martedì 9 maggio 2023

Recensione: Uvaspina, di Monica Acito

| Uvaspina, di Monica Acito. Bompiani, € 20, pp. 416 |

Ho radici frastagliate, io. Un accento strano, difficile da indovinare. Ho rubato la parlata al luogo in cui sono nato, alle città in cui mi sono trasferito, ai miei genitori. Quando mi arrabbio, lo faccio come mamma e papà: in napoletano. La lingua delle parolacce. Del cuore e delle viscere. Si trovano la stessa istintività, la stessa musicalità scassata, nell'esordio di Monica Acito. Un'opera prima che, nel bene e nel male, somiglia alla sua città: Napoli. Generoso, barocco, saturo fino a scoppiare, racconta con stile funambolico la funambolica storia di una famiglia infelice a modo suo. Quando la Spaiata (che di mestiere si si strugge ai funerali degli sconosciuti nell'umile Forcella, abile a “chiagnere e fottere”) sposa Pasquale Riccio (figlio di un famoso notaio dei quartieri alti, pieno di debiti e smanie) dalla loro unione nascono due figli rissosi ma inseparabili.

C'era un punto di non ritorno, al di là dell'invidia, ma a quel punto nessuno ci voleva mai arrivare, perché sotto le crepe dell'invidia c'era una sorgente carsica di amore sconfitto.

Il primogenito, detto Uvaspina, ha una voglia a forma di chicco sul volto e la stessa pelle traslucida di un frutto: sospeso tra i sessi, bellissimo ed efebico, sembra essere della specie dei femminielli o dei semidei. Sua più spietata carnefice, sua boia e liberatrice, è la sorella Minuccia: una giovane dispettosa e imprevedibile, come le eruzioni del Vesuvio, difficile da accasare e da saziare; con la sua fame nervosa, bulimica, divorerebbe anche il sangue del suo sangue. Il destino di Uvaspina, strizzato costantemente come il frutto di cui porta il soprannome, è portare pazienza. Ma come può continuare a vivacchiare se la conoscenza di Antonio, pescatore dagli occhi bicolore desideroso di una scalata sociale per riscattare la mamma dalla miseria, gli fa venire l'improvvisa voglia di fare l'amore sulle scale di Palazzo Donn'Anna? Ogni personaggio ha una ricca vita intima. Ogni angolo della città racconta una storia d'amore infelice. Ogni pagina scoppia di dettagli, odori, suoni, colori. All'ombra del Vesuvio, sotto un'aura magica di miti e leggende, è possibile predire l'identità dell'anima gemella; gettare fatture mortali; innamorarsi al suon di aneddoti su regine e puttane.

Le mani di Antonio risvegliavano tutto, con una potenza dolorosa che faceva gemere Uvaspina come una giovenca: nel tocco di Antonio c'era la misura di tutto l'amore che negli anni lui aveva dovuto ingoiare e poi vommecare nel cesso che si affacciava sulla Marinella.

La lingua bellissima di Monica Acito, non contenta della tanta carne al fuoco, fa scintille e fuochi artificiali. C'è troppo, di tutto. E a lungo andare, prolisso, il romanzo perde l'umorismo e il senso del grottesco iniziali (l'incipit somiglia a “Filumena Marturano”); diventa una tragedia senza fondo, in cui perfino gli elementi del folklore locale assumono connotati luttuosi. Senza equilibrio, fuori scala, “Uvaspina” non si mette scuorno di niente: nemmeno delle sue mani unte d'olio evo; nemmeno della sua pelle che puzza di sigarette di contrabbando, sperma e sangue di polpo.
Come non uscire stanchi dopo un tale stordimento sensoriale? Come, tuttavia, non uscirne grati? L'ho letto in gita in Campania. Mancavo a Napoli da un po'. A modo mio, mi mancava. Ma sul treno del ritorno, a riparo dagli schiamazzi della mia scolaresca e dai clacson dei motorini a picco nei Quartieri Spagnoli, mi sono contraddetto ancora e mi sono detto: per fortuna torno a Torino.

Il mio voto: ★★★
Il mio consiglio musicale: Madame – Nimpha

mercoledì 3 maggio 2023

Recensione: Lapvona, di Ottessa Moshfegh

| Lapvona, di Ottessa Moshfegh. Feltrinelli, € 18, pp. 270 |

È il romanzo che non ti aspetteresti da qualcuno come lei. Un'autrice un po' radical chic; una da salotti raffinati e sbadigli nei caffè lunghi di Starbucks. Questa volta si sporca le mani e retrocede in un terrificante Medioevo, ma con sé porta pur sempre una curiosa ventata pop. In esergo c'è una canzone di un'ex stellina Disney, Demi Lovato, e subito dopo la descrizione meticolosa dei contorcimenti di un efferato bandito condannato al patibolo. Siamo in un villaggio di un Paese indefinito: la bellezza è una colpa incancellabile, la morte una compagna costante, il dolore un ponte verso Dio. In cima alla collina svettano i cancelli, guai a oltrepassarli, del feudatario. Da lì l'esilarante Villiam guarda il mondo dei villici come se fosse una messinscena: per sfuggire alla noia che lo attanaglia, il sovrano costringe la servitù a ridicole danze e organizza piccoli attentati con cui si sollazza alla stregua di spettacoli. 

Era una ragazza forte, ma aveva la morte dentro. La morte è così. Come un mendicante che ti segue lungo la strada. E ti ammazza.

Tra i suoi sudditi c'è Marek, tredici anni e gravemente deforme: un novello Quasimodo, quasi, figlio del gelido pastore Jude e di una madre dai capelli rosso fuoco, di cui non resta che una misteriosa tomba vuota. A salvarlo dalla miseria potrebbero essere Ina, strega centenaria dai seni copiosi di latte, e una impensata ascesa sociale. Ma tra parenti redivivi, scenografiche nozze in rosso e banchetti luculliani a Natale, nessuno è al sicuro; soprattutto se ci si appresta alla nascita di un nuovo Messia e se ci si allontana dall'innocenza primigenia degli umili. Ne ucciderà più l'ignoranza che la spada. Insomma: prendete le ambientazioni cupissime del Trono di spade e mescolatele all'umorismo caustico, al senso del ridicolo, del cinema del greco Lanthimos. Otterrete un soggiorno a Lapvona: una satira sui (nostri?) tempi bui che, a dispetto dei toni parodistici, si fa prendere tremendamente sul serio.

Certe volte qualcosa di nuovo può ricordarti quello che hai perduto.

È un piacere smarrirsi nella sua gustosissima (ma irrisolta) galleria di personaggi borderline, prostrati da pestilenze, ansie e avidità. È un orrore soffermarsi sulle descrizioni più truculente (sadomasochismo, squartamenti, stupri, cannibalismo), rese però irresistibili dalla bellezza sublime delle scrittura. A una prima parte da incorniciare, morbosa e fiabesca com'è, ne segue una seconda sfilacciata e inconcludente: ho avuto l'impressione che la narratrice, onnisciente ma troppo indolente per tirare le briglie delle numerose sottotrame, a un certo punto non sapesse più cos'altro aggiungere, chiuso il suo carosello di ammiccamenti e nefandezze. Come la pesca addentata da Marek nel romanzo, Lapvona nasconde difetti sotto la sua buccia succulenta: un verme. È una natura morta. L'apprezzamento della lettura, e del lauto pasto, dipenderanno dalla suscettibilità del nostro palato.

Il mio voto: ★★★½
Il mio consiglio musicale: Florence + The Machine – King