amanti dei finali netti. Abbondano i figuranti, i gradi di parentela, le cose non dette; i frammenti sparsi di un puzzle che, soprattutto a una lettura distratta, potrebbero fare fatica a incastrarsi. Ma i toni sono per fortuna di quelli bellissimi, da ballata country, e non tutte le letture diverse dal previsto vengono per nuocere.
Sospeso nei «forse» e nei «se», Un altro candore lascia in dubbio le sorti degli abitanti di Giava: nel bene e nel male, esseri umani così palpabili, così veri, che andranno avanti anche senza di noi. A libro terminato.
Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale:  Motta – Verranno a chiederti del nostro amore

lunedì 4 novembre 2019

Recensione: La camera azzurra, di Georges Simenon

| La camera azzurra, di Georges Simenon. Adelphi, € 11, pp. 153 |

Si incontrano ogni giovedì. Il segnale per dirsi disponibili è un asciugamano lasciato volutamente a sventolare sul davanzale. Il luogo che ospita i loro appuntamenti sensuali e truffaldini, la camera numero tre dell’Hotel des Voyageurs. Sullo sfondo, intanto, sonnecchia pigra ma tutt’altro che indifferente la città costiera di Saint-Justin, distante anni luce dallo sfarzo metropolitano di Parigi. Gli amanti clandestini si chiamano Tony e Andrée.
Lui, sciupafemmine di origini italiane non nuovo all’adulterio, ha a casa una bambina curiosa e una moglie dimessa di nome Gisèle. Lei, moglie insoddisfatta del cagionevole garzone Nicolas, è una ex compagna di scuola da sempre infatuata dell’uomo: galeotto un guasto all’automobile, scoppia una passione bruciante all’inseguimento del tempo perduto. Gli amplessi sono famelici, orgasmi senza precauzioni – e strascichi?
I loro incontri, otto in totale, sono spalmati in undici mesi d’amore. Ma se l’inebriato Tony si dà a promesse da poco, dettate soprattutto dall’eccitamento momentaneo, Andrée al contrario ci spera: parla di un futuro insieme. Se uno dei due fosse ufficialmente libero, domanda all’amante, cosa farebbe l’altra persona? Lo seguirebbe, lo asseconderebbe: vorrebbe amarlo alla luce del sole? Le pressioni di lei alimentano le paranoie ossessive di lui; le lettere sentimentali, mandate in forma anonima, vengono scambiate per minacce davanti all'arrivo di un mistero. Se in un romanzo breve di Georges Simenon, anima del commissario Maigret, le angosciose preoccupazioni del protagonista appariranno infatti assolutamente legittime.

Non era una cosa reale. Non c’era niente di reale nella camera azzurra. O piuttosto si trattava di una realtà diversa, impossibile da comprendere altrove.

A volte spettatore passivo, altre manipolatore inafferrabile, Tony è sottoposto a interrogatori ininterrotti inframmezzati dai flashback della tresca. Inequivocabilmente, c’è un cadavere di cui domandare spiegazioni. Ma difficile dire chi sia il morto, se non a un passo dalla fine, o anticipare  le contraddizioni dei protagonisti sotto indagine. Una cosa è certa: l’adulterio non è la sola macchia sulla coscienza dell’italiano. Benché raccontato in terza persona, La camera azzurra sembra avere la voce stessa del coro degli accusatori. Al contrario di quella compagna ignara per quieto vivere, in provincia tutti sapevano delle lenzuola sgualcite dopo le visite all’hotel.
La struttura è originalissima, i gesti dei personaggi restano ambigui anche nella chiusa a effetto, frasi e immagini tormentano il lettore come un sinistro refrain. La carica erotica che sprigionano le pagine – i dialoghi scabrosi, gli umori corporei messi al vaglio – appare insolita per gli anni Sessanta. Il mio primo Simenon, acquistato sovrappensiero all’edicola della stazione, si è lasciato divorare in un pomeriggio. E affascina ancora per la modernità dell’orchestrazione, per le malie di una femme fatale nell’ombra e per lo spaccato veritiero di una routine matrimoniale che ha bisogno di una scintilla estranea per sopravvivere oppure bruciare. Dal mistero, però, mi aspettavo qualche lato oscuro più accentuato; spire avvolgenti in cui perdermi fino all’asfissia.

Era vero. In quel momento tutto era vero, perché viveva ogni cosa così come veniva, senza chiedersi niente, senza cercare di capire, senza neppure sospettare che un giorno ci sarebbe stato qualcosa da capire.

Il parziale apprezzamento del classico del noir deve fare i conti con la mia famigerata incapacità di astrarre. Se razionalmente so che la penna di Georges Simenon è giunta ben prima di The Affair, Attrazione Fatale e L’amore infedele a scandagliare le pieghe pericolose delle relazioni extraconiugali, passando alla pratica è stato invece difficile godersi appieno la storia avendo già fatto la conoscenza di film e romanzi che ne hanno saccheggiato le idee, le intenzioni, gli spunti. Il rischio: far perdere alla lettura parte della sua carica eversiva, con una vicenda rivista spessissimo in tempi recenti attraverso ammodernamenti, semplificazioni, riscritture non dichiarate.
Resta uno spirito che fa tutt’oggi la differenza. Il desiderio di non farne una semplice indagine, mettendo al centro – del tavolo autoptico, del letto – non l’intreccio arzigogolato bensì i personaggi nudi e crudi. Uomini e donne sfaccettati, pieni di secondi fini e doppiezze, che preoccupano e divertono da morire. Mi ha ingannato la fama dell’autore. Se il giallo mi è parso meno abbagliante del previsto, ho preferito allora lasciarmi ipnotizzare dall’azzurro di una camera da letto in cui si è fedeli soltanto agli istinti animali e alla stricnina.
Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Gino Paoli - Il cielo in una stanza