Io
e mio fratello – in particolare lui, appassionato di quel Cannibal
Holocaust che
conosco bene grazie a digressioni attente delle sue – lo
attendevamo da due anni. Quando i siti a noi cari l'hanno annunciato,
i trailer hanno voluto mostrarcene un pezzo, ma rimandi e
controversie varie hanno fatto sì che, per problemi di
distribuzione, restasse inedito fino a quest'autunno. Quando,
censuratissimo e anticipato dal solito tran tran, in contemporanea
mondiale, ha fatto il suo debutto nel Paese che ha dato i natali al
Ruggero Deodato che Eli Roth – canaglia a cui vogliamo
bene dai dei fasti sanguinosi di
Cabin Fever –
ha voluto ricordare a modo suo. La trama la conoscete: un gruppo di
giovani volontari, in volo sulla foresta dopo una
missione umanitaria, precipita nel campo di una tribù locale, dedita
alla protezione dell'ecosistema e al cannibalismo. Sapete perciò
quel che c'è da aspettarsi: litri di sangue, tensione, le urla dei prigionieri in gabbia. Tuttavia, nonostante il divieto ai
minori di diciotto anni e voci di fantomatici svenimenti in sala, il
sangue scorre in maniera moderata – si aspettano quaranta minuti
per la prima uccisione, la più dettagliata, e poi abbondano fuori
campo furbastri – e il dramma, la crudeltà aspettata, sono
stemperati in siparietti assurdi che fanno scordare, strada facendo,
perfino i pochi lati positivi. The
Green Inferno parte
piano e tardi, dando spunti interessanti che poi riprenderà solo
nell'epilogo, per me un po' stucchevole: manca la denuncia
dell'originale e i personaggi mediocri, che lo spettatore
desidera veder morire dal primo all'ultimo, fatta eccezione per una
Lorenza Izzo dagli occhi spiritati e ammaliatori, non sono capaci di
reggere la baracca. Perché Roth, che piace perché terra terra,
all'inizio si agghinda di ingiustificata serietà. Okay, uno dice, ci
si abitua; ma, dopo uno scorcio di dramma che ha del realistico,
eccoli lì. Terribili e involontari siparietti comici, tra attacchi
di diarrea e fame chimica, tentativi di masturbazione e fuga, che
fanno pensare più all'ultima, lercia commedia di Neri Parenti – lo
conoscete Vacanze
di Natale in Amazzonia?
- che a un atto di ossequio verso una pietra miliare. Queste tribù fuori dalla civiltà, perciò, ha maggiore buon gusto di un Roth
volgarissimo e paradossalmente timoroso. A volte, l'omaggio sembra
avere i tratti dell'oltraggio; e quanto dispiace. (5)
Evan,
californiano, abbandona gli Stati Uniti per l'Italia. Alle spalle,
lascia un lutto e qualche debito: è povero in canna, vive giorno per
giorno e, una volta atterrato, sceglie la Puglia. Louise, di origini
italiane ma con un inglese perfetto, è bella e riservata: ha un
occhio verde e l'altro castano, non torna tardi la sera, ha paura di
innamorarsi. Nella sua città, muoiono misteriosamente numerosi
randagi e, ogni primavera, approdano i turisti stranieri. I due
protagonisti si conoscono, passeggiano, si piacciono. Ma lei ha un
segreto da proteggere, lui soltanto una settimana per amarla. In uno
speciale dedicato ad Halloween, cosa ci farà mai un melodramma indie
di quelli che tanto amo, con i lunghi piani sequenza, le confidenze
intime, il sentore dell'addio sin dalla prima sequenza; l'inizio che,
al solito, suona come un lui incontra una lei? Spring è
la trilogia di Linklater – essendo naturale, realistico, romantico –
secondo Lovercraft. Una variante horror di Prima dell'alba, in
cui il paranormale, in unione a un'originale mitologia, dà un
brivido in più e la nostra bella Polignano a Mare – già al
cinema, in questo periodo, con Io che amo solo te – offre
scorci affascinanti, ma mai stucchevoli: vuoi la fotografia
imprecisa, vuoi quelle ombre antiche che tingono di profondo rosso il
sentimento tra due che si appartengono, ma non potrebbero. Si sa: io apprezzo
gli amori fatti di tante parole e pochi fatti e indagare il
soprannaturale. E i giovani Justin Benson e Aaron Moorhead, registi e
autori di questa piccola rivelazione,sembrano avere confezionato per
me una specie di ibrido ideale – un gradito regalo - con i ritmi
lenti e le battute ironiche, i protagonisti convincenti e gli amori che,
a ogni plenilunio, cambiano squame. Guidati da loro, neanche i quasi
esordienti Lou Taylor Pucci e Nadia Hilker – tedesca, nonostante le forme mediterranee – appaiono senza timone. E dopo
Twilight, preso in giro ma a capo di un nuovo filone tra il
romantico e il paranormale, era estremamente difficile parlare della
storia tra un umano e un'immortale, stando attenti a mode che
uniformano, vuoi o non vuoi, e a miscugli che suscitano ilarità. In Spring, fieramente indipendente, si è così
volentorosi da prendere a riferimento altri modelli, anche se
inconsueti, e così sagaci da rendere credibile il magico. Prima offrirsi un gelato come una coppia qualsiasi,
poi discutere dei difetti di un'esistenza secolare e dei pregi
dell'invecchiare restando fermi. Spring è
molte cose, ma soprattutto il boy meets girl più
originale dell'anno. Allora il
torto più grande che possa farti, in un'ultima notte tra le rovine
di Pompei, non è farti dormire con la luce accesa, spaventarti. Ma spezzarti il cuore. (7,5)
A
anni di distanza dal secondo Hostel,
dopo numerosi film scritti e prodotti e una serie televisiva –
l'affascinante Hemlock
Grove
– da lanciare, il buon Eli Roth torna, nello stesso anno, nello
stesso post, non con uno, ma con due nuovi lungometraggi. Se
The Green Inferno,
con le aspettative elevate e gli alti rimandi, appare una delusione
su ogni fronte – fuori luogo, poco brillante – questo Knock
Knock,
invece, visto appena il giorno successivo, sa fare leggermente dimenticare
l'indicibile pochezza della riproposizione di Deodato e esempi di
grottesca comicità involontaria. E, paradossale ma vero, con una
trama all'apparenza più pruriginosa e uno svolgimento che poteva
prestarsi alla cara, gratuita mattanza, qui Roth –
sempre modesto: inutile specificarlo – sa però mostrare i piccoli
segni di una maturazione giunta in ritardo e una scrittura che
diverte senza grosse esagerazioni. Scelta curiosa. Perché Knock
Knock
– storia del perfetto padre di famiglia che, una notte, decide di
darsi al sesso a tre con le ragazze sbagliate –
ha un incipit da commedia sexy e lo svolgimento,
procedendo con la visione, di un home invasion in cui i cattivi
indossano la gonna corta e la vittima, comprensibilmente incapace di
resistere a un corpo stuatuario, è un uomo per bene, sedotto e
tormentato. Il cast è di bellissimi che, a onore del vero, se la
cavano – accanto alle ninfette assassine Izzo e De Armas, il Keanu
Reeves senza età. Ma, e con Roth ci sarebbe da aspettarsi l'esatto
contrario, le torture raramente sono corporali: Knock
Knock è
un divertente thriller psicologico, una commedia nera; un onestissimo B movie che, nella sua ora e quaranta, si regge a dovere, con una dose
di malizia che – questa volta – sopperisce alla mancanza
di gore. A tratti, sembra un
Hard Candy che
va meno per il sottile – credete al fatto che queste due
conturbanti diavolesse siano ancora minorenni? - o comunque un Funny
Games da
poco: patinato, ben musicato, ma anche dozzinale e rapido come piace
a noi. Per tutti coloro che, sbagliando, pensano che un Eli Roth senza sangue e viscere sia come un
cielo senza stelle. (6,5)
Due
valigie ripescate nelle acque dell'Oregon. All'interno, il cadavere
di una donna e di una bambina. La storia dell'omicida Chris Longo
arriva alle orecchie di Mike Finkel, valido giornalista del Times
dalla reputazione in caduta libera. True Story – annunciata
storia vera sulle intime confidenze tra un autore fallito e un
assassino che ha tutto da perdere – è un nevoso crime da Sundance,
realista e teso. Cosa ci fanno in un faccia a faccia pieno di ritmo
Jonah Hill e James Franco? A sorpresa, una gran bella figura. La
strana coppia non perde mai
credibilità e, in un trasfert freudiano che ha regole sue, si
intrufolano l'uno nella vita dell'altro. La loro amicizia pericolosa,
nata in interrogatori diventati corsi di scrittura creativa, è così
intricata ed intrigante da sembrare finzione; ma, a volte, la realtà
supera la fantasia, e in un mondo in cui i pozzi della cronaca nera
offrono il petrolio più denso, l'esordiente Rupert Goold ci mette i
volti giusti e tanto impegno. Il difetto che è che da True
Story - il romanzo, targato Piemme, sarà in libreria a breve - alla fine ci si
aspetterebbe un colpo di scena che non arriva. Con il rischio di
risultare inconcludente, ma con l'abilità di saperti portare, dopo i momenti da cinema, coi piedi per terra. Ci si ricorda che è
verità quando il coup de theatre non arriva e quando si realizza che
quel criminale – qui interpretato dal Franco più in parte degli
ultimi tempi, eccellente – è di vera carne. Dall'altra parte del vetro
blindato, un Hill ineditamente serio e misurato e una dolcissima Felicity Jones. Ma il titolo, in fondo, annunciava una storia vera. Con tutte le incongruenze del caso. Con tutto ciò che
non sapremo mai. (6,5)
Viaggi
nel tempo e paradossi logici: ingredienti base dello sci-fi misterioso di cui non
posso fare a meno. Coherence –
girato con pochi spicci a casa di amici, ma messo in pratica dopo
dieci anni di meditazione - aveva congetture stuzzicanti e recensioni
positive. Cosa ci fa un altro te, in una o cento case fotocopie della
tua? L'esordio di Byrkit non può certamente vantare interpreti di
prima scelta, ma ha dalla sua teorie inquietanti e suggestive.
Nella prima ora, perfetta, ho visto il grande potenziale; nel
tempo rimanente, invece, il mistero si fa fine a sé stesso –
stupisce, ma sfugge il senso della situazione – e, come dirlo senza
svelare troppo?, si eleva a protagonista la bella Emily Baldoni e la
forza della sua scelta, in una sorta di cupo Sliding Doors
in cui puoi decidere tu quale
porta aprire e quale vita lasciarti alle spalle. E mi sarebbe andata anche
giù, la cosa, se solo avessi avuto più familiarità con il
personaggio; se solo le figure che popolano le case tutte uguali di
Coherence avessero
avuto modo di raccontarsi allo spettatore. Ognuno
ha i suoi ritmi, e Coherence
ha dalla sua un ritmo forsennato, ma l'autore ha riposto troppa fiducia
nell'effetto sorpresa, scarsa cura nella coerenza di relazioni e
rapporti. I personaggi, così facendo, risultano figurine stilizzate, sprovviste della terza dimensione. Problema di una certa importanza, per me, se si decide di girare in interni
limitati e con un cast ristretto. A un certo punto, nel film, si spiega il paradosso del gatto di Schrodinger: c'è un gatto, in una scatola,
con un veleno mortale accanto. Il gatto è vivo o morto? Il gatto è
vivo e morto, o così ho capito, più o meno, finché non apri la scatola e lo
scopri da te. Ecco, Coherence mi
piaceva di più nell'incipit, a scatola chiusa. (6)
Da
Guillermo Del Toro, mi aspettavo qualcosa come Crimson Peak –
elegante, simmetrico, gotico –
sin dagli inizi della sua carriera. Quando vedevo Burton perdersi e
Del Toro – poi passato alla graphic novel: un cambio di rotta che
ho seguito, ma senza entusiasmi – primeggiare, in storie
tutte ricami, ombre e splendori. Il ritorno al genere di
appartenenza, con un horror finalmente – e finemente -
tradizionale, omaggio ai romanzi d'appendice. La storia di Edith,
giovane scrittrice, che sposando un uomo venuto da lontano sposa
anche sua sorella e, di conseguenza, i loro misteri. E, sullo sfondo, c'è una
magione in decadenza che trattiene entità malinconiche e custodisce
gelosamente ogni segreto. Crimson Peak
è per spettatori come me. Quelli che sono in pace con il mondo, con
un castello a pezzi, gli scricchiolii e le nebbie ovunque, una
Jessica Chastain al giorno – qui superba, accanto a una Wasikowska a proprio agio con le eroine romantiche e a un
Hiddleston non abbastanza carismatico - che toglie la
concorrenza di torno. Non
è deludente, ma conforme alle aspettative: le mie, nonostante
un'attesa di mesi e mesi, non tra le più elevate. Fantasticavo su un
lato scenografico mozzafiato – e che aggettivo vago e spiccio che
è, mozzafiato, ma davanti ai merletti di ragnatele, i buchi nel
soffitto che accolgono i tasselli della natura che si spoglia e si
riveste, le strutture affilate alla Dalì, i broccati raffinati e la
neve macchiata dal cremisi dell'argilla è davvero impossibile non
entrare in una fase di muta contemplazione estetica – e mi figuravo
ritagli, originali ma non troppo, ma senz'altro bene assemblati, di
articoli su crimini di sangue e collage di capolavori, a cura di uno
che ama le notti buie e tempestorse e la magnificenza del decadente. La questione non è la paura, bensì il potere
della suggestione; non è un horror tutto fremiti, questo, ma un prodotto
romantico nel senso autentico del termine – eros e thanatos, le
bizze di una natura indomabile, il sublime. E, a volte, si va al
cinema semplicemente per restare con il naso all'insù, incantati. Ho
avuto perciò quel che desideravano gli occhi – visivamente, è
infatti tra le pellicole più affascinanti dell'anno – e un
intreccio sobrio, equilibrato, che non commette passi falsi e, per il
reverenziale ispirarsi a un canone classico, non rischia. Il difetto
è che è un po' come lo immagini, ma poco importa: perché ci sono cose
oggettive, e il bello è bello. Si gioca a carte scoperte sin
dall'inizio – si conoscono i buoni e i cattivi, ma al quadro
globale mancano ancora le motivazioni e la comparsa di spettri
mostruosi, nonché di colpi di scena sparsi qui e lì – e, in un
lungometraggio che ricerca i fasti di una volta, la dimensione eterea
della fiaba nera, non è importante la novità che una scrittura meno
citazionistica – o un altro twist – avrebbe forse conferito al
racconto: alla fine, una Jane Eyre andata
in sposa al consorte di Rebecca, tra le Cime Tempestose della
brughiera britannica e i Giri di vite di
una casa che vibra. Tutt'intorno aggiungete, con una pennellata a
fantasia, il rosso – e in un epilogo cruento non si capirà se, a
macchiare il bianco, sia poi l'argilla o il tanto sangue versato – e
l'ululato del vento. Un sogno – o un bell'incubo? - che avrebbe potuto avere diritto a un architetto migliore. Ma, comunque, un sogno.
(7)
L'horror
è un genere che richiede viva
partecipazione. Visione casalinghe con amici, ed ecco che partono –
dal divano – coretti da stadio e reazioni a catena. Guardare un horror, infatti, è un po' come
assistere a una partita della nazionale. Immancabili le imprecazioni,
i consigli, gli insulti: il chiedersi, per tutto il tempo, io al
posto loro cosa farei. Sicuramene, non commetterei gli stessi sbagli;
sarei più sveglio; correrei più in fretta. Sogno di ogni amante del
genere horror è farne parte almeno per un po'. Ipotesi surreale, ma
estremamente divertente: catapultato nel bel mezzo dell'azione, in
uno slasher vecchio stile, cosa combineresti? Qualcosa di simile
capita a Max, figlia d'arte che, durante una proiezione in memoria
della madre defunta - attrice amatissima che non ha mai sfondato –, finisce risucchiata nel lungometraggio che ha segnato, e bloccato, la
carriera della genitrice. Sullo sfondo di un coloratissimo
campeggio estivo, campo di battaglia di un serial killer
che sembra il gemello di Venerdì 13, s'incrociano così
generazioni distanti e spassosi cliché che, negli anni ottanta come
nei duemila, puntualmente si ripetono: ricordiamo la bella (ma non
per questo crudele) Nina Dobrev, l'adone (ma non per questo stupido)
Alexander Ludwig, la dimessa (ma non per questo sprovveduta) Taissa
Farmiga, insieme a una splendida Malin Akerman – mamma sprint a cui
dire addio di nuovo, in un Ricomincio da capo da
brivido – che, come il suo personaggio, ha vissuto di
serial troncati e occasioni sprecate. Rapporti credibili
e toccanti, omicidi non troppo crudi, battute fulminanti e
citazioni sparse a piene mani conducono lo spettatore – nostalgico,
e perciò conquistato – verso un epico finale, che necessita di un
sequel a portata di mano. The Final Girls è a metà strada tra la parodia e l'omaggio: commedia
horror semiseria, in cui niente è lasciato al caso – anche
l'attorniarsi di attori del piccolo schermo, imprigionati in luoghi
comuni da sventare – e il leitmotiv
di Bette Davis Eyes conduce
lontanissimo, nei mondi vintage e un po' kitsch riscoperti da poco
dalla televisione – state seguendo Red Oaks?
- e in un intelligente gioco di metacinema che non ci godevamo,
forse, da Quella casa nel bosco.
Qualche angelo dotato di abbondante autoironia, lassù, se ne procuri
una copia per il Wes Craven che ancora ci manca: lo adorerebbe. (7,5)
In
un pomeriggio come tanti, Sarah e suo figlio, per viziarsi, decidono
di prendere un taxi anziché il solito autobus. Ma, come dice un
vecchio proverbio, chi lascia la strada vecchia per la nuova sa cosa
lascia e non sa cosa trova. Bob, l'appesantito e anonimo tassista che
dovrebbe portarli a casa in un lampo, è infatti un serial killer.
Nella sua carriera di assassino, in quella vita modesta in periferia
a cui solo l'omicidio ha dato un brivido in più, ha collezionato donne e donne. I loro corpi straziati, sepolti nello
scantinato. Quello è il destino della giovane madre che vediamo
nelle sequenze d'apertura – una Julia Ormond di passaggio – e che
diventerà l'ennesimo ritaglio di giornale nel sempre più nutrito
museo del tassista omicida. Chained è la storia di quel
bambino incatenato al pavimento, poi adolescente, e dello squilibrato
che lo renderà suo personale schiavo, nonché figlio adottivo. Il
thriller di Jennifer Lynch – degna figlia di papà David -, uscito
ormai quattro anni fa e da poco reperibile in versione homevideo, è
un prodotto nudo e crudo. Una quotidiana storia di ordinario orrore
che spicca per una regia personale e ambienti chiusi, che lo rendono angoscioso e verisimile. Il tutto, grazie a una sceneggiatura poco
innovativa ma che ha infinita cura del vissuto dei suoi personaggi e
a due protagonisti che, per tutto il tempo, reggono abilmente il
gioco. Eamon Farren, giovane scheletrico e pallido; un inquietante
Vincent D'Onofrio – al contrario, sovrappeso e paonazzo – che è
un antagonista che si ricorda volentieri per il lavoro minuzioso di
un caratterista che quest'anno, sotto l'occhio vigile della Netflix,
già è stato un esemplare Kingpin. Girato quasi
interamente in interni ristretti, a tratti sembra un realistico
dramma a cui manca soltano il consueto tratto da una storia vera. Tant'è vero che lo spiazzante colpo di scena che
arriva sul finale – imprevisto, ma superfluo – sembra di troppo: d'effetto, al contrario, i passi
attutiti e i rumori che si avvertono mentre lo schermo si fa buio e i
titoli di coda, dopo un'ora e trenta, calano insieme al sipario. A una saracinesca che, come in Saw, ci intrappola
in preda dei nostri demoni. Allora, peggio la compagnia di un mostro
o quella della solitudine? (7)
Mellie
sta per sposarsi. Viaggia in auto, con l'abito bianco nel
bagagliaio, in compagnia di una compilation di vecchi successi degli
anni ottanta e di qualche ripensamento. Finché, come da copione, non è costretta a fermarsi nel deserto. In suo aiuto, un passante che le strappa anche un passaggio. Ma Christian, e nel
copione c'è anche quello, è un predatore sessuale che ha
già mietuto vittime. Per liberarsi di lui, la protagonista imbocca una brusca curva, finendo
fuori strada. L'auto capovolta e lui
a piede libero; lei, al contrario, è lì con un arto bloccato. Contro la fame e la sete, i roditori e una minacciosa
allerta meteo. Il suo aguzzino che va e che viene, guardandola contorcersi. A favore di Curve,
il fatto che non sia l'ennesimo The
Hitcher. La sfida della
protagonista – a lungo sola – ricorda più 127 ore, con un
pizzico vago di L'enigmista. La disavventura di una ragazza in difficoltà, in balìa prima della
natura e poi della violenza degli uomini, si rivela così un survival non male, che non brillerà per originalità e non sarà
ricordato a lungo, ma scorre.
Distribuito dalla Universal e pensato per il noleggio, Curve è stato un
passatempo inaspettatamente valido, in una domenica pomeriggio in cui
cercavo un thriller leggero per riempire il tempo e, se possibile,
questo post qui. L'ultimo film di Iain Softley – e il
regista di Skeleton Key
non è il primo venuto - arriva da noi per vie traverse e si rivela più piacevole del previsto. Ben
diretto, con una tensione che perdura e due soli attori a reggere il
tutto: la carinissima Julianne Hough,
qui anche molto convincente – le curve del titolo chissà che non
si riferiscano proprio alle sue –, e un Teddy Sears sornione e luciferino. (6)
Una
baby sitter paga care le prepotenze verso il piccolo di casa; un
vecchio diavolo e un bambino, suo allievo, vanno in giro a fare
danni; una manciata di amici di mezza età sono terrorizzati da un
gruppo di bambini in cerca di vendetta; l'evocazione di un demone, in
soccorso a un ragazzo oggetto di bullismo; una ragazza seguita a casa
da uno spirito malevolo; due coniugi con il desiderio insano di un
erede; una guerra tra vicini per le decorazioni migliori; Jason
contro un extraterrestre; rapitori senza scrupoli che rapiscono il
bambino sbagliato; una zucca assassina che fa stragi. Dieci registi,
dieci storie, dieci scuse per andare a dormire più tardi – e
magari con la luce accesa. Tales of Halloween, film a episodi
capace di una sua linearità e di una lodevole dose di brillante
ironia, è di un genere – come vi hanno rivelato i miei dubbi verso
l'acclamato Storie Pazzesche – che non tollero. Ma perfino
il me che evita i racconti, le antologie di genere, non ha potuto che
apprezzare. Questa volta, con poche riserve e tante risate. Il film
ha qualche nome promettente alla regia – Bousman, McKee, Marshall
-, qualche volto noto a bordo – ad esempio, occhio ai cameo di
Landis e Dante -, qualche episodio degno di nota – su tutti, gli
efficaci Trick e Ding Dong. Ora i bagni di sangue, ora
l'umorismo nero; ora una beffarda morale, ora la scusa da poco per
una mattanza gratuita. I toni sono leggeri, gli stili vari e il tempo
vola. I vicini mascherati schiamazzano, le nebbie si sollevano e i
bambini – sempre vessati da adulti immorali, dispettosi – si
divertono ad affilare i coltelli. Loro, anche più dei grandi, adorerebbero lo spirito di Tales of Halloween:
quasi natalizio, con le case addobbate, i caminetti accesi, il
divertito gioco di causa-effetto (tu fai qualcosa di sbagliato, loro
ti puniscono) come in Mamma ho perso l'aereo e company. Il senso del contrario e del proibito. Un dolcetto con trappola; uno
scherzetto simpatico, alla giusta distanza dal trash. (6+)
Mi
mancava Baba. Mi aiutava a restare coi piedi per terra. Mi impediva
di rimuginare di continuo sulle cose.
Titolo:
Ragazze di campagna
Autrice:
Edna O'Brien
Editore:
Elliot
Numero
di pagine: 256
Prezzo:
€ 13,50
Sinossi:
La
timida Caithleen sogna l'amore, mentre la sua amica Baba,
sfrontata e disinibita, è ansiosa di vivere liberamente ogni
esperienza che la vita può regalare a una giovane donna. Quando
l'orizzonte del loro piccolo villaggio, nella cattolicissima campagna
irlandese, si fa troppo angusto, decidono di lasciare il collegio di
suore in cui vivono per scappare nella grande città, in cerca
d'amore ed emozioni. Alla sua pubblicazione, avvenuta nel 1960,
l'esordio narrativo di Edna O'Brien, fortemente autobiografico,
suscitò reazioni di sdegno e condanna che andarono ben oltre le
intenzioni di una sconosciuta autrice poco più che ventenne: il
libro fu bruciato sul sagrato delle chiese e messo all'indice per
aver raccontato, per la prima volta con sincerità e in maniera
esplicita, il desiderio di una nuova generazione di donne che
rivendicava il diritto di poter vivere la propria sessualità.
La recensione
Nella
religiosa Irlanda dei primi anni sessanta, si racconta come l'esordio
di Edna O'Brien – giovane e spregiudicata ragazza di paese, che
rifletteva, in quel breve romanzo parzialmente autobiografico, sulle necessità, gli amori, i viaggi – avesse
suscitato immenso clamore. La sua penna, eppure semplice e
delicata, era stata come un bastone in un vespaio. Le sue
riflessioni sulla famiglia, l'istruzione scolastica, il sesso –
prerogative dell'adolescenza di ogni dove e di ogni epoca – avevano
sollevato i ronzii dei benpensanti, le ire funeste dei cattolici. Ragazze di campagne, primo capitolo di una
trilogia che segue, negli anni, la crescita di due migliori amiche
che si amano e si odiano di vero cuore, era il romanzo di formazione
da inserire nell'indice dei libri proibiti, da bruciare pubblicamente
sui sagrati delle chiese. Coma appare, oggi, con le menti aperte e i
giovani smaliziati, questo classico moderno da poco riscoperto e
salvato dal pregiudizio di un pubblico tanto ipocrita quanto
moralista?
Ragazze di campagna – a cui seguiranno La
ragazza dagli occhi verdi e Ragazze nella felicità coniugale:
già in lista, perché il finale
sospeso lascia qualche dubbio e una visione opaca
dell'insieme – mi ha ricordato il primo volume della saga di Elena
Ferrante – da Dublino a Napoli, non cambia molto se si parla di
amicizie al femminile e voglia di altrove – e quei film in bianco e nero,
trasmessi nel tardo pomeriggio, che conservano ancora il loro fascino. Tornare a pubblicare la O'Brien, tornare a
parlarne, è un po' come restituire loro il colore, in un magico
lavoro di restauro: nel tentativo, quasi, di recuperare il tempo
perduto. Poco attirato quando si parla di classici o aspiranti tali,
confuso da chi lo adorava e da chi, al contrario, lo trovava una delusione, l'ho tenuto a mente, ma lasciato in forse. Quando,
al solito mercatino, per due euro, ho portato a casa la nuova edizione Elliot il forse si è
trasformato in sicurezza. Com'è il romanzo su cui ogni blogger ha detto la sua, usando i
toni più disparati? Ragazze di campagna è
la storia dell'adolescente che posa sulla copertina italiana:
Caithleen ha i capelli rossi, le scarpe consumate, una valigia di
cartone con pochi beni all'interno. Alle sue spalle, i campi e un
casolare da abbandonare, dopo la morte della madre e i debiti di un
padre alcolista, ma con la voglia di redimersi. Da qualche parte lì
vicino, se fosse possibile una panoramica, vedremmo la
villa dell'amica Baba; al contario suo, ricca, viziata e
appariscente.
Con un papà a cui non dà il rispetto meritato, una
mamma che sogna il cinema, un fratello spocchioso e una
casa grandissima, piena di stanze e meraviglie, in cui la sfortunata
Caithleen – però più intelligente e coscienziosa –
è sempre la benvenuta. Finché non attira le attenzioni del Signor
Gentleman, uomo attempato e facoltoso, e i suoi voti alti non le
valgono una borsa di studio in città. L'amicizia tra Caithleen e
Baba, allora, si fa simile a quella tra le nostre care Lila e Lenù:
la fedeltà cieca e la competizione spietata. La O'Brien le
seguirà dai quattordici ai diciotto anni, in questo titolo. La vita in periferia,
l'arrivo in una scuola cattolica, la fuga a Dublino: senza
un'istruzione ma con un sogno. Farcela. E, soprattutto, innamorarsi
perdutamente, come succede al cinema. L'autrice, all'epoca della prima stesura loro
coetanea, è attenta agli stati d'animo e agli sfondi; ai cuori in subbuglio e
alle città straniere che cambiano, cambiandoci. Ma anche ai miracoli del trucco, alla vanità delle sue piccole donne, alla caccia
spietata di uomini ricchi e depravati nei riguardi delle due
protagoniste, materiali e sciocchine, che rischieranno di dimenticare –
stordite dagli apertivi e dalle luci sfavillanti di Dublino – la retta via e i lati
positivi di quella loro strana amicizia, mai del tutto disinteressata. Il bello, in Ragazze
di campagna, è che tutto ciò che i più grandi affermano si rivela vero – presenti, e cito i
commenti in copertina, la spontanea originalità, l'ironia,
l'innovazione, lo scandaloso puzzle di desideri femminili – ma, a
prima vista, non si direbbe; sapete? Il brutto, per molti e anche un po' per
me, è quindi che, durante la lettura, se ne senta poco l'importanza. Pregi e
difetti, vizi e virtù, di una scrittura che è lieve, disimpegnata,
attuale: con l'acuto rischio, senza avere i seguiti a portata di mano, di
risultare però senza peso.
Il
mio voto: ★★★
Il
mio consiglio musicale: Tori Amos – Cornflake Girl
Perfino
le brave ragazze hanno la tentazione di rubacchiare gli orecchini in
un centro commerciale. Gli adolescenti ritengono di essere
invincibili. I figli senza difetti, quelli impeccabili, mi
preoccupano molto di più.
Titolo:
Una brava ragazza
Autrice:
Mary Kubica
Prezzo:
€ 4,90
Editore: Newton Compton
Numero
di pagine: 317
Sinossi:
Mia
Dennett è figlia di un importante giudice di Chicago, ma ha scelto
di condurre una vita semplice, lontana dai quartieri alti e dalla
mondanità in cui è cresciuta. Una sera come tante, entra in un bar
per incontrare il suo ragazzo ma, all'ennesima buca di lui, Mia si
lascia sedurre da un enigmatico sconosciuto dai modi gentili. Colin
Thatcher - questo il vero nome del suo affascinante nuovo amico -
sembra il tipo ideale con cui concedersi l'avventura di una notte.
Peccato che si rivelerà il peggior errore della sua vita: Colin
infatti è stato assoldato per rapirla. Ma quando Thatcher, invece di
consegnare l'ostaggio, decide di tenere Mia con sé e di nasconderla
in un remoto capanno del Minnesota, il piano prende una piega del
tutto inaspettata. A Chicago, intanto, la madre di Mia e il detective
Gabe Hoffman, incaricato delle indagini, sono disposti a tutto pur di
ritrovare la ragazza, ma nessuno può prevedere le conseguenze che un
evento tanto traumatico può avere su una famiglia apparentemente
perfetta...
La recensione
Qualche
anno fa, non ci avrei pensato due volte ad acquistare un romanzo come
Una brava ragazza. Le donne, quando si parla di thriller, sono
più brave dei colleghi uomini: naturalmente eleganti, scaltre,
figure da noir. E quando non sono soltanto autrici, ma anche
protagoniste di un mistero annunciato, c'è da aspettarsi più
scaltrezza, una crudeltà che va per il sottile: con loro, la
vendetta è un piatto da servire freddo e, possibilmente, al sangue.
Caso eclatante, uno dei gialli più acuti e spietati degli ultimi
tempi, scritto magnificamente: L'amore bugiardo. Chi
attraverso il folgorante romanzo della folgorante Flynn, chi grazie
alla trasposizione non da meno a cura dal maestro Fincher, si è
arrivati comunque – in un modo o nell'altro – al
cospetto dell'algida Amy Dunne. Ghiaccio bollente, come direbbe
Hitchcock; la donna che nessuno può dimenticare. O piantare in asso.
Se non mi sono dunque avvicinato immediatamente al fortunato esordio
di Mary Kubica, uscito a gennaio e, qualche mese dopo, già
disponibile in una edizione tascabile dal prezzo stracciato, è
perché le fascette promozionali, i commenti che hanno preceduto il
mio, i critici d'oltreoceano sembravano trovare, almeno una volta al
mese, la sostituta lampo di Gillian Flynn – tra fiori d'arancio in
giallo, matrimoni ai ferri corti, attrazioni mortali e ragazze della
porta accanto dal cuore nero. Per un mese e qualcosa, Una brava
ragazza – con un punto
interrogativo accanto – è stato L'amore bugiardo
di turno. La bellezza bionda in copertina, innocente e sinistra come
la Dunst ai tempi di Il giardino delle vergini suicide,
cosa aveva mai da nascondere, con l'indice sulle labbra – per
intimare silenzio – e una vicenda di rapimenti e riscatti? Cosa
avevano in comune “the good” e “gone” girl? Me lo chiedevo da
un po', ma l'ho scoperto soltanto mesi dopo; solo adesso. Quando ho
opzionato per la solita libreria per ripararmi dalla pioggia e per un
romanzo alla mia portata da portare in autobus e poi a
casa, durante un fine settimana che mi avrebbe voluto senza libri sul
comodino. Letto in una manciata di giorni, nonostante il font
piccolo, mi sono trovato, per nulla pentito dell'acquisto, a
definirlo una buonissima opera prima, ma un thriller alquanto piatto. A
colpirmi positivamente, la struttura polifonica, quasi, e
l'accuratezza dell'autrice: a personaggi verisimili, a una gestione
fuori dall'ordinario di ben quattro punti di vista differenti,
purtroppo non corrisponde una stessa originalità, se si parla di
suspance. Il romanzo si snoda in capitoli che alternano voci diverse,
un prima e un dopo.
In una pagina Mia Dennett, figlia di un giudice
senza scrupoli, è prigioniera; nell'altra è finalmente libera,
seppure affetta da una inspiegabile amnesia: dei suoi tre mesi
passati sotto sequestro, ricorda i disegni affidati al suo taccuino,
la compagnia di un gatto randagio e la premura di un orco meno
dispotico di quanto dicano i giornalisti. I narratori sono tre –
Mia, infatti, interverrà soltanto nell'epilogo, per raccontarci una
verità che nemmeno sorprende. Abbiamo
Eve, la madre della protagonista e moglie trofeo: una cinquantenne piacente, affabile, profondamente addolorata dalla scomparsa
di una figlia ribelle e indipendente che non ha saputo proteggere né
da un pericoloso pregiudicato, né dalle parole scortesi di un padre
padrone; Gabe, detective di mezza età di origini italiane: uomo di
buon cuore e buona forchetta, sensibile al fascino di una signora
in lacrime e al richiamo della giustizia; Colin, il rapitore dal
passato triste, che dovrebbe consegnare nelle mani di famigerati
colleghi la ragazza a cui punta la pistola alla tempia, ma che a modo
suo porta in salvo, attirando le attenzioni di delinquenti meno
compassionevoli di lui e delle forze dell'ordine in allerta. In fine,
c'è Mia: venticinquenne che ha rifiutato l'aiuto di una famiglia
altolocata, all'università, per dedicarsi all'insegnamento e vivere
di poco. Sarà così gentile, così perfetta, la
giovane donna di cui, per tutto il tempo, si parla, senza che lei
parli per sé? La neve che cade incessante, con il Natale che arriva,
e una convivenza forzata in un capanno in mezzo al nulla, bastano a
rendere Colin e Mia confidenti.
Per renderli Owen e
Chloe: pseudonimi con cui fingersi, nell'attesa della fine, qualcosa
di più che aguzzino e vittima. Magari, complici. Mentre là fuori
proseguono le indagini e gli struggimenti di una casalinga
inconsolabile, Mary Kubica prende figure agli antipodi e conferisce delicati tocchi romance a un libro
che, almeno per me, funziona più quando parla di sentimenti nati
all'improvviso – dove finisce la sindrome di Stoccolma, infatti, e
dove comincia l'amore? - che di colpi di scena che, in
ritardo, non aggiungono nulla di nuovo a quanto letto. Mi ha ricordato
l'onesto Fragili e Preziose,
ma più ingarbugliato e meno sentimentale; l'esecrabile
Black Ice, che resta più un
siparietto trash che un romanzo degno di questo nome. I suoi limiti
sono in attese mal riposte, ingiustificate, e in etichette che
sbagliano. Una brava ragazza
non è il grande thriller annunciato in copertina, né un thriller
vero e proprio: non abbastanza accattivante, all'acqua di rose.
Tuttavia, sia per l'ottima gestione dei tempi che per un lavoro
certosino con l'uso dei quattro pov, al contrario che nel mediocre
La ragazza del treno,
è un romanzo – ma senza un genere suo – che non sconsiglio.
Grazie a una penna matura e, soprattutto, a un'autrice assai notevole.
Brava, sicuramente più della ragazza del titolo che - dietro
referenze impeccabili e un'aria angelica - forse non la racconta giusta...
Il
mio voto: ★★★½
Il
mio consiglio musicale: Rihanna Feat. Eminem – The Monster
La
camicia pareva pesante, ma poi Ennis si accorse che all'interno ce
n'era un'altra, con le maniche accuratamente infilate dentro quelle
della camicia di Jack. La sua vecchia camicia scozzese persa tanto
tempo prima: sporca, con il taschino strappato, i bottoni saltati,
rubata e nascosta. Eccole là, come due pelli,
una nell'altra.
Titolo:
Gente del Wyoming – I segreti di Brokeback Mountain
Autrice:
Annie Proulx
Editore: Dalai Editore
Numero
di pagine: 51
Prezzo:
€ 9,30
Sinossi:
In
Gente del Wyoming,
Annie Proulx, che ormai si è affermata come una delle poche e
indiscussi eredi della grande tradizione narrativa nordamericana, è
riuscita a fare un piccolo miracolo. L’intreccio è una specie di
ingranaggio esplosivo. I due personaggi centrali sono uomini
semplici, rudi cowboy abituati alle lunghe solitudini delle
transumanze e dei pascoli estivi. Nel desolato paesaggio, tra i due
gradualmente si accende una passione erotica, una vera pulsione
amorosa. Siamo però nel cuore dell’America tradizionale, dove i
ruoli sessuali sono rigidi e le identità tagliate a colpi di accetta
e di autocensure. Questo sentimento “proibito” è quindi
destinato a scatenare conflitti, che sconvolgeranno tutto il loro
mondo. Da questo romanzo e’ stato tratto il film di Ang Lee
“Brokeback Mountain”, vincitore del Leone D’Oro alla Mostra del
cinema di Venezia 2005.
La recensione
“Tu
non hai voluto saperne, Ennis, e adesso quel che abbiamo è Brokeback
Mountain.
Tutto
costruito su quello. Fai il conto di quanti pochi minuti siamo stati
insieme, in vent'anni. Io non sono te. A me non bastano un paio di
scopate ad alta quota un paio di volte l'anno.Tu sei troppo
importante per me, Ennis, figlio di una puttana troia. Vorrei
riuscire a mollarti.” Sono due poveri diavoli, in cerca di un
impiego per l'estate. Si scrutano furtivamente, appoggiati ai loro
pick up rugginosi, e si domandano senza dirselo se troveranno un
punto in comune, spunti per fare quattro chiacchiere, in quei tre
mesi di solitudine, in alta montagna. Sono giovani mandriani, con
ancora le facce belle della gioventù, ma le mani già segnate per la
fatica dei campi: conservano banconote in un barattolo, sognando di
mettere su famiglia e di essere proprietari di un piccolo
appezzamento di terra; finalmente, non più schiavi. Fuori,
tutt'intorno, la natura mostra i suoi volti nascosti, con il sole
battente, la grandine all'improvviso, la neve ad agosto. Dentro, in
una tenda, nel frattempo, Ennis Del Mar – tanto secco che, se non
fosse per gli stivali pesanti, potrebbe soffiarlo via il vento - e
Jack Twist – i denti a zappa, i fianchi larghi, la cintura con la
fibbia dei rodei - scoprono la loro, di natura. In quell'estate di
fatica e passione che va a intaccare, così, vent'anni e due vite
parallele. Un avvenire intriso di malinconia che vive di rari
incontri, spizzichi e bocconi, immensi rimpianti. Struggendosi nel
ricordo di un fazzoletto di terra, un ruscello, un misero sacco a
pelo contro la tempesta. Tutto quello – ed era poco, pochissimo –
di cui c'era bisogno per volersi bene alla luce del sole. Brokeback
Mountan potrebbe smettere di essere una bolla di sapone, un'isola che
non c'è, se tutti sanno – lo raccontano, nelle bettole, contadini ciarlieli – qual è il destino degli uomini
che vivono senza donne, nel sospetto perenne del vicino di casa? Un
acro di felicità vale forse una vita piena di bugie? Per tutto il
tempo, allora, i due immensi protagonisti si fronteggiano, tremanti.
Gli speroni piantati a terra, le braccia ai lati, per prendere
pistole – o scudi, ché a volte serve solo proteggersi –
invisibili. Lo sguardo rassegnato, ma fiero. Occhi che sembrano
lampeggiare e dire: ora lo stritolo, lo ammazzo. Ora lo bacio. Il
cuore vuole una cosa, il corpo un'altra. Messi alle strette, l'uno si
adatta all'altro. Sembra tutto facile, no? Quest'anno, I segreti
di Brokeback Mountain compie dieci anni. All'epoca ero bambino,
frequentavo la quinta elementare, forse la prima media, e la storia
dei due cowboy innamorati mi faceva ridacchiare. Se solo fossi stato
a conoscenza, invece, delle lacrime e dei nervi, ogni volta, in
agguato... Era il duemilacinque. Grandi attori avevano rifiutato il
ruolo, troppo forte l'imbarazzo, e il dramma declinato al maschile di
Ang Lee era stato sottoposto a una censura tanto inspiegabile quanto
spietata. Tante cose sono cambiate, per fortuna, anche se il film,
vietato ai minori di quattordici anni, con l'America che ha detto sì e
Facebook che si è tinto di arcoboleno per qualche giorno, è tutt'ora
destinato a repliche in tarda serata, su canali secondari.
Quando
invece vent'anni fa, dunque dieci anni prima, un altro cowboy
romantico ci aveva mostrato, anche se con toni più melensi, qualcosa
di simile: l'acre faccia del rimpianto. I ponti di Madison County,
come il più impegnato Brokeback Mountain, è il ritratto
dell'amore che, a un bivio, aspetta che la vita – lenta,
inesorabile come un camion dal carico pesante – liberi il passaggio
a due che, da un lato e l'altro della strada, si guardano senza
potersi raggiungere. In mezzo, un mare di pedoni che giudicano senza
clemenza e schiere di coniugi che non possono chiudere un occhio una
volta di troppo. Sergio Leone, parlando di Eastwood, lo diceva dotato
di due espressioni messe in croce: con e senza il cappello. Ennis Del
Mar ha un cappello per tutte le stagioni, invece, e una sola
espressione – è rassegnato; è stato un bambino triste e un adulto
a metà – ed è perciò che strazia quando, nei suoi occhi, spunta
un luccichio, nella scena in cui – dopo quattro anni – rivede
Jack. Lo aspetta con addosso il completo buono: un jeans senza toppe,
una camicia stirata a puntino da Alma, la moglie. Lo chiama piccolo
mio, in quell'intimità spiata da una partner giustamente sospettosa,
giacché non conosce tenerezze, burbero e pragmatico com'è, se non
quelle che rivolge alle sue figlie. E' giusta la sua tristezza? E'
giusta quella di una moglie che lo ama – una dolcissima Michelle
Williams – ma che deve accettare di condividerlo con un altro?
Heath Ledger, qui, e per questo la sua scomparsa è così dolorosa, è
come il giovane Eastwood secondo Leone, ma migliore. Laconico,
scostante, fedele come un cane pastore. Sembra mettersi meno in
gioco, non tenere altrettanto a quel Gyllenhaal chiacchierone e
solare; meno angosciato senz'altro, quest'ultimo, da una sessualità
che, probabilmente, per lui non era un mistero da un po'. Il Jack
Twist sempre in moto, sempre innamorato. Bisognoso di certezze e
piani di riserva – ad esempio, una compagna intelligente e capace
come quella Anne Hathaway in carriera. Ma, come gli rivela
nell'ultimo, indimenticabile confronto, è per Jack che Ennis ha
messo in pausa matrimonio e lavoro.
Per potere scattare alla porta,
pimpante e puntuale, sentendo scricchiolare il suo camioncino sulla
ghiaia del vialetto di casa. Allora non resta che l'eco di quella
dannata armonica scordata e due camicie, appese sulla stessa gruccia,
mai lavate, che sopravvivono, insieme a una cartolina, alla
maledizione dei compromessi e perfino a loro stessi. Fu pioggia di
candidature e qualche statuetta guadagnata – anche se sembra
eccessiva quella a un Ang Lee con un progetto sì coraggioso, ma una
regia, purtroppo, poco più che modesta; i pugni chiusi di Heath
Ledger, straordinario, meritavano indubbiamente riconoscimenti più
del resto – per un film storico: una delle ingiustizie più grandi
commesse dall'Academy – quell'anno, gli preferirono il
dimenticabile Crash – e tra le storie d'amore più
commoventi del decennio passato. Alla sua base, il racconto asciutto,
rapido e indolore di un'autrice Premio Pulitzer. Un'attenta
descrizione di quello che succede intorno a loro, fuori, ma non di
inquietudini laceranti e battiti mancati. Più cronaca che
narrazione, dunque, laddove abbondano le descrizioni paesaggistiche e
scarseggiano, sfortunatamente, gli stati d'animo. Scene in rapida
sequenza; dialoghi calzanti, ripresi per filo e per segno nel
lungometraggio. Ma non ci si sbilancia, non si dice altro che non si
sappia già. Li ha sentiti più Lee – a cui tanto si può
rimproverare, ma non un'emozione latitante: in caso contrario, fatevi
controllare il cuore; c'è qualcosa che non va – che la Proulx.
Valida narratrice, non aiutata da quelli che per me sono i pochi
pregi e i molti difetti della dimensione del racconto. C'è però la
verosimiglianza. La realtà rude che il cinema poi finisce per
abbellire – vedi i protagonisti, scelte secondarie della
produzione, quasi ultime ruote del carro, che sono (o erano) tra gli
attori più corteggiati e richiesti – e il sentimento che la grazia
dell'immagine e la forza di interpretazioni maiuscole, poi, acuisce.
E' così breve, è cosi veloce, che – leggendolo – non si
immagina di trovarsi davanti a una storia grande, entrata
immediatamente, di petto, nell'immaginario collettivo. Avendo visto
già il film, sembra un riassunto. Un racconto basato su una
sceneggiatura, e non viceversa. Se la lettura non è imprescendibile,
la visione sarà al contrario necessaria – stessa cosa, lo scorso
anno, avevo detto parlando del deludente romanzo che aveva ispirato,
negli anni novanta, il triste randez vous tra Eastwood e la Streep.
La vita è breve, l'amore è lungo. Ma, accanto alla persona
sbagliata, nel letto sbagliato, accade il contrario. Gli aggettivi si
invertono. La vita si allunga a dismisura – e come passarla, se sei
condannato a una gioia clandestina? - e l'amore si accorcia – in
incontri tra amanti pieni di vergogna, e in sprazzi di libertà che
ti fanno sentire contento e colpevole. Non sprecate un attimo, perciò.
Per
dire “Jack, io giuro”, usate questa vita. Usate questo amore.
Il
libro: ★★★
Il film: 8
Il
mio consiglio musicale: Gustavo Santaolalla - The Wings
I
mostri non esistono. I fantasmi, i lupi mannari, le streghe sono
fesserie inventate per mettere paura ai creduloni come te. Devi avere paura
degli uomini, non dei mostri.
Titolo:
Io non ho paura
Autore:
Niccolò Ammaniti
Editore:
Einaudi
Numero
di pagine: 216
Prezzo:
€ 10,00
Sinossi:
In
questo romanzo Niccolò Ammaniti va al cuore della sua narrativa, con
una storia tesa e dal ritmo serrato, un congegno a orologeria che si
carica fino a una conclusione sorprendente: e mette in scena la paura
stessa. Michele Amitrano, nove anni, si trova di colpo a fare i conti
con un segreto cosi grande e terribile da non poterlo nemmeno
raccontare. E per affrontarlo dovrà trovare la forza proprio nelle
sue fantasie di bambino, mentre il lettore assiste a una doppia
storia: quella vista con gli occhi di Michele e quella, tragica, che
coinvolge i grandi di Acqua Traverse, misera frazione dispersa tra i
campi di grano. Il risultato è un racconto potente e di assoluta
felicità narrativa, dove si respirano atmosfere che vanno da Clive
Barker alle Avventure di Tom Sawyer, alle Fiabe italiane di Calvino.
La storia è ambientata nell'estate torrida del 1978 nella campagna
di un Sud dell'Italia non identificato, ma evocato con rara forza
descrittiva. In questo paesaggio dominato dal contrasto tra la luce
abbagliante del sole e il buio della notte, Ammaniti alterna, a colpi
di scena sapienti, la commedia, il mondo dei rapporti infantili, la
lingua e la buffa saggezza dei bambini, la loro tenacia, la forza
dell'amicizia e il dramma del tradimento.
La recensione
Ricordo
che, da piccolo, si andava dai miei nonni una volta all'anno. Ci
fermavamo di più rispetto ad ora – due settimane, spesso anche un
mese – e che il viaggio dalla Sicilia alla Campania era un'odissea
di curve brusche e chilometriche attese. Qualche volta prendevamo la
nave e, tutti insieme, ci stringevamo in una cabina: io e mio
fratello lottavamo per il secondo piano del letto a castello e, di
notte, durante la traversata, guardavamo il mare dall'oblò. Per
anni, ovviamente, i miei ci hanno protetto dall'epilogo di Titanic
– in ballo, le nostre preoccupazioni e i loro nervi. Durante uno
degli ultimi viaggi, prima di trasferirci, durante una cena in famiglia – al tempo ero buono buono e
tali ricorrenze non mi annoiavano; noi bambini
sedevamo a un tavolino a parte, vicino al camino – i miei cugini
avevano iniziato a parlare dell'ultimo film che avevano visto al
cinema, accompagnati dalla scuola. Che invidia! L'anno prima, con la
maestra, eravamo andati a vedere, dalle mie parti, il Pinocchio
di Benigni: perfino all'epoca, lo avevo trovato bruttissimo. Avevo
rovinato l'entusiasmo di bambini che avevano
visto, chissà dove, la magia. I miei cugini – e anche la più
piccola di loro, che era addirittura una femmina: somma ingiustizia –
erano stati a vedere Io non ho paura. Quanto avevo sperato di
vederlo anch'io, quel film o, nell'attesa che passasse in tivù, di
leggere il romanzo: non ero ancora un gran lettore, ma mamma –
abbonata a Mondolibri – mi aveva letto a voce alta la trama su uno
dei loro opuscoli pubblicitari. Da amante dei racconti da brivido,
spettatore a tradimento di horror che non avrei dovuto guardare, mi
si era ficcata in testa quella storia: un protagonista con il mio
nome – e, quando vivevo in Sicilia, nessuno si chiamava come me;
forse, solo il proprietario dell'alimentari all'angolo – e la
scoperta di un segreto più grande di lui. Ero convinto che l'altro
Michele, che aveva nove anni come me e viveva al Sud come me, sarebbe
stato in pericolo per – mia ossessione a quell'età – le
sette sataniche. Al telegiornale si parlava tanto delle Bestie di
Satana, dodici anni fa, e, al mio paese, animali fatti a pezzi e
minacce sparse non si sapeva bene se fossero colpa della criminalità
locale o di Lucifero in persona. Nelle ronde in bici con i miei compagni di
classe – anche noi, come i protagonisti, ci spingevamo oltre il
seminato, padroni di un boschetto di ortica e fiori che puzzavano
come carogne – ci sfidavamo a chi diceva più parolacce e a
mostrare coraggio da leoni. Anche in quel caso, ruoli che si
ripetevano: un bullo come Scheletro, che ridacchiava alle mie spalle,
in seconda elementare, minacciando di annegarmi nella piscina
comunale; un migliore amico come Salvatore che, però, non mi ha
tradito mai, anche se la vita e la lontananza ci hanno divisi;
l'unica ragazza del gruppo, tormentata dai maschi come Barbara, ma
assai più graziosa e assolutamente ben disposta ad affrontare
maliziose penitenze; il fratello minore che ti fa perdere il ritmo
della sfida – nel romanzo è una sorella, Maria – e che puoi
insultare solo tu, guai gli altri.
E restavo io, Michele, simile a
Michele lui: quello curioso, anche a costo di farsi male, come il
gatto del detto popolare; quello meno svelto e meno capace degli
altri, anche se era abile nel dissimularlo. Il più sveglio.
Con una mamma bellissima e che correva – e picchiava: quante
punizioni e quante “cucchiarelle” rotte? - forte, un papà
carabiniere – dall'altra parte della barricata, dunque, ma spesso
assente, in anni di fuoco che lo volevano impegnato altrove – e un
fratellino zavorra, portato appresso sotto minaccia: se non porti
Diego, tu non esci: capito? Io non ho paura l'ho
visto una volta sola, qualche anno dopo, ma lo ricordo molto bene: è
uno di quei film che, se sei così fortunato da essere nato nell'anno
giusto, da essere giovane ma non troppo – io c'ero negli anni
novanta, non negli anni settanta, ma ho visto videoregistratori,
musicassette, serate passate a giocare a nascondino o a "un due tre
stella" prima che sparissero, come i dinosauri –, un po' ti segnano.
Perciò non ho mai sentito il bisogno di leggere il racconto che lo
aveva ispirato, prima di quest'anno: quando la bella stagione mi ha
fatto scoprire che Niccolò Ammaniti mi piace tantissimo e che, in
programma per l'autunno, c'era Anna,
il nuovo romanzo. Storia di meridionali e bambini soli al mondo. In
attesa di poterlo dire mio – gioia immensa quando l'ho trovato a
metà prezzo su Libraccio; santi che volano, invece, se Libraccio,
come in questo caso, ti cancella l'ordine – ho
portato con me, in un weekend stranamente silenzioso, quel libricino
che avevo in casa da dieci anni buoni e che, in copertina, aveva il
bollino con il prezzo – appena cinque euro, nell'edizione I Miti
Mondadori – e il giallo dei campi.
Il segnodi
una estate in mutande e canottiera sottile che vorresti non
finisse mai, oppure sì. Il colpo d'occhio, di chi ha talento vero,
con cui si coglie un periodo di passaggio mentre sta passando. Quando
capisci che l'uomo nero non esiste, ma che i mostri sono reali.
Siedono al tavolo della tua cucina. Dormono nel letto che è di tua
sorella: ospiti. Imprigionano i bambini come te nei buchi, in attesa
del riscatto o del Paradiso. La storia degli innocenti di Acqua
Traverse – frazione fantasma con sei case e sei famiglie; acqua che
ti va di traverso e ti strozza; questione di Mafia o 'Ndrangheta, non
di diavoli, il che è peggio – corre come una bici sgangherata nei
mari di spighe; come un brivido che, addosso, ti lascia una sensazione
che permane. Ti racconta, per voce di chi la vive, l'amicizia
commovente con un mostriciattolo tenuto in cattività che non apre
gli occhi, farnetica di orsetti lavatori (ma esistono davvero?) e
città del nord (dov'è, il nord?); di una paura – ma Michele non
ha paura, quella del titolo è una promessa a sé stesso – che in
combutta con le pieghe nere dell'immaginazione trasforma la natura
notturna in un inferno dantesco. Soprattutto, della dolcezza con cui
una vittima può scambiare uno dei suoi diavoli per l'angelo custode.
Allora niente, davanti a due mani tese, sarà più lo stesso. Letto in un pomeriggio, d'un fiato,
più che una nuova lettura, Io non ho paura
è stato una specie di seconda visione. Un film che avevo già visto, e che ho rivisto – per magia – attraverso le parole vivide di un
Niccolò diverso dal solito. Conciso e nostalgico, quando lui invece
è prolisso, pulp e fortemente ironico: abituato alla narrazione in
terza persona – qui, invece, usa la prima – per porterti dire,
dei suoi tanti personaggi, vite e peccati. E io che, da sempre,
immaginavo che Ammaniti fosse questo. Io non ho
paura, invece, è una parentesi
agrodolce che dura un'estate. O forse la meta finale del viaggio? La verità, senza fronzoli, è che Ammaniti ha fede nei bambini, anche se sono condannati a soffrire. Ha fiducia nel domani, anche se pare pioverà. Ma sono i piccoli a insegnare qualcosa ai grandi, nelle sue storie di ordinario orrore: il coraggio, l'amicizia. Il coraggio dell'amicizia. E si potra uscire a giocare, anche con il cattivo tempo - e l'orco - fuori.
Il
mio voto: ★★★★
Il
mio consiglio musicale: Ezio Bosso – Rumba verso il buco
Le
storie ci fanno cambiare. E certi incontri ci rovesciano sul dorso,
come succede alle tartarughe. Ci costringono a lasciarci sopraffare.
Titolo:
Il favoloso libro di Perle
Autore:
Timothée de Fombelle
Editore:
Mondadori
Numero
di pagine: 308
Prezzo:
€ 16,00
Sinossi:
Olia
è una fata che ha rinunciato ai suoi poteri per amore di un principe
cadetto. Ma quando finalmente si ricongiunge a lui, scopre che è
stato assassinato. Oppure no? Infrangendo il confine tra i mondi, il
giovane llian è scivolato in un'altra realtà. Non meno pericolosa
perché il ragazzo smarrito viene accolto nella famiglia Perle
proprio mentre sul futuro degli ebrei francesi si addensano nere nubi
temporalesche. Intanto la fata è condannata a stargli accanto e
insieme lontana, per anni e anni, per tutta una vita umana. Questa è
la storia che il narratore piano piano ricostruisce, a partire dal
muro di valigie che un bizzarro collezionista cela nella sua casa tra
le paludi, là dove il fiume scompare nelle pieghe delle mappe.
Dentro ci sono segreti, risposte, prove. Di cosa? Basta una vita
intera per trovare la strada del ritorno?
La recensione
“La
felicità è quella danza in cui ci si avvicina e ci si allontana,
senza perdersi.”
In
libreria, tappa fondamentale al centro commerciale, anche con il
portafoglio vuoto e il tempo che scarseggia, faccio giri veloci tra
le corsie, sbircio quel libro e quell'altro, soppeso - tra le mani -
la consistenza di romanzi che, dal vivo sono più leggeri o più
pesanti, più sottili o più doppi di quanto pensassi guardandoli al
computer. Faccio in fretta, di solito, per perdermi in un punto in
particolare del negozio. Io e le buste della spesa, la sezione dei libri per l'infanzia.
Lontani dai best seller, racchiusi in una bolla per pochi, sono
immensamente avventurosi e delicati nelle loro copertine splendide e
in trame che non conoscono la volgarità o il contingente. Per
questo, magici come tutto ciò che, per sua stessa natura, è incorruttibile. Mi
distrae, ogni tanto, un cellulare che vibra, una certa ora che si avvicina,
il pensiero che – con me che indugio, con il naso all'insù – i
surgelati si scongelino e le uova si schiudano. Ma quanto sono belle
quelle illustrazioni; quanto? Quanto potenti le promesse di quelle
storie romantiche e fantasiose che – quando avevi l'età – ti eri
negato e, per recuperare il tempo perduto, leggi adesso, con occhi
incantati e animo placido? Tanta indecisione – quale comprare e a
quale grande bellezza rinunciare - e il ricordo di un consiglio
fidato. Eccolo lì, l'ultimo Timothée de Fombelle, sull'ultimo
ripiano: quarantenne francese, creatore di storie universali i cui
titoli, in quei momenti fatidici, mi sfuggivano, ma facevano
senz'altro rima con l'imperativo categorico: “leggilo,
leggilo”. Il favoloso
libro di Perle – dopo le serie Tobia e Vango –
è una fiaba contemporanea e autoconclusiva, un magnifico racconto tripartito che nel
titolo, dal passaggio all'italiano, trova un
meritato aggettivo à la Jeunet e la copertina più bella apparsa
quest'anno su un qualsiasi scaffale al mondo. L'illustrazione di
Mariachiara Di Giorgio coglie, a colpo d'occhio, tutto quello che c'è
da cogliere e, davanti a una simile cura, le parole a che servono?
Il
favoloso libro di Perle è la
meravigliosa favola che la sua veste grafica promette: parigina e
notturna, misteriosa e emozionante. Giocare alle ombre cinesi e, alle
porte del crepuscolo e del sogno, mimare alberi antichi e erbe alte, muri di valigie e
siepi, castelli e bistrot. Tre sagome – per tre grandi
personaggi – che si sfiorano senza toccarsi. Quella di Olia e
Ilian, una fata e un principe separati dal male e uniti dalla
speranza, e di un narratore anonimo, forse lo stesso de Fombelle a
caccia di lucciole e ispirazione, che ricostruisce
lentamente i tasselli del loro breve amore e i cocci del
loro addio. Esiliati “nell'unico tempo e nell'unica
terra dove non si crede né alle favole né alle fate”, condannati
come Orfeo ed Euridice a essere vicini ma a non guardarsi,
riusciranno a provare l'esistenza di un regno impossibile prima che
sia troppo tardi? De Fombelle incanta all'istante, complice una prosa
che è un'autentica carezza, e cattura pian piano, mentre la trama si
infittisce ma tutto si fa chiaro. All'inizio, ci sono
vicende che non si incastrano a pennello: costruite con tessere di un
puzzle diverso – una ambientata in mondi paralleli, l'altra nella
Francia sotto assedio – incuriosiscono e intrigano, perché è
forte il desiderio di sapere cosa abbiano i comune quei Romeo e
Giulietta di fantasia, il figlio adottivo dei coniugi Perle –
ragazzo dalla doppia esistenza e dal doppio nome - e un adolescente
innamorato che fotografa ruderi e rane.
E c'è una tale
simmetria, una tale precisione che, facendo due calcoli, potrei quasi
giurarvi che a ognuna di quelle storie sia dedicato lo stesso spazio.
Anni e attimi, capitoli e frasi, in cui si parla dei viaggi per mare
di un collezionista instancabile – eroe di guerra, orfano,
pasticciere – che cerca le prove del mondo da cui
proviene per spezzare un antico incantesimo. In bagagli di cuoio e
cartone, assurde pareti di una capanna non segnata sulle carte
geografiche, i frammenti di una Atlantide condannata all'oblio –
una biglia, la squama di una sirena, un pezzo di culla, i ricordi di
un amore minacciato da un sovrano crudele – e le
infinite mete di un protagonista che, come il mitico Forrest Gump,
passeggia nella storia dell'occidente e nei mulinelli turbinosi dei
giri di vite. Il favoloso libro di Perle parla
di un bacio maledetto dalle stelle – e i passi degli innamorati che
sono costretti a dirsi addio sono i più belli, perché sembrano una
danza – e del dovere morale di affidare la propria storia a
qualcuno, per morire senza sparire. Quello sono gli scrittori d'ogni
dove: medium, ambasciatori, intermediari con altri mondi. Con Timothée
de Fombelle, così bravo da non crederci, non è scrivere un romanzo,
la questione, ma raccontare una storia nella maniera più nobile. Non è riempire una pagina
vuota, ma recuperare l'arte persa degli aedi – e i castelli
usurpati dai traditori – che non scrivevano, ma cucivano insieme
scampoli di storie. Con filo e inchiostro. Per un lapsus, prima, ho
scritto cucinavano e Word mi ha prontamente corretto. Ma, se di cucina si parlasse, l'imprevedibile storia di Olia e Ilian sarebbe
una delizia da cuocere a fuoco dolce. Un magico elisir in cui la tecnica
acquisita e la tanta pazienza fanno la differenza; l'eredità di una
nonna un po' maga. E finché ci si crede, nelle leggende popolari e
in cibi che stravolgono il tuo umore da così a così, certe
tradizioni, e certe fate, poi non muiono. E chi non muore – però si
ama – alla fine si rivede.
Il
mio voto: ★★★★
Il mio consiglio musicale: Christina Perri –
A Thousand Years
Dentro
certe storie è importante entrare in punta di piedi.
Titolo:
La cacciatrice di bugie
Autrice:
Alessandra Monasta
Editore:
Longanesi
Prezzo:
€ 14,90
Numero
di pagine: 328
Sinossi:
"Tu
sei incredibilmente empatica": è la frase che la protagonista
si sente ripetere fin da quando è bambina, a scuola come a casa. Per
lei, all'inizio, è complicato capire in cosa consista veramente
questa qualità. Di certo sa solo che è un talento e, forse, anche
una condanna. Quando, anni dopo, il suo dono viene notato da un
importante magistrato, per lei si aprono inattese porte
professionali... e personali. Perché quel suo talento va ben oltre
l'empatia: lei ha un orecchio assoluto per la verità, e soprattutto
per la menzogna. Capisce, intuitivamente, tutto ciò che si cela
dietro i racconti e dentro i silenzi delle persone. Diventa perito
fonico forense, addestrandosi e affinando quel talento naturale, e
nel giro di poco tempo si ritrova a lavorare sulle intercettazioni
dei casi di cronaca più sconvolgenti, quelli sulla bocca di tutti,
quelli che finiscono su giornali e telegiornali... Ma viverli
dall'interno è una cosa diversa: tanto entusiasmante a livello
professionale quanto capace di mettere a dura prova la sua resistenza
emotiva. Per svolgere un lavoro così delicato, deve imparare ad
ascoltare analiticamente le voci, a identificarle e a distinguere in
chi parla i momenti di lucidità da quelli di autentica follia. È
una cacciatrice di bugie, sì... Ma a quale prezzo? Diventa sempre
più complicato conciliare il piano professionale con quello
personale. È sempre più arduo "uscire" dalle storie dopo
ore e ore di ascolto delle intercettazioni...
La recensione
Una
matita spezzata in due, un blocco d'appunti e gli immancabili post-it
gialli tutti intorno, macchie d'inchiostro e rimasugli di caffè, un
paio di cuffie e un registratore per ascoltare – come nel
capolavoro del cinema tedesco – le vite degli
altri. Ma anche un elegante anello di fidanzamento, occhiali da vista
alla moda e un po' di confusione per dire che la vanità – insieme
al disordine più studiato – è donna. Quanti, davanti a questa
scrivania a soqquadro, hanno pensato ai tavoli autoptici con i morti,
i cioccolatini, i piccoli indizi e i rossetti d'emergenza di Alessia
Gazzola? In quanti, leggendo che di un esordio si trattava e che Alessia e Alessandra Monasta hanno in comune un'interessante
professione data in eredità alle loro protagoniste, si sono domandati se La cacciatrice di bugie fosse
greve o leggero, un giallo anche un po' rosa o, al contrario, un
poliziesco in piena regola? Curioso per via di una trama che mi diceva una
cosa e una copertina che me ne diceva un'altra ancora, mi sono
avvicinato quasi per caso a una storia che mi sono divertito a inquadrare man mano. Dubbioso sui toni, incerto sulle
intenzioni. Prima ancora di scoprire Alessandra Monasta scrittrice –
e lei, perito fonico forense, ha una prosa sobria e precisa, con
qualche guizzo personalissimo qui e lì -, poche pagine appena per
notare come La cacciatrice di bugie fosse
totalmente diverso da quel che avevo – avevamo - immaginato. La
copertina trarrà molti in inganno, prendendo in contropiede chi cerca
un nuovo chick lit a tinte gialle, anche se – per le storie di
Alessandra – non potrei davvero immaginare qualcosa di alternativo.
Si parla, infatti, di intercettazioni, relazioni sentimentali e
diecimila caffè. Indispensabile, allora, il materiale d'ufficio,
sprazzi di quotidiano, i sottobicchieri che mancano e le scrivanie
ingombre: i casi giudiziari – come gli amori – vanno e vengono e
la capacità di leggere nelle voci altrui incertezze e verità si
rivela esecrabile difetto e somma virtù. Quale uomo potrebbe
liberamente lasciarsi andare davanti a una come Alessandra, donna che
ti legge come un libro aperto?
Quale procuratore, tuttavia,
commetterebbe l'errore grossolano di lasciarsela sfuggire, se – con pazienza e
professionalità – è nota per consacrare giorni e notti al suo lavoro? Più che un romanzo, l'ultimo libro Longanesi sembra una biografia: il diario di una professione di cui ci
interessa sapere di più. L'autrice, sin dall'inizio, non fa nomi:
lecito pensare che sia la stessa Alessadra a raccontare; a
raccontarsi. La narrazione prende avvio in medias res: una chiamata
urgente e la protagonista – quarantacinquenne dalla lunga carriera
e con una sezione dell'armadio piena di completi neri perché, in un
mondo al maschile, deve fare i patti con la sua avvenenza – si
prepara a fornire la sua consulenza per l'ennesimo caso di cronaca,
in una suggestiva Firenze criminale. Un salto indietro e, dal prologo
ambientato lo scorso anno, si passa agli anni novanta: momento assai difficile per iniziare una carriera come perito fonico, con la
Toscana sotto assedio – fin lì, infatti, si sono allungati i tentacoli del terrorismo, senza
dimenticare lo spaventoso modus operandi del Mostro che che ogni
innamorato del tempo temeva. Procedendo in avanti, conciliare incarichi e
privato si fa impossibile – ma Alessandra è una donna che ama le
missioni impossibili, vedrete – e, ogni tanto, in vacanze a Stromboli
durante le quali staccare la spina, ci si rivede con gli amici
d'infanzia e si parla dei nipoti che crescono, dei genitori che si
ammalano, di ciò che va via e poi ritorna, secondo le regole del Karma.
In un piccolo e personale memoir sull'Italia, tra
artificio e spassionata verità, si parla di abuso di potere, isolati
casi di razzismo, stalking, stupro, mentre la cronaca nera fa
prepotentemente capolino – di grande impatto, ad esempio, la
rievocazione del delitto di Erba o della strage dei Georgofili – le
delusioni amorose si sommano ai trionfi professionali. Racconti polizieschi di
lunghezza variabile che spiccano perché visti da una prospettiva
inconsueta; slegati, se non fosse l'esperienza di Alessandra –
personaggio e scrittrice – a farvi da particolare cornice. I difetti: l'attesa
ingiustificata che, sul finale, questa struttura ad incastro genera;
il fatto che – raggiunta la verità – i destini dei colpevoli
restino in bilico. La cacciatrice di bugie è
un orginale poliziesco ad episodi, se proprio tocca dare definizioni,
che si legge come buona narrativa, velocemente e con interesse, pur
sfuggendo ai generi. Una narrazione intrigante e disordinata per
precisa volontà, con un personaggio decisamente affascinante. Ho pensato a
The Mentalist, che
legge nei volti; al Will Graham di Hannibal
che, dotato di forte empatia, immagina di vestire i panni
dell'assassino per arginare i continui fiumi di sangue. Consulenti delle forze
dell'ordine dalle doti straordinarie – questa volta, accurata e
intelligente l'attenzione ai sali e scendi delle voci, ai timbri, ai
colori degli accenti – attorno ai quali potrebbe ruotare un'intera
produzione televisiva. E io una serie su Alessandra – proprio come sulla mitica
Alice Allevi, prossimamente su Rai Uno con il sorriso della bella
Alessandra Mastronardi – la seguirei come un fedelissimo, ad
oltranza.
Il
mio voto: ★★★½
Il
mio consiglio musicale: Denmark + Winter – Enjoy The Silence
(Depeche Mode)
Il
mondo non è perfetto, e non abbiamo il dono
del tempo che hanno tutti gli altri. E abbiamo paura, e ci sentiamo
confusi, e forse facciamo qualche sbaglio. Forse proviamo a
masturbarci con il burro e combiniamo un casino. Ma tu devi morire a
testa alta.
Titolo:
Deathdate
Autore:
Lance Rubin
Editore:
De Agostini
Numero
di pagine: 331
Prezzo:
€ 14,90
Sinossi:
Denton
Little ha diciassette anni e una sola certezza: morirà la notte del
ballo di fine anno. Ma - escluso il pessimo tempismo - nulla di
strano. Perché il mondo di Denton funziona così: tutti conoscono la
data della propria morte, e tutti aspettano il fatidico momento
contando i minuti. Per questo, fino a oggi, la vita di Denton è
stata piuttosto normale: la scuola, gli amici e Taryn, la fidanzata.
Ma ora mancano due giorni al ballo... e Denton sente di non avere più
un secondo da sprecare. Non soltanto perché vuole collezionare più
esperienze possibili in meno di quarantotto ore - la prima sbronza,
la prima volta, e il primo tradimento - ma anche perché le cose
sembrano essersi improvvisamente complicate. Chi è l'uomo sbucato
fuori dal nulla che dice di avere un messaggio da parte di sua madre,
morta ormai da molti anni? È soltanto un pazzo? E allora perché suo
padre ha iniziato a comportarsi in modo tanto bizzarro? D'un tratto
le ultime ore di Denton Little si trasformano in una corsa contro il
tempo, una disperata ricerca della verità. E forse di una via
d'uscita.
La recensione
Per mettere alla prova il loro coraggio, in quello che forse è il mio film
preferito in assoluto, un gruppo di bambini si spingeva fino alle
porte di una casa cupa e decadente, in una notte di metà estate.
Bussavano e, prima di scappare via, si trovavano davanti una strana
signora: curva, spettrale, inquietante. Avrebbero spiato, così,
nell'occhio di vetro della strega, una porzione di futuro.
Precisamente: il momento del loro triste trapasso. Chi caduto da una
scala traballante, chi colto da un imbarazzante infarto sul
gabinetto; chi – come Edward Bloom – destinato, invece, a una
morte senza precedenti; per lo spettatore, un segreto agrodolce fino
all'ultima, magica sequenza. Se fosse possibile, al posto dei
protagonisti, dareste anche voi una sbirciatina dall'altra parte,
oltre il confine, per non essere colti impreparati quando l'ora
fatale si avvicina? Sì, no? E se, in un futuro non precisato, non
aveste possibilità di scelta? Nel mondo di Denton Little – lontano
nel tempo da quel che ci è dato da sapere, ma per il resto identico
al nostro – si nasce con una data di scadenza impressa: una piccola
indagine, un test e, durante il primo giorno di vita, per i genitori
e i parenti, è già possibile conoscere l'ultimo. La data: non
l'ora, né la causa del decesso. C'è chi muore anziano -
per angosciarsi, quindi, sai quanto tempo c'è; chi, come Denton, ha
un'esistenza dal capolinea vicinissimo: lui morirà a
diciassette anni, nel fiore della gioventù. Deathdate - romanzo
di esordio di Lance Rubin – racconta,
in ordine, la storia del suo ultimo giorno al mondo. Un countdown che
ha inizio la mattina, da un confuso risveglio in uno sconosciuto
letto di ragazza, e termina la notte successiva, durante il ballo
della scuola, ma in sospeso; senza svelarvi troppo, mi sembra
necessario dirvi che il finale, infatti, è aperto ma d'impatto e
che, previsto per chissà quando, si aspetta molto volentieri
l'arrivo di un seguito. Il simpatico
Denton, nei giorni direttamente precedenti al grande congedo, almeno,
è sempre stato un ragazzo modello: un amico leale, un figlio
rispettoso, un fidanzato fedele. Cosa non gli si perdonerebbe, insomma, durante
il festeggiamento della sua morte imminente?
Sbandate, pazzie e
incidenti di percorso, infatti, sono permessi quando è l'ultima
volta per dare colpi di testa, osare un po'. Tutto filerebbe come
programmato – un prefunerale in cui a lui, ancora vivo e in salute,
tocca il discorso più atteso e toccante; una veglia con compagni e
parenti in cui, sempre vivissimo, trascorrere i momenti rimanenti in
mezzo al conforto di chi c'è sempre stato - se non fosse per la
comparsa, tra una lacrima e un abbraccio, di episodi curiosissimi,
che vanno dal comico al misterioso. Tradisce la fidanzata
recalcitrante con Veronica, la sorella maggiore del suo migliore
amico; il bullo della scuola, perfino in quella data, vuole dargli
barbaramente filo da torcere; un dottore sbucato dal passato, amico
intimo di quella mamma che è morta mettendolo al mondo, ha un piano
imperscrutabile da rivelargli. Il tutto, mentre con brio si scivola
dalle istanze dello young adult a quelle di una grottesca spy story e
il protagonista, insieme a chi gli è stato carnalmente vicino,
inizia a coprirsi di chiazze viola. Lance
Rubin, con in testa un'idea originalissima e, per il resto, simpatico di suo, esordisce con un romanzo che non è come
sembra. Deathdate è
uno stravolgimento e una libera parodia, per me, di quei romanzi così
numerosi, dopo il boom di Colpa delle stelle,
da meritarsi un sottogruppo tutto per loro, nella narrativa per
ragazzi: li chiamano “sick lit”.
Ma sì, quelli in cui uno dei
protagonisti, dal destino segnato, sta morendo e, con amici e
fidanzate varie nei paraggi, si interroga sul senso del tempo, della
vita, dell'amore; viaggiando e, finché si è in forze e giovani,
vivendo ogni giorno come fosse l'ultimo. Una cosa del genere. Con
Rubin si ride a crepapelle lì dove si dovrebbe piangere e tutto
l'ordine è infranto, tutto è il contrario di tutto: all'inizio il
discorso di Denton al suo stesso funerale – simile a quello di Gus
e Hazel, eppure diverso: uno sfogo semiserio più ironico che
affranto, controcorrente – e a metà le cose da ragazzi –
fraintendimenti, gelosie, inimitabili siparietti in cui l'umorismo
nero e il nonsense vincono a mani basse. Ha lo stesso difetto, però,
che riscontro nei romanzi dalle ore contate; quelli ambientati in
tempo reale: si pensa al qui e ora – il futuro è un buco nero, il
passato è una terra straniera – e ai protagonisti, gente che vive
nel presente, manca oggettivamente un po' di profondità. Resoconto
di notti rocambolesche e libertine in cui tutto o quasi è lecito,
Deathdate comunque
piace per un linguaggio più colorito del solito – qualcuno ha
capito che non esistono diciassettenni che parlano come libri
stampati – e per personaggi da sitcom. Ho pensato alla deliziosa
serie british Scrotal Recall –
comedy in cui una malattia venerea era una scusa per pensare
all'amore dato e ricevuto: agli amori andati – grazie
all'esilarante amico Paolo, alla tentatrice e scostante Veronica,
alla leziosa Taryn, a genitori epici e a chiazze colorate che, come
un virus o la morte stessa, si diffondono. Nonostante la trama sinistra e un epilogo potenzialmente tragico in agguato –
è nei patti che, salvo colpi di scena, il protagonista muoia nelle
battute finali – Deathdate è
più American Pie che
In Time. Un gaudente e
ironico giro di prime (e ultime) volte e non una corsa alla vana ricerca del
tempo perduto.
Il
mio voto: ★★★
Il
mio consiglio musicale: Good Charlotte – Last Night